Taiko digitalizzato: il suono giapponese di un tamburo trasparente

Alzandomi d’un tratto sopra il palcoscenico imprevisto, dinnanzi a un pubblico distratto apro la mia borsa dalla forma circolare. E tutti aspettano non si sa cosa, visto che l’ingombro della musica in particolari forme, come quella che viene associata ai miei trascorsi, non può che richiedere una lunga e laboriosa fase di preparazione. Nessun alto trespolo, dunque, niente orpelli ponderosi. Come nulla fosse, tiro fuori un piatto largo e quindi un altro, subito seguiti dalle otto stecche flessibili di colore azzurro. Cecchino d’occasione della musica, assemblo le due parti, quindi attacco con un cavo il tutto all’amplificatore usato dal mio antecedente in quella sera. E con il fluido gesto di uno spadaccino, estraggo la coppia di bachi (bacchette) attraverso cui produco, nuovamente, il suono della storia!
Selvaggiamente soddisfatti della sottomissione e annientamento della popolazione dell’isola di Tsushima, i capitani mongoli completarono l’appello degli uomini delle loro armi, prima d’imbarcarsi nuovamente sulle navi: era il 1274. Giunti sulle giunche in legno dalla concezione ingegneristica cinese, frutto delle loro precedenti conquiste, i veterani di tante battaglie fecero ciò che i loro àuguri e profeti avevano annunciato con lettura propizia d’interiora e volo degli uccelli: affidarono la propria vita alla natura. Kublai Khan stesso aveva garantito la riuscita dell’operazione! Se non che sull’altra sponda dello stretto mare, i monaci ed i preti shintoisti pregavano per un diverso esito. Ed il caso volle, che qualcuno avrebbe offerto una risposta particolarmente risolutiva. Ora non sto dicendo, in maniera totalmente seria, che Raiden-sama il dio del fulmine e del tuono, dai capelli spettinati posti a incoronarlo come un elmo d’istrice infuriato, sia comparso ad affacciarsi dal castello delle proprie nubi, circondato da quindici oggetti fluttuanti dalla forma di un cilindro attentamente decorato. Nessuno, del resto, racconta di aver visto oppur riconosciuto il simbolo spiraleggiante del tomoe (巴) sopra le facce di ciascuno di essi eppure tutti affermarono, per loro sfortuna, di averlo udito: tuoni e fulmini, fulmini e tuoni, ma soprattutto tuoni, tuoni. Finché l’invasione prospettata, nonostante i presupposti, diventò un massacro; al suono roboante di un tremendo autunno, destinato a far deviare il corso della storia.
L’associazione del tradizionale tamburo giapponese alla manifestazione meteorologica di una tempesta, sia questa un semplice scroscio primaverile o il Kamikaze stesso (神風) vento divino in grado d’annientare un intero esercito in cerca di conquiste d’Oriente, è semplicemente un fattore inscindibile da tali strumenti inclusa la moderna interpretazione offerta dalla compagnia Roland, tramite il suo nuovo prodotto TAIKO-1, perfetto connubio di tecnologia e tradizione. Benché l’originale debba esser stato necessariamente, secondo la mitologia narrata nell’antico testo del Kojiki (“Vecchie Cose Scritte” – 古事記, VII secolo d.C.) il recipiente di riso svuotato dalla dea dell’alba Ame-no-Uzume, prima di danzarvi su furiosamente nel tentativo di attirare nuovamente Amaterasu fuori dalla sua caverna, in cui si era ritirata dopo l’uccisione del cavallo celeste ad opera di suo fratello, il dio delle tempeste Susanoo. Il che dovrebbe bastare a porre in prospettiva questo oggetto con radici assai profonde, e imperscrutabili, nella cultura stessa di un così antico paese….

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Il prestigio e la potenza del makhila, arma da passeggio del popolo basco

Impettito sopra la sua sella, il paladino Orlando guardò ancora una volta in direzione della foresta, lungo la tortuosa strada discendente del passo di Roncisvalle. Una mano sopra il pomolo della sua spada, Durlindana, e l’altra sollevata per proteggersi dal sole, con il guanto d’armatura posto a catturare quel riflesso fastidioso ed insistente: “Mio saggio e fedele Oliviero, compagno d’infinite battaglie, cosa vedi all’orizzonte?” La coppia di paladini finemente equipaggiati, con gli alti cimieri rappresentativi della loro nazione e accompagnati dai vessilli dell’Impero Franco e almeno una mezza dozzina di attendenti ciascuno, stavano tornando in quel momento dalla Spagna sotto il giogo degli infedeli, con numerosi ostaggi ed i preziosi tesori delle città di Guernica e Saragozza. Incaricati da Carlo Magno di sovrintendere alla retroguardia, potevano contare unicamente su una quantità di truppe alquanto limitata e per di più, del tutto priva d’esperienza. “Se i miei occhi non m’ingannano, fratello mio, ciò che vedo muoversi tra gli alberi sono persone. Molte decine, o forse centinaia, probabilmente armate.” Per un attimo senza parole, Orlando sembrò meditare sull’effettiva portata della situazione e la necessità di ritornare a uccidere, per la maggiore gloria della Cristianità: “Dannazione… Siamo stati ingannati dal nostro stesso fratello d’armi Gamo, inviato a stringere accordi di pace! Ancora una volta le truppe dell’emiro Baligante, incapace di accettare la sua sconfitta, ci assalgono senza quartiere. Stammi vicino Oliviero, combattiamo!” Ma esattamente proprio mentre il famoso eroe pronunciava simili parole coraggiose, una nube oscurò per qualche attimo la luce del meriggio. Mentre l’aspetto degli aggressori, d’un tratto, diventava palese: quelli non erano dei veri arcieri, bensì cacciatori. E lì non v’erano lanceri, ma dei contadini con le falci alzate verso il cielo. Mentre al posto degli spadaccini, comparivano pastori, ciascuno armato di uno strano arnese lungo e affusolato, con il pomolo simile a uno scintillante melograno. Adesso la mano sinistra di Rolando, quasi involontariamente, si era spostata al proprio fianco, da cui pendeva il leggendario corno d’Olifante. L’unico strumento che, dando l’allarme, avrebbe avuto modo di salvarli…
Esistono diverse interpretazioni attraverso le tradizioni della storiografia del fatto d’armi svoltosi nel 778 d.C, in occasione del quale le truppe della prima vera nazione europea furono assalite, si dice a tradimento, durante la loro ritirata strategica dalle terre in mano agli arabi di al-Andalus. Accantonando momentaneamente tuttavia il resoconto semi-leggendario che compare nel poema in versi della Chanson de Roland, mirato ad equiparare l’uomo d’armi che muore per ciò in cui crede al martire cristiano diventato santo, oggi l’interpretazione moderna di una tale circostanza vede le retroguardie dei franchi sconfitte da un qualcosa (o qualcuno) che semplicemente, non avrebbero mai potuto prevedere. Proprio mentre varcavano gli alti passi montani della catena dei Pirenei, Orlando e gli altri avevano, in parole povere, incontrato i baschi.
Probabilmente ne avrete sentito parlare: di come questo popolo, da sempre in grado di preservare la propria indipendenza culturale (se non talvolta, quella politica) tra le zone rurali situate tra Francia e Spagna, talmente diverso dai propri vicini che qualcuno ha addirittura ipotizzato che potesse discendere dalla nazione perduta di Atlantide. O in maniera solo lievemente più scientifica, dall’uomo di Cro-Magnon stesso, attraverso una linea ereditaria tutt’altro che indoeuropea. Casistica esemplificata dalla lingua estremamente distintiva dell’euskara, dalle tradizioni religiose legate al culto ctonio di divinità del tutto ignote altrove ed una ricca selezione di esclusive tradizioni sociali, culinarie, architettoniche ed artigianali. Di cui forse il makhila, bastone, simbolo di prestigio e al tempo stessa arma in caso di necessità, costituisce oggi uno degli orpelli maggiormente riconoscibili e rappresentativi. Specie quando si considera come, in casi particolari, anche soltanto un singolo esemplare di tali oggetti possa raggiungere il costo di 1.000 o più euro…

