Figure alte, gigantesche, rese ancor più imponenti dal nobile ed impressionante copricapo. Capace di agire, per i malintenzionati di una sera a teatro, come il bersaglio della propria infausta e sventurata pistola. La sera del 24 aprile del 1865, il soldato unionista Boston Corbett si trovò a far parte del reggimento incaricato d’inseguire e catturare John Wilkes Booth l’uomo che aveva sparato e ucciso Abraham Lincoln presso il Ford’s Theatre di Washington, chiudendo anticipatamente una delle presidenze più influenti nell’intera storia degli Stati Uniti. Dopo una breve ricerca l’assassino venne quindi individuato presso il granaio di una piantagione di tabacco in Virginia, dove si era rifugiato assieme a un suo complice, David Herold. I due erano circondati, senza nessuna possibile via di fuga: venne quindi dato l’ordine tassativo di non sparare. Ma Boston Corbett, avvistato Booth attraverso una crepa nell’edificio, prese la mira con la sua carabina e lo colpì fatalmente sul retro della testa, nello stesso identico punto della sua insigne vittima di pochi giorni prima. La storiografia americana, quindi, si dilunga sulle atroci sofferenze patite dal malfattore prima della dipartita, paragonate secondo le testimonianze coeve a una divina punizione della Provvidenza stessa, citata da Corbett come guida del suo gesto impulsivo e sconsiderato. Ma pochi parlano di quello che sarebbe successo, di li a poco, a costui. Portato a Washington D.C. e sottoposto alla corte marziale per insubordinazione, fu dimesso dall’esercito ma nondimeno considerato un eroe dal pubblico e dalla stampa. Il che gli avrebbe permesso, due anni dopo, di trovare un impiego come assistente usciere presso l’ufficio legislativo dello stato del Kansas, a Topeka. Ma l’ex-soldato sarebbe stato associato, negli anni a venire, ad una serie di episodi psicotici e discorsi pubblici senza senso, spesso culminanti con l’esibizione minacciosa di armi da fuoco, che l’avrebbero portato nel giro di pochi mesi in manicomio. Soltanto molti anni dopo, quindi, ne sarebbe stata scoperta la ragione. Fin da giovane e ancor prima del suo arruolamento, Corbett aveva praticato saltuariamente il mestiere di famiglia: la fabbricazione di capelli.
“Prendi più tè.” Disse il Cappellaio “Non ne ho ancora preso niente, non posso prenderne di più.” Rispose Alice, “Vuoi dire non puoi prenderne di meno. È facile prendere più di niente.” Dissociazione cognitiva, personalità multiple, illusioni di grandezza; molte sarebbero le possibili diagnosi, non mutualmente esclusive, che un moderno psicologo potrebbe attribuire ad una delle più memorabili figure del celebre romanzo di Lewis Carroll, strettamente associata nella cultura moderna all’interpretazione che ne diede la Disney, basata sulle illustrazioni del tempo. Secondo l’opinione degli storici, nel frattempo, tale personaggio fu basato su una figura effettivamente vissuta, quella dell’antiquario e fabbricante di orologi Theophilus Carter (1824-1904) di cui Carrol realizzò la sua parodia letteraria come piccola vendetta dopo che ritenne di aver pagato troppo per dei mobili acquistati presso il suo negozio. Non può essere di certo un caso, tuttavia, se il mestiere scelto per il bizzarro ospite della bambina trasportata all’altro mondo fosse quello del fabbricante di tube, rinomata origine del modo di dire anglosassone “Mad as a hatter” ovvero in altri termini, “Matto come un cappellaio”. La strana e in precedenza incomprensibile associazione tra questi due particolari moduli della condizione umana fu infatti osservata ufficialmente per la prima volta nel 1829 a San Pietroburgo, in Russia, con ulteriori focolai individuati presto negli Stati Uniti, Inghilterra, Francia e più tardi in anche in Toscana, dove all’inizio del XX secolo esisteva una fiorente industria del settore. Ma in quel frangente finalmente, grazie all’applicazione del metodo scientifico, fu possibile intuirne presto la ragione…
La pericolosa, potenzialmente letale natura del metallo liquido più utilizzato dall’uomo in molteplici industrie, il mercurio, risulta oggi largamente nota. Da generazioni pregresse messe in guardia dal pericolo inerente dei vecchi termometri, la cui rottura accidentale poteva idealmente avere conseguenze gravi, laddove il vero rischio è quello generato, nella maggior parte dei casi, da circostanze di natura professionale. L’elemento identificato con la dicitura Hg, usato lungamente nei paesi dell’Estremo Oriente come tragico elisir di lunga vita, prima ancora d’essere ingerito accidentalmente o meno presenta la pericolosa caratteristica di emanare in vari casi dei particolari vapori, che una volta inalati attaccano direttamente la struttura del cervello, i reni e i polmoni. Le prime e più evidenti conseguenze, tuttavia, sono di natura neurologica ed assumono l’aspetto di tremori diffusi, ben presto seguiti da alterazioni della personalità, allucinazioni, incapacità di relazionarsi con gli altri e concentrarsi adeguatamente. Negli stadi successivi quindi appaiono macchie giallastre sulla pelle, si verifica caduta dei capelli e persino delle unghie e dei denti, poco prima di perdere i sensi per l’ultima volta e morire.
Ora quale fosse l’utilizzo di un così terribile e sottovalutato veleno nella fabbricazione del tipico cappello da gentiluomo inglese, è presto detto: si trattò, secondo alcune interpretazioni, di un segreto messo in pratica per la prima volta dagli Ugonotti calvinisti della Francia centrale ed esportato all’inizio del XVII secolo, benché tale teoria risulti inerentemente assai difficile da confermare. L’intelaiatura o scheletro di tali cappelli infatti, sopra cui veniva disposto lo strato di lucida seta o altra stoffa di rappresentanza, veniva tradizionalmente realizzato con il feltro, un materiale frutto in quegli anni delle pelli e il pelo di piccoli animali, come castori, conigli o lepri, fatto indurire mediante compressione all’interno di un apposito macchinario. Rispetto ai primi capotain lievemente conici indossati all’epoca dei Padri Pellegrini, tuttavia, la moderna e rinnovata tuba presentava una solidità garantita dal trattamento ulteriore effettuato con lo sfortunato “ingrediente segreto” in grado di concedere una compattezza largamente superiore durante il passaggio noto come carroting, poiché comportava l’assunzione temporanea da parte del materiale di un colore tendente all’arancione. Grazie all’uso sull’indumento non ancora completato di generose dosi di mercurio che, ovviamente, veniva maneggiato senza nessun tipo di protezione e spesso all’interno di laboratori dalla ventilazione ridotta, con un conseguente lento, ma inesorabile processo di avvelenamento.
Perciò nonostante l’associazione fosse largamente chiara al grande pubblico come reso palese dal già citato modo di dire, in assenza di alcuna legge o il semplice concetto di una normativa per la sicurezza dei lavoratori, i “tremori del cappellaio” vennero largamente accettati come un rischio della professione ed associati nel nome con rassegnazione a particolari luoghi, come la città Danbury in Connecticut, uno dei più importanti centri di produzione di cappelli al mondo. Nel 1874, negli Stati Uniti, venne quindi inventato un metodo di trattazione del feltro basato sul cloridrato al fine di alleviare l’avvelenamento da mercurio, che tuttavia essendo più costoso, ebbe il destino di essere largamente ignorato. Sembrava quindi, sotto ogni possibile punto di vista, che a nessuno interessasse della salute del suo prossimo. Strano ma vero?
L’orrore potenziale di questo tipo d’intossicazione, tanto subdola proprio perché agisce nel tempo, sarebbe quindi diventata chiara per il mondo intero e l’opinione pubblica soltanto parecchi anni dopo. Con il celebre caso della città di Minamata in Giappone, quando nel 1956 la stampa scoprì e pubblicò finalmente il caso di letterali centinaia di morti, di esseri umani e animali, causate in un periodo di oltre 30 anni per lo scarico non regolamentato da parte di uno stabilimento chimico, che avrebbe nondimeno continuato ad operare fino al 1968. La cosiddetta febbre di Minamata o dei “gatti danzanti” come veniva chiamata, per gli spasmi terribili che causava in questi piccoli animali, colpiva quindi gli esseri umani per la consumazione di pesce o molluschi catturati nell’intera regione, portando in breve tempo alle stesse gravi condizioni dell’avvelenamento dei cappellai all’ultimo stadio. Soltanto dopo una lunga serie di processi e un alto numero di decessi, quindi, all’azienda sarebbe stata imposta la chiusura e un pagamento complessivo di 937 milioni di yen (3,4 milioni di dollari) alle vittime, il risarcimento più alto mai sancito da una corte di giustizia giapponese.
Con una lentezza da parte della presa di coscienza di uno stato gramo della situazione che potremmo facilmente individuare, in maniera ancor più travagliata, la poco precedente liberazione dei cappellai dalla loro rinomata maledizione, giunta soltanto negli anni ’30 e ’40 del Novecento, dopo anni di battaglie sindacali, grazie alle prime legislazioni dei paesi anglosassoni contro l’impiego del mercurio nella fabbricazione intensiva delle tube. Poco prima che i cappelli di feltro, come concetto universalmente desueto, passassero del tutto di moda! Fatta eccezione per terre fantastiche, di felini che sorridono alla notte e funghi dai poteri allucinogeni. Che al suono della musica elettronica, perseguono lo stesso scopo, senza neanche riparare il capo dalla neve di un passato, presente o possibile Natale futuro.