Quello che l’americano fabbricante di strumenti Del Puckett sta tenendo in mano potrebbe anche sembrare, superficialmente, un oggetto privo di raffinatezza o una particolare storia. Costruito per far divertire un bambino, come mero passatempo o per far pratica nelle arti manuali, piuttosto che in quelle capaci di coinvolgere l’orecchio umano. Questa forma quadrangolare, con ancora il marchio di un produttore di tabacco chiaramente in vista, dietro le tre corde ben tese, mediante l’uso di una serie di cavicchi, al termine di un’asta ricavata da una serie d’assi incollate l’una sopra l’altra. Eppure qualche dubbio che un simile personaggio, dal ruolo di assoluto primo piano nel suo campo, non sia qui soltanto per scherzare, inizia a palesarsi non appena lui si mette a strimpellare con la mano destra sopra il corpo principale dell’oggetto, mentre l’altra digita agilmente una variegata selezione di partiture, spontaneo frutto di uno studio lungo e articolato sul tema di come produrre molto, però partendo da poco. Certo: ciò che siamo oggi chiamati a giudicare, non è un gioco da ragazzi, bensì la miglior rappresentazione possibile di quella che in patria è conosciuta come cigar box guitar: la prova che non servono centinaia, oppur migliaia di dollari, per garantirsi la possibilità di creare musica degna di essere discussa ed apprezzata da chiunque. Bensì soltanto l’intento creativo, un po’ di conoscenza e quella che in senso universalmente lato, viene spesso definita “la spazzatura d’altri”.
Torniamo quindi, adesso, alle ultime battute di quella lunga pagina che fu lo schiavismo nordamericano. Quando verso la prima metà del XIX secolo, le ampie fasce di popolazione portate via dall’Africa giunsero al di là del mare, con tutto il loro ricco repertorio di storie, leggende e tradizioni musicali. Così che, senza un ruolo sociale che fosse diverso dai lavori forzati, né spazio per esprimersi in un mondo solennemente ingiusto, essi scelsero di dare sfogo alla propria creatività nell’unico modo che gli fosse rimasto: producendo musica per i propri fratelli e sorelle di sventura, affinché niente, di tutto ciò che avevano vissuto, potesse essere completamente dimenticato. Ma i mezzi e le risorse disponibili, ovviamente, erano molto limitati. Tanto che sarebbe stata l’universale arte di arrangiarsi, più di ogni altra cosa, a farla da padrona. Al termine della guerra civile quindi, dopo il 1865 e mano a mano che le truppe nordiste avanzavano verso meridione, i più inclini all’arte tra gli schiavi liberati iniziarono a cercare un senso alla loro passione, organizzandosi in quelle che sarebbero passate alla storia con il nome di jug bands. Dal nome in lingua inglese della giara o bottiglione che, soffiandovi all’interno con preciso metodologia, produceva un suono roboante, perfetto per accompagnare le prime timide espressioni di quel mondo le cui ramificazioni avrebbero ben presto dato vita al blues, jazz, ragtime e spiritual. La quale risultava accompagnata, nella maggior parte dei casi, da almeno un’altra coppia di strumenti “fatti in casa”: il basso della bacinella (washtub) o come viene chiamato in gergo tecnico bidofono, costituito da un recipiente capovolto per far cassa di risonanza, con sopra infisso un bastone verticale dotato di lunga corda vibrante, ed ovviamente, l’imprescindibile cigar box guitar.