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In un vortice di fuoco e vapore, l’antica scavatrice continua il suo lavoro

Possiede un fascino possente, non vero? Una prestanza polmonare, ed un pulsante, perspicace senso di palese funzionalità: il vaporum. Una forma d’energia tra le più antiche note all’homo super-super-sapiens, specie cui dovremmo appartenere, almeno in linea di principio, fin dalle primissime propaggini della Rivoluzione. Industriale, qual’altra… Quel momento della storia in cui il calore, in quanto tale, diventò veicolo di una feconda via trasformativa. Da uno stato all’altro della materia e a seguir da questo, fuori dalla stasi e dentro il movimento, per cambiare o per risolvere una qualche problematica questione. Per esempio, postuliamo: che in un lu-ungo continente verticale, esista un istmo (si fa per dire) largo “appena” 82 Km. E che se soltanto qui potessero passare, navi e imbarcazioni (oppur che altro) Finalmente! Non dovremmo più sentir parlare di un Passaggio su a Nord-Ovest, o il tremendo frullatore di fasciame e marinai che eravamo soliti chiamare Capo Horn; ma purtroppo un uomo, indipendentemente dalla sua ottima forma fisica, difficilmente può spostare più di nove piedi cubici di terra nel corso di una singola sessione di lavoro. Laddove certe macchine, certi magnifici apparati, già nel 1904, potevano arrivare fino a a 300. Questa non è dunque la storia, consumata in mezzo alla brughiera inglese, di quei primi investitori di una simile tecnologia; bensì l’epica battaglia, combattuta a colpi di carbone, fuoco e aspettative, che venne combattuta all’apice di tale Era: tra noialtri, esseri umani, e la natura, intesa come stato pre-esistente delle cose.
Ma la Bucyrus di Milwaukee, sussidiaria dell’odierna CAT (nonché fornitrice di 77 delle 102 scavatrici usate per portare a termine la più grande opera d’ingegneria della storia) non poteva certo immaginare di scavare un canale a Panama, oppur le fondamenta di un enorme grattacielo newyorkese ad ogni volgere di luna nuova. Ecco quindi che tra i suoi concorrenti di mercato, a partir dal 1910, si palesò la Ball Engine Co. di Erie, Pennsylvania, specializzata nella produzione di un diverso tipo di pala meccanica, più piccolo e compatto. Una letterale Smart-Car dell’epoca vigente: nondimeno, totalmente in grado di assolvere ai suoi compiti di volta in volta determinati. Questo esemplare del modello Tipo “A” con doppi pistoni, risalente all’anno 2015, è stato ad esempio acquistato nel 2012 dalla Compagnia Ferroviaria canadese di Statfold Barn, proprio al fine di venir esposto dinamicamente nel corso di fiere e riunioni a tema, mentre svolge un’opera che ancora appare, totalmente, in grado di portare a termine dall’A alla Z. Come qui dimostrato dalla squadra estremamente ridotta di manovratore e fuochista, laddove esemplari più massicci della stessa macchina tendevano a richiedere 5 o 6 membri dell’equipaggio, anche soltanto per entrare nel proficuo mood operativo. Già perché il carbone non si spala da solo, così come l’acqua non raggiunge il serbatoio in modo automatico, o i complessi comandi relativi all’instradamento di tutta quella potenza si manovrano con una letterale mano sola. Ancorché molteplici passaggi di miglioramento avessero trovato la realizzazione, da quel primo esempio risalente al 1839 di pala meccanica, costruita dal giovane inventore di Pelham – Massachusetts William Otis. Poco prima che morisse, a soli 26 anni, in circostanze che la storia sembrerebbe aver dimenticato…

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Il destino musicale di una scatola di sigari cubani

Quello che l’americano fabbricante di strumenti Del Puckett sta tenendo in mano potrebbe anche sembrare, superficialmente, un oggetto privo di raffinatezza o una particolare storia. Costruito per far divertire un bambino, come mero passatempo o per far pratica nelle arti manuali, piuttosto che in quelle capaci di coinvolgere l’orecchio umano. Questa forma quadrangolare, con ancora il marchio di un produttore di tabacco chiaramente in vista, dietro le tre corde ben tese, mediante l’uso di una serie di cavicchi, al termine di un’asta ricavata da una serie d’assi incollate l’una sopra l’altra. Eppure qualche dubbio che un simile personaggio, dal ruolo di assoluto primo piano nel suo campo, non sia qui soltanto per scherzare, inizia a palesarsi non appena lui si mette a strimpellare con la mano destra sopra il corpo principale dell’oggetto, mentre l’altra digita agilmente una variegata selezione di partiture, spontaneo frutto di uno studio lungo e articolato sul tema di come produrre molto, però partendo da poco. Certo: ciò che siamo oggi chiamati a giudicare, non è un gioco da ragazzi, bensì la miglior rappresentazione possibile di quella che in patria è conosciuta come cigar box guitar: la prova che non servono centinaia, oppur migliaia di dollari, per garantirsi la possibilità di creare musica degna di essere discussa ed apprezzata da chiunque. Bensì soltanto l’intento creativo, un po’ di conoscenza e quella che in senso universalmente lato, viene spesso definita “la spazzatura d’altri”.
Torniamo quindi, adesso, alle ultime battute di quella lunga pagina che fu lo schiavismo nordamericano. Quando verso la prima metà del XIX secolo, le ampie fasce di popolazione portate via dall’Africa giunsero al di là del mare, con tutto il loro ricco repertorio di storie, leggende e tradizioni musicali. Così che, senza un ruolo sociale che fosse diverso dai lavori forzati, né spazio per esprimersi in un mondo solennemente ingiusto, essi scelsero di dare sfogo alla propria creatività nell’unico modo che gli fosse rimasto: producendo musica per i propri fratelli e sorelle di sventura, affinché niente, di tutto ciò che avevano vissuto, potesse essere completamente dimenticato. Ma i mezzi e le risorse disponibili, ovviamente, erano molto limitati. Tanto che sarebbe stata l’universale arte di arrangiarsi, più di ogni altra cosa, a farla da padrona. Al termine della guerra civile quindi, dopo il 1865 e mano a mano che le truppe nordiste avanzavano verso meridione, i più inclini all’arte tra gli schiavi liberati iniziarono a cercare un senso alla loro passione, organizzandosi in quelle che sarebbero passate alla storia con il nome di jug bands. Dal nome in lingua inglese della giara o bottiglione che, soffiandovi all’interno con preciso metodologia, produceva un suono roboante, perfetto per accompagnare le prime timide espressioni di quel mondo le cui ramificazioni avrebbero ben presto dato vita al blues, jazz, ragtime e spiritual. La quale risultava accompagnata, nella maggior parte dei casi, da almeno un’altra coppia di strumenti “fatti in casa”: il basso della bacinella (washtub) o come viene chiamato in gergo tecnico bidofono, costituito da un recipiente capovolto per far cassa di risonanza, con sopra infisso un bastone verticale dotato di lunga corda vibrante, ed ovviamente, l’imprescindibile cigar box guitar.
A questo punto senza inoltrarci eccessivamente nella storia dei sigari verso il fondamentale periodo storico a seguire, basterà identificare gli anni ’50 e ’60 dell’800 come il momento in cui i produttori di tali oggetti iniziarono a immetterli sul mercato all’interno di confezioni da circa 20-30 pezzi, piuttosto che i tradizionali scatoloni da 100 o più, riempiendo in questo modo negozi e case di particolari cassette in legno, spesso dall’aspetto ornato per finalità di marketing, perfette al fine di costituire la cassa di risonanza di un piccolo strumento a corde. Così che bastava, a quel punto, aggiungervi le stringhe prelevate da una zanzariera, al fine di ottenere questo approccio alternativo a trarre musica dalle peggiori circostanze, eppure nonostante tutto, degna di venire riprodotta ancora adesso. Eccome…

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