L’idea che la più duratura battaglia del pianeta sia stata combattuta tra uomo e natura è una preziosa semplificazione che ci offre l’opportunità di far passare i dettagli in secondo piano. Poiché nella visione nettamente giustapposta, tra il Caos e l’ordine, l’erratica deriva ed il rigido regime della cognizione di causa, non c’è alcuno spazio per le vittime collaterali, neppure nei vetusti metodi di cui ogni cosa si sarebbe potuta affermare, tranne che avessero il benessere come principale obiettivo. E fu questo il modo in cui a partire dal primo terzo del XIX secolo, realizzando che la trasformazione del calore in energia cinetica stava cambiando il mondo, si comincio a comprendere il valore intrinseco del cupo minerale bituminoso, estratto dalle cave fino a quel momento in quantità sostanzialmente limitate. Giacché la lignite come carburante era più facilmente disponibile, ed aveva un costo comparativamente inferiore. Ma le foreste, giù nel Vecchio Continente, andavano esaurendosi e ciò favorì la nascita di un tipo di processi nuovi. Rapidamente trasportati, accompagnando il flusso dell’immigrazione, all’altro lato dell’Atlantico in attesa. Il minerale antracite, estratto dai depositi vegetali dell’antichissima Preistoria, era caratterizzato da un quantità di carbonio superiore e si dimostrò capace di raggiungere temperature maggiormente elevate. Tutto ciò che sarebbe servito, per massimizzarne il potenziale commerciale, era l’implementazione di un più alto grado d’efficienza nel trasferimento dalla miniera al consumatore. Fu attorno al 1830 dunque che gli addetti all’estrazione cominciarono, su preciso ordine delle compagnie committenti, a dividere questa pietra friabile in diversi cumuli basati sulle dimensioni. I loro attrezzi, rastrelli e reti perforate, risultavano crudamente efficaci in tale mansione, benché in molti avessero compreso che ampi margini migliorativi erano presenti. Finché stagliandosi contro il paesaggio rurale, non sorse il primo esempio magnifico di un nuovo tipo di alto castello.
Lo scenario principale era la Pennsylvania, stato della Costa Ovest a ridosso della regione dei Grandi Laghi, dove figurava uno dei maggiori depositi di tale carburante noti fino all’inizio dell’epoca contemporanea. Un’opportunità che semplicemente non poteva essere fatta passare in secondo piano, favorendo l’implementazione in larga parte sperimentale di un approccio alternativo alla pulizia e suddivisione del materiale. Il cui nome, collegato imprescindibilmente a quel particolare contesto storico e geografico oltre a una riconoscibile struttura architettonica, sarebbe stato quello di coal breaker, ovvero in senso letterale “frantumatore/spaccatore di carbone”. Spesso il singolo edificio più alto delle plurime comunità rurali che decidevano d’investire in tal senso, tale sinistra ed incombente fabbrica ante-litteram non trovava d’altra parte nel suo peso in termini di risorse pecuniarie investite il costo maggiormente significativo per la presunta società civilizzata. Bensì nella maniera in cui esso diventava l’unica destinazione possibile, per chiunque fosse privo di risorse familiari necessarie alla sopravvivenza e non ancora sufficientemente prossimo all’età adulta, da potersi guadagnare l’agognato pane lavorando nei campi…
industrie
L’iconico castello della spazzatura sull’isola nella baia metropolitana di Osaka
Emblema esecrabile per il movimento internazionale straordinariamente disomogeneo del NIMBY (“Non Nel Mio Cortile!”) un termovalorizzatore rappresenta il paradosso di un edificio utile a migliorare le condizioni di vivibilità urbana, ma al tempo stesso sgradevole dal punto di vista concettuale. Poiché trasportare la spazzatura via dal cortile, non importa dove, parrebbe costituire dal punto di vista mediano una soluzione in qualche modo inerentemente migliore. Il che risulta essere del tutto comprensibile, in linea di principio: chi, meglio degli abitanti di un grande agglomerato, conosce le problematiche che nascono dal vivere a stretto contatto con le conseguenze a lungo termine delle proprie scelte ed azioni? Ecco perché poter disporre di un’isola artificiale, al tempo stesso vicina e separata dal centro metropolitano, parrebbe costituire una soluzione ideale per questa pesante giustapposizione; una di quelle strutture, spesso costruite paradossalmente proprio attraverso l’impiego di materiali riciclati, che hanno permesso in epoca moderna alle città giapponesi di espandersi, senza invadere il territorio di qualcun altro. Bensì tendendo in modo agile i propri tentacoli in direzione dell’infinito. Là dove sorgono, con leggiadria fuorviante, alcune installazioni di pubblica utilità del terzo centro urbano più popoloso dell’arcipelago, la capitale omonima della grande prefettura di Osaka. Tanto caratteristiche nonostante i presupposti da aver attirato, nel corso degli anni, l’attenzione di innumerevoli turisti, anche senza considerare quelli che scorgendone le torri da lontano, hanno attraversato il ponte pensando di essere diretti verso il parco dei divertimenti Universal Studios menzionato sulle guide della città. Fraintendimento surreale, a suo modo, almeno quanto gli ovoidi dorati sopra due cilindri, rispettivamente azzurro con accenti rossi e ricoperto di titaniche piastrelle bluastre, appartenenti rispettivamente all’inceneritore dei rifiuti/compattatore di rottami e l’installazione di trattamento delle acque fognarie di Maishima. Le cui mura variopinte, con profili curvilinei surrealisti e molteplici finestre dall’aspetto disordinato, sembrano richiamarsi a un certo tipo di arte surrealista di metà secolo scorso. Quella dimostratasi capace di ispirare, nelle decadi a seguire, il mondo fantastico dei cartoni animati. Non abbiate tuttavia alcun dubbio residuo, sul fatto che simili punti focali dell’attenzione dei passanti occasionali o meno siano l’opera quanto meno esteriore di un importante nome del mondo dell’architettura, ovvero la nostra precedente conoscenza di Friedensreich Hundertwasser, il pittore, scultore e progettista di Vienna, autore tra le altre cose della spettacolare Torre della Birra di Arlensberg e la quasi reazionaria Hundertwasserhaus, un condominio dove ogni abitante ha il diritto nominale di dipingere le pareti esterne fino al punto che riesce a raggiungere con il braccio dall’interno della finestra di casa sua. Nient’altro che un preambolo, di quella che potrebbe dirsi la fondamentale eredità poetica di un personaggio che aveva molto da insegnare…
L’esperimento del distretto Pullman, un feudo medievale nella Chicago dell’Ottocento
Lungi dall’essere considerato fino agli ultimi anni della sua esistenza una sorta di Ebenezer Scrooge della sua parte dell’Atlantico, in una versione drammaticamente realistica del Canto di Natale, il grande industriale, inventore e supremo capitalista George Pullman (1831-1897) ebbe la capacità di coltivare l’immagine di un magnate illuminato, attento al benessere dei propri dipendenti all’interno delle sue molte iniziative utili al miglioramento della loro vita. Giungendo persino a far costruire per loro una ragionevole approssimazione dell’Eden, la città “perfetta” situata nella parte meridionale di Chicago, in cui l’esistenza trascorreva in superficie priva di problemi sociali, senza distrazioni, alcol e gioco d’azzardo. Tra gli edifici progettati in base ai crismi di un’estetica gradevole e pittoresca, fino al culmine della suprema sede della Compagnia, con la sua svettante fabbrica dotata di una fiabesca e stranamente superflua torre dell’orologio. Che qualcuno potrebbe riconoscere dal film animato di Robert Zemeckis del 2004, Polar Express, giungendo al punto di essere riutilizzata come elemento caratterizzante della sede operativa di Babbo Natale. Una scelta presa in forza dell’associazione imprescindibile tra questo luogo con le ferrovie, data l’importanza di una forza lavoro giovane ed esperta nella costruzione delle eponime carrozze Pullman, vagoni dotati di ogni comfort per il pubblico crescente dei commessi viaggiatori, una categoria sociale in forte crescita sul finire del XIX secolo. Di sicuro più costose della concorrenza ma anche standardizzate e facilmente intercambiabili, con grande semplificazione logistica per compagnie ferroviarie. Un prodotto dallo straordinario successo, dunque, sufficiente all’accumulo di un capitale tale da permettere al suo padrone ed esclusivo detentore dei diritti, nel 1880, di acquistare un terreno di 4.000 acri in prossimità del lago Calumet sui confini della sua città d’adozione, dove aveva fatto fortuna in precedenza importando un particolare sistema di spostamento con martinetti idraulici degli edifici, impiegato all’epoca della costruzione del canale Erie a New York. Così che assunto a tal fine l’architetto Solon Spencer Beman, già famoso per aver contribuito al revivalismo gotico di quel secolo e la costruzione del Campidoglio del Connecticut, iniziò la realizzazione del suo ultimo e più ambizioso sogno: un luogo che potesse dirsi il culmine e la suprema realizzazione della sua visione del mondo. L’ultimo in ordine di tempo e forse il più famoso esempio del concetto di città aziendale, un agglomerato urbano attentamente pianificato per permettere al personale di una particolare attività del mondo industrializzato di vivere a ridosso del proprio luogo di lavoro, il distretto Pullman avrebbe mantenuto per diversi anni un’immagine di straordinaria serenità apparente. Con reiterati articoli di giornali e trattazioni a più livelli della straordinaria qualità delle sue residenze, universalmente dotate di amenità piuttosto avveniristiche per l’epoca, quali acqua corrente ed elettricità, tanto da essere già diventato una letterale attrazione turistica durante l’Esposizione Mondiale tenutasi a partire dal maggio del 1893. Ma era già dai primi mesi di quell’anno che le cose avevano preso una piega inaspettata, rivelando la cupa realtà dei fatti dietro la facciata d’apparente perfezione, ovvero lo spietato volto nascosto e le sinistre conseguenze di di una casa così falsamente attraente…
La strana vita del cappellaio matto all’epoca della rivoluzione industriale
Figure alte, gigantesche, rese ancor più imponenti dal nobile ed impressionante copricapo. Capace di agire, per i malintenzionati di una sera a teatro, come il bersaglio della propria infausta e sventurata pistola. La sera del 24 aprile del 1865, il soldato unionista Boston Corbett si trovò a far parte del reggimento incaricato d’inseguire e catturare John Wilkes Booth l’uomo che aveva sparato e ucciso Abraham Lincoln presso il Ford’s Theatre di Washington, chiudendo anticipatamente una delle presidenze più influenti nell’intera storia degli Stati Uniti. Dopo una breve ricerca l’assassino venne quindi individuato presso il granaio di una piantagione di tabacco in Virginia, dove si era rifugiato assieme a un suo complice, David Herold. I due erano circondati, senza nessuna possibile via di fuga: venne quindi dato l’ordine tassativo di non sparare. Ma Boston Corbett, avvistato Booth attraverso una crepa nell’edificio, prese la mira con la sua carabina e lo colpì fatalmente sul retro della testa, nello stesso identico punto della sua insigne vittima di pochi giorni prima. La storiografia americana, quindi, si dilunga sulle atroci sofferenze patite dal malfattore prima della dipartita, paragonate secondo le testimonianze coeve a una divina punizione della Provvidenza stessa, citata da Corbett come guida del suo gesto impulsivo e sconsiderato. Ma pochi parlano di quello che sarebbe successo, di li a poco, a costui. Portato a Washington D.C. e sottoposto alla corte marziale per insubordinazione, fu dimesso dall’esercito ma nondimeno considerato un eroe dal pubblico e dalla stampa. Il che gli avrebbe permesso, due anni dopo, di trovare un impiego come assistente usciere presso l’ufficio legislativo dello stato del Kansas, a Topeka. Ma l’ex-soldato sarebbe stato associato, negli anni a venire, ad una serie di episodi psicotici e discorsi pubblici senza senso, spesso culminanti con l’esibizione minacciosa di armi da fuoco, che l’avrebbero portato nel giro di pochi mesi in manicomio. Soltanto molti anni dopo, quindi, ne sarebbe stata scoperta la ragione. Fin da giovane e ancor prima del suo arruolamento, Corbett aveva praticato saltuariamente il mestiere di famiglia: la fabbricazione di capelli.
“Prendi più tè.” Disse il Cappellaio “Non ne ho ancora preso niente, non posso prenderne di più.” Rispose Alice, “Vuoi dire non puoi prenderne di meno. È facile prendere più di niente.” Dissociazione cognitiva, personalità multiple, illusioni di grandezza; molte sarebbero le possibili diagnosi, non mutualmente esclusive, che un moderno psicologo potrebbe attribuire ad una delle più memorabili figure del celebre romanzo di Lewis Carroll, strettamente associata nella cultura moderna all’interpretazione che ne diede la Disney, basata sulle illustrazioni del tempo. Secondo l’opinione degli storici, nel frattempo, tale personaggio fu basato su una figura effettivamente vissuta, quella dell’antiquario e fabbricante di orologi Theophilus Carter (1824-1904) di cui Carrol realizzò la sua parodia letteraria come piccola vendetta dopo che ritenne di aver pagato troppo per dei mobili acquistati presso il suo negozio. Non può essere di certo un caso, tuttavia, se il mestiere scelto per il bizzarro ospite della bambina trasportata all’altro mondo fosse quello del fabbricante di tube, rinomata origine del modo di dire anglosassone “Mad as a hatter” ovvero in altri termini, “Matto come un cappellaio”. La strana e in precedenza incomprensibile associazione tra questi due particolari moduli della condizione umana fu infatti osservata ufficialmente per la prima volta nel 1829 a San Pietroburgo, in Russia, con ulteriori focolai individuati presto negli Stati Uniti, Inghilterra, Francia e più tardi in anche in Toscana, dove all’inizio del XX secolo esisteva una fiorente industria del settore. Ma in quel frangente finalmente, grazie all’applicazione del metodo scientifico, fu possibile intuirne presto la ragione…