A questo punto senza inoltrarci eccessivamente nella storia dei sigari verso il fondamentale periodo storico a seguire, basterà identificare gli anni ’50 e ’60 dell’800 come il momento in cui i produttori di tali oggetti iniziarono a immetterli sul mercato all’interno di confezioni da circa 20-30 pezzi, piuttosto che i tradizionali scatoloni da 100 o più, riempiendo in questo modo negozi e case di particolari cassette in legno, spesso dall’aspetto ornato per finalità di marketing, perfette al fine di costituire la cassa di risonanza di un piccolo strumento a corde. Così che bastava, a quel punto, aggiungervi le stringhe prelevate da una zanzariera, al fine di ottenere questo approccio alternativo a trarre musica dalle peggiori circostanze, eppure nonostante tutto, degna di venire riprodotta ancora adesso. Eccome…
schiavitù
Formiche nate schiave nelle tenebre di un sottosuolo ignoto
Considerando il senso della più efferata e pervasiva malvagità, apparirà fondamentalmente chiaro come tale intento non possieda simboli, ideologie o bandiere. Essendo il risultato totalmente naturale, forse l’unico possibile, di un semplice senso del bisogno percepito, il desiderio di risolvere i propri problemi, anche se a discapito della sopravvivenza, serenità o prosperità d’altri. Da un simile punto di vista sarebbe assai difficile riuscire a mantenere l’opinione vaga secondo cui gli animali sarebbero “migliori delle persone” a meno che, biologicamente e tassonomicamente parlando, le creature oggetto di tale stereotipo debbano essere soltanto cani, gatti domestici, pacifici bovini o spensierate capre della fattoria. Poiché certo, il leone mangia la gazzella mentre è ancora viva, ma agisce “In modo totalmente privo di malizia”. La vespe sanguinaria depone le sue uova dentro il bruco, destinato ad essere sbranato lentamente dalle larve risultanti, solo perché “Non conosce alternativa”. E 270 diverse specie di imenotteri sociali dei generi Formica e Polyergus sottraggono centinaia o migliaia di pupe dei propri vicini con una sorta di sanguinaria spietatezza istituzionalizzata dall’evoluzione, soltanto per trasformarle nelle schiave della propria occulta società. In forza di… Un istinto senza provenienza? La scelta imposta dalle circostanze? Oppure il bisogno di… Non essere cattive, soltanto disegnate in questa orrida maniera?
Ci sarebbe molto da dire, su questo particolare atteggiamento e il modo in cui ricordi, anche troppo da vicino, la pratica umana portata avanti e concessa dai governi di particolari zone geografiche fino ad epoche scomodamente recenti. Ed invero praticata nei tragici fatti, ancora oggi, sebbene forse in modo meno schietto ed evidente. Oppur sulla maniera in cui i figli non ancora autosufficienti di un diverso formicaio vengono afferrati con la forza, da formiche con mandibole perfezionate a tale scopo, e trasportate fino al buco nero di un diverso luogo dell’artropode esistenza. Dove, al raggiungimento dell’età lavorativa, si metteranno semplicemente a fare ciò per cui erano venute al mondo, però per il benessere dei loro stessi catturatori: servire, riverire, trasportare il cibo ed imboccare, addirittura, chi ebbe l’ardimento di modificare il senso stesso della loro semplice vita. Il che pone inerentemente il fondamentale interrogativo di come, esattamente, tutto questo sia possibile, specie quando si considera le complicate contromisure previste dai diversi formicai, per riconoscere gli appartenenti a una specifica nazione, mediante odori feromonici o altri segni chimici perfettamente calibrati. Ed ecco, dunque, perché l’età dei servitori sottratti ai loro padri e madri debba essere per forza tanto giovane. Affinché gli agenti di un simile misfatto possano praticare l’imprinting in tempo utile, mediante l’impiego di un cocktail d’ingredienti il più possibile simile a quello della specie trascinata, volta per volta, sotto la propria inviolabile autorità. Ed è proprio per questo che ciascuna specie schiavista, in genere, deve specializzarsi nel rapimento e la “programmazione alternativa” di una specifica genìa, il più possibile simile geneticamente e chimicamente alla propria stessa implicita natura, secondo la cosiddetta regola di Carlo Emery, dal nome dell’entomologo italiano che per primo ebbe ad elaborarla nell’ormai distante 1909. Perfettamente rappresentata nel caso delle Polyergus mexicanus rossastre mostrate nel video di apertura, riprese presso il sito californiano della Sagehen Creek Field Station da ricercatori dell’Università di Berkeley, e delle loro vittime appartenenti alla specie cosmopolita delle simili, ma ben più scure Formica fusca. Nella scena tipica di un incontro che infinite volte dev’essersi ripetuto, nell’intero vasto e variegato territorio nordamericano…