I nuovi pasti telematici delle ragazze giapponesi

Girl Big Eater

Yuka, cosa hai messo sopra la tua tavola quest’oggi? Dieci scatole per 4 Kg di spaghettini in busta, quel prodotto essiccato che noi definiamo per antonomasia ramen ma che può in realtà essere costituito da ciascuna delle innumerevoli varianti della pasta lunga proveniente dall’Oriente: i pho del Vietnam, i kanom chin della Thailandia, i myeon coreani, addirittura, benché sia improbabile trovarli al supermarket, i gyatog tibetani. Ma soprattutto, cosa che il prestito linguistico non evidenzia, la vera quintessenza di tutte queste diverse cose, ovvero l’insieme dei diversi piatti regionali della vera Terra di Mezzo, quella Cina che fu culla di culture ed invenzioni millenarie. Tra cui il chāu-mèing (espressione arcaica) la pietanza che consiste nel prendere i noodles, metterli sul fuoco e friggerli leggermente, prima dell’aggiunta di una lunga serie di ingredienti. Fra le innumerevoli sapienze alimentari trasportate all’estero durante la lunga e continuativa diaspora cinese, forse nessun’altra ha avuto la fortuna di questa, che si ritrova per ciascun paese connotata da un diverso sincretismo. In Brasile, ad esempio, vengono mangiati al dente, con carne di pollo, gambero o maiale. Nella versione statunitense, che viene indicata con il termine chow mein, oltre a queste cose si ritrovano arricchiti con il sedano e la cipolla, il tofu ed altre cose. Talvolta, vengono addirittura messi in un panino. Ed in Giappone…In un paese molto più vicino alla fonte, sia dal punto culturale che geografico, questo modo di mangiare gli spaghetti sa trovare molti estimatori. Non è infatti insolito trovarlo, servito nelle sue diverse varietà più genuine, nei ristoranti delle varie chinatown, che punteggiano metropoli da 6 milioni di abitanti. Ma quel mondo alimentare è ancor più spesso collegato, nella mente dei nativi, ad un particolare tipo di prodotto presto-pronto, venduto in confezioni attentamente sigillate. Non così diverso, nella sostanza, a quell’ultima moda delle nostre tavole, il ramen istantaneo di cui sopra, che ha ultimamente trovato produttori inaspettati anche in aziende prettamente nazionali. Dopo una giornata lunga e faticosa, non importa quanto si sia stanchi: lui c’è. Senza l’aggiunta di ingrediente alcuno, tranne la bustina con la polvere fornita assieme a quell’intreccio di semplice cibo, da mangiare, possibilmente, davanti allo schermo di un PC o televisione. Zero complicazioni, mono-porzioni. Nessuna perdita di tempo. Il carburante degli astronauti del futuro, oggi stesso e qui per te, pronto per la perforazione ad opera di una sacrilega forchetta (hashi dannazione, dove sono le tue paia di bacchette!) Ciò detto, è chiaro che una tale soluzione stanca presto. Difficile, almeno per noi praticanti innati della variegata dieta mediterranea, apprezzare un tale piatto giorno dopo giorno, così ripetitivo, sempre uguale al suo sapore. A meno di non farsi prendere, diciamo, dall’entusiasmo!
Guarda, Yuka. Guarda Yuka come mangia il suo chow mein: nella grande ciotola laccata che è un po’ un simbolo e un emblema, che puntualmente lei riempie, giorno dopo giorno, allo scopo di coinvolgere i suoi molti fan di tutto il mondo. Conosciamo il segno e il passo dell’impresa: una Food Vlogger, dunque (ciò che i coreani chiamano mukbang) l’ennesima rappresentante di quell’innovativa categoria pseudo-professionale che consiste nell’immortalare i propri dolci o amari pasti solitari, possibilmente in diretta, per un pubblico che guarda per conoscere, capire, forse trarne qualche tipo di perversa soddisfazione. Vedendo così sacrificata, sull’altare delle diete dilaganti, almeno una giovane mangiatrice, disposta a consumare, divorare senza un grammo di rimorso, tutto quello che gli capita sotto mano. Eppure ancora magra ed attraente, nonostante tutto? Qui dev’esserci un inganno o un qualche astuto diabolismo…

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Che succede se si strucca un occhio coreano

Korean Eye

In un mondo all’incontrario, ciascuno di noi nascerebbe con già iscritto nel suo codice genetico l’aspetto che considera ideale. Piuttosto che dover convivere con l’ansia, e modificare i ritmi della propria vita, sulla base di quel desiderio apparentemente futile ma totalmente innato, l’anèlito profondo ad apparire affascinanti, saremmo sempre come truccati, all’ora del risveglio. I capelli perfettamente a posto, il rossore delle labbra pari a quello di una superba ciliegia appesa all’albero della cuccagna. Ma poiché il mondo invertito e quello perfetto, nel confronto dei reciproci bisogni, non si trovano in cantoni paralleli o sui pioli della stessa scala, da un tale ipotesi trarrebbe origine la tale problematica: il bisogno, ad ogni fine di giornata, d’applicare su stessi un metodo d’imbruttimento (per lo meno, percepito) e ritornare ad uno stato di apparenza inadeguata. Così YouTube, con i suoi ricchi archivi di ragazze intente ad applicarsi ombretto, due dita di mascara e make-up assortito innanzi all’obiettivo della telecamera, mostrando tecniche acquisite con la pratica e l’impegno, pullulerebbe invece della soluzione contrapposta: loro che immediatamente concentrate, come guidate da una forza e una pulsione senza un senso, tenterebbero di ritornare un po’ “normali”. Scene esattamente come questa, realizzata per gioco da una ragazza coreana e circolata su scala globale tramite i soliti canali imponderabili dei media virali, in cui lei si toglie il trucco laboriosamente, da una sola parte del suo volto e tutto intorno all’occhio destro. Bagna una salvietta e la strofina, in senso circolare e dunque longitudinale, scosta i suoi capelli e poi la passa sulla fronte. Stranamente, a un certo punto, quella cosa la preme con forza sulla palpebra e poi lì la lascia, per 5, 10, 15 secondi. Trascorso un tale tempo, scopre ciò che resta del suo volto e per un attimo, un secondo solo, lo spettatore resta senza fiato: l’occhio destro, praticamente, è scomparso. Ciò non significa, del resto, che la damigella in questione tale bulbo ce l’avesse soltanto dipinto, o di vetro e cose simili. Si tratta soltanto della cessazione di una sorta di effetto speciale, con l’enfasi aggiunta del fatto che l’altra parte del suo volto, volutamente risparmiata dal liquido struccante/il sapone/la trielina (o quel che è) resta esattamente come prima: con una proporzione occhi-naso-bocca che ci appare estremamente naturale. Pure troppo, soprattutto se si pensa che in effetti non lo è in alcuna etnia, tranne quella plasticosa delle bambole di Barbie! E tanto meno per un viso dalla provenienza asiatica, che da prassi logica dovrebbe presentare determinate caratteristiche somatiche, tra cui quelli che tanto prosaicamente, eppur con innegabile efficienza, il mondo definisce gli occhi a mandorla, ovvero sottili. E che un recente trend, sempre più diffuse nella triade più discussa dei paesi dell’Estremo Oriente (Cina-Corea-Giappone) tende a considerare evidentemente indesiderati, conduttivi ad un’estetica retrò…Spiacevole…Trascurata, assieme alla pelle scurita dal sole o un volto troppo grande e dunque considerato volgare. Il fatto è che un globo più compenetrato nella superficie di una faccia, ovvero protetto da una pelle spessa e un’orbita ossea meno pronunciata, ha bisogno di una palpebra meno estesa. Il che significa, nel momento della sua apertura, che quest’ultima non si ritrova a formare quell’evidente piega sopra la mezza sfera con pupilla innata in noi caucasici, una linea che connota e rende più evidenti certi movimenti delle sopracciglia. Il risultato? Per chi nota simili dettagli, intellettualmente privi di significato, il volto degli asiatici può apparire “bidimensionale” oppure “inespressivo”. E sono sempre di più i giovani, appartenenti ad entrambi i sessi, che si ritrovano a deprecare tale innata caratteristica del loro patrimonio etnico ed ereditario.
A questo punto della trattazione, di norma, si cita a margine di tale problematica il cartone animato ed il fumetto giapponese, che come non tutti sanno ha pure una sua controparte coreana successiva, il manhwa, diversa ma pur sempre dotata di alcuni significativi punti di contatto. Tra cui quello più determinante: la tendenza a disegnare gli occhi dei protagonisti principali come grandi, enormi sfere, totalmente ed oggettivamente sproporzionate rispetto al resto delle loro teste. Osamu Tezuka, il padre dell’animazione giapponese, aveva incluso questa caratteristica nel suo primo grande successo, il robot bambino Astroboy, mutuando dichiaratamente l’influenza dell’americano Walt Disney, che tuttavia, per trarre il massimo vantaggio da un simile ausilio alla caratterizzazione dei suoi personaggi, aveva invece scelto di ricorrere a figure solo vagamente antropomorfe (topi, anatre et similia). Ma la normalità, per purissime ragioni sociologiche, è un valore fluido e soggettivo. Così successe, nel giro di appena un paio di generazioni, che nascesse un intero mondo d’intrattenimento disegnato, in cui l’occhio ingigantito diventava la cosa più naturale del mondo, punto fermo di graziose scolarette, affascinanti donne, ma anche spietati cacciatori di taglie o mostruosi vampiri mutanti. Semplicemente, molti abitanti dell’Estremo Oriente iniziarono a vedersi così. Ciò doveva essere destinato a dare luogo ad una qualche forma d’eccesso, prima o poi…

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La moda coreana del mangiare per un pubblico di sconosciuti

Mukbang

Tra i più interessanti e innovativi fenomeni sociali provenienti dall’Estremo Oriente, il Mukbang è quella prassi, tipicamente coreana, secondo cui un ragazzo o una ragazza si collegano al sito di streaming video AfreecaTV (Any Free Broadcasting) per vestire i panni di un tipo diverso di supereroe. È frutto di un bisogno estremamente nuovo di quel paese antico, oggi notoriamente dedito al culto della bellezza e della celebrità. Nonché un qualcosa che, seppure ci appare così lontano, in qualche misura ed un tempo medio potrebbe trovare un senso pure qui da noi: mangiare senza nessun tipo di preoccupazioni. Bruciare metaforicamente i libri sulle diete, accettando le temute conseguenze, concedersi un momento, due ore, sei giornate per fagocitare quantità spropositate di cibarie, dangmyeon (spaghettini) con chapchae (verdure fritte) e sam gyup sal (carne di maiale) seppia ricoperta di cho gochujjang (la pasta di fagioli rossi) e poi kimchi, naturalmente, quel cavolo fermentato e reso piccante grazie ad ogni sorta di spezie che è un vero e proprio simbolo della nazione, mangiato a fette, a dadini, nella zuppa, con il pane o direttamente dal barattolo, con bacchette o mani rigorosamente ricoperte di cellophane, per non sporcarsi. Ma la fame non riconosce alcun tipo di confine e così negli ultimi tempi, visto il diffondersi di questo strano passatempo, i suoi praticanti hanno cominciato a nutrirsi pubblicamente anche con piatti tipici di altre culture, ivi incluso l’iper-calorico cibo dei fast-food in stile americano, pollo fritto e tutto il resto. Ed è un vero tripudio dell’ingollamento, la festa della masticazione, da accompagnarsi rigorosamente con bevande di tipo variabile, ma sempre anch’esse in grado di contribuire al contenuto energetico del lauto pasto. Mentre la gente guarda, e immagina. Come sarebbe, un giorno, dimenticata l’ansia di apparire, poter mangiare come questi spregiudicati divoratori, tanto dediti alla piacevole autodistruzione quanto, giovani, attraenti e ragionevolmente magri, nonostante tutto…
Nell’ultimo documentario della serie Munchies, prodotto collaterale dell’articolata testata Vice, l’ex-modella inglese Charlet Duboc si dedica all’ardua missione di presentarci questo strano mondo, attraverso la lente di una critica oggettiva e spassionata. Si comincia, come tanto spesso capita, presso un mercato: quello del cibo di Kuan Jung, “vecchio quanto la Corea” un simbolo ancestrale di Seul, ove abbondano le bancarelle, i forni mobili, coloro che forniscono talvolta gli stessi praticanti del Mukbang. L’inizio è strutturato come una sorta di contro-dichiarazione d’intenti, in cui la corrispondente ci mostra i sensi e i ritmi della tradizione, per poi spostarsi, repentinamente, verso l’ambito della nuova selvaggia gioventù. Quindi inizia il bello: per il tramite di un lavoro di ricerca e interpretariato certamente non indifferente, facciamo visita ad alcuni dei maggiori BJ (Broadcast Jockeys) del momento, ciascuno mostrato durante un momento differente della sua giornata. BJ SOF, 30enne, nel suo appartamento che assomiglia a una cabina di regia. Colui che vorrebbe, un giorno, aprire il proprio ristorante, applicando le tecniche imparate in questi anni. Wang Joo, la ragazza che viene convinta, in qualche modo, a organizzare una cena con i capi del suo vasto fan club da trasmettere in diretta, la quale si risolve in un bizzarro convivio silenzioso, in cui tutti chattano col cellulare invece di guardarsi in volto, dopo il primo scambio di regali. E infine Biryong l’entertainer consumato, che trasmette da una tenda in un parcheggio in mezzo al freddo e al gelo, indossando su grande richiesta l’uniforme di quando faceva il cuoco per l’esercito, durante il servizio militare.

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Parli come un cane della prateria

Prairie Dogs

Il primo giorno neanche mi avvicino. Osservo da oltre la dolce collina, il mio cavallo saldamente assicurato a un cactus della tiepida Arizona, la grande tribù dei Gunnison che s’industria nei suoi riti quotidiani. È chiaro che se davvero voglio stabilire un punto di contatto con il mondo sotterraneo di cui parlava Nonna Papera nelle sue storie, occorre procedere per gradi. Avere la pazienza di essere accettati mano a mano. Sono bestie queste, in fondo, alquanto differenti da noi altri viaggiatori della prateria. È presto chiaro che l’individualismo per loro non esiste. Sempre assieme, si agitano, discutono sui territori di ciascuno e qualche volta litigano, tendono a rincorrersi. Da un piccolo monte di terra con un buco in mezzo, come l’emicupola di un carro armato, sporge l’anziano del villaggio. È tanto grosso che ci passa appena, eppure tutti lo rispettano. Egli si guarda attorno attento, le zampette anteriori saldamente assicurate al bordo della sua fortezza, il manto marroncino che si agita nella leggera brezza del mattino. Basta un cenno di quel fiero condottiero per dirimere le liti, silenziare le proteste dei suoi giovani più scapestrati. Gli altri cani capi delle rispettive famiglie, di tanto in tanto, si recano sotto l’ombra della sua imponenza e parlano, gesticolano, assumono posizioni significative per lunghi e pesantissimi minuti. Quindi, apparentemente soddisfatti, spariscono di nuovo nelle buche. Verso la metà del pomeriggio, con i raggi del Sole che già ghermiscono le cime delle Gila Mountains, consumo la carne del coniglio ucciso ieri. Temporaneamente soddisfatto, leggo un libro ed entro nel mio sacco a pelo.
Mi sveglia il grido di un condor di passaggio, anzi no; ciò che gli fa seguito nella colonia contrapposta, giù dentro la valle delle pietre. Per la prima memorabile volta, già da oltre 100 metri di distanza, riesco a udire il suono della loro voce. È subito chiaro perché li abbiano chiamati come il tipico animale delle case: i roditori, contrariamente all’apparenza, stanno DAVVERO abbaiando. Ma paragonare un tale verso alle semplici lamentazioni di chihuahua, mi pare, sarebbe una grossolana inesattezza. Il loro verso collettivo pare una sirena che si agita sulle frequenze del sensibile, poi scende di tono, sale ancora e ancora e ancòra. Finché alla fine, spunta fuori il grande Toro Seduto alto 42 cm, gli occhi neri strabuzzati, le zampe rivolte verso il cielo. Getta il suo capo all’indietro e lancia un grido sconvolgente mentre YIIIP-YIIIP, riecheggiano i suoi simili dalle diverse buche. L’allarme è stato diffuso, il messaggio è chiaro. Il rapace, senza neanche voltare l’affilato becco verso la cacofonia sul suolo, vola via per la sua strada.
Le grandi scimmie. Le balene, chiaramente. Qualche delfino tra i più splendidi e educati: l’antica concezione, per cui il linguaggio sarebbe la maggiore invenzione, la più inimitabile medaglia appuntata sull’uniforme dell’umanità, è da tempo stata superata. Gli animali comunicano tra di loro, e non soltanto grazie ai gesti, alle movenze, ai feromoni. C’è una naturale tendenza a sopravvivere, comune ad ogni forma di vita, che conduce verso la ricerca continua di rimedi e scappatoie. Non sempre, la semplice selezione del più forte è ciò che guida il passo dell’evoluzione. Perché il più debole, piuttosto spesso, può vantare alternative qualità. Una caratteristica della prateria temperata, oltre al clima secco e la conseguente rarità di piogge, è la quasi totale assenza di piante ad alto fusto. Il che dona, ai suoi abitanti anche più piccolini, una visione molto estesa dell’ambiente circostante, dei suoi pericoli, dei predatori. E un cane, soprattutto se stanziale, per sopravvivere non può pensare solamente alla sua pelle. Deve osservare le regole dell’opportuna solidarietà.

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