La città pervasa dai veleni che ha precorso il futuro dell’Oklahoma

Quando si affronta per la prima volta la questione americana della “città abbandonata”, come esemplificato dal celebre esempio di Centralia in Pennsylvania, non è sempre scontato giungere a conoscenza del modo in cui tale caso sia soltanto la letterale punta dell’iceberg di una conoscenza comune, in merito a diverse situazioni, create dagli stessi presupposti e i casi sfortunati della storia mineraria di questa nazione. Tanto da giustificare l’esistenza di uno specifico stanziamento di risorse governative, il cosiddetto Superfund, finalizzato a contenere il danno causato da simili attività, incentivando potenziali vittime, presenti & future, del genere di presupposti residui conseguenti dalle circostanze collaterali dell’industria contemporanee. Perché in effetti, tutto ha un costo ed in quel tutto è inclusa anche l’attività diametralmente opposta, in linea di principio, di mettersi a far soldi grazie ai presupposti impliciti del sottosuolo: vedi la produzione, sostanzialmente inevitabile dei cosiddetti talings o chat, residui derivanti dalla processazione di un qualche prezioso o meritorio minerale. Soltanto che nel caso di Picher, Oklahoma, tali rocce furono scoperte contenere copiose quantità di piombo e zinco, entrambi utili allo sforzo bellico, giusto all’inizio del secolo scorso, quando l’attivazione senza precedenti delle industrie interessate a un simile contesto, entro tempi brevi, avrebbe trasformato l’intero insediamento dalle dimensioni medio-piccole in una vera brulicante metropoli in miniatura, popolata dalla gente pronta a tutto, pur di guadagnarsi un posto nella nuova società dei massimi profitti personali. Si calcola, a tal fine, come una significativa quantità dei proiettili statunitensi sparati nel corso di entrambi le guerre mondiali provenissero in maniera remota proprio da questo luogo, gioiello della corona nel cosiddetto Tri-State District, zona mineraria inclusiva anche di Kansas e Missouri. Ma mentre le case crescevano, lo stesso succedeva con le alte colline formate dalla polvere biancastra e sottile accumulata fuori dagli stabilimenti di processazione, trasformata dalla minima folata di vento nella pericolosa fonte di folate velenose, subito raccolte dall’apparato respiratorio umano. Ed era tutto ciò soltanto l’inizio, come ci si rese conto, con orrore, della maniera in cui le infiltrazioni d’acqua lungo il corso delle generazioni avessero raggiunto le nascoste gallerie, tanto estese da raggiungere città vicine, trasferendone il copioso contenuto di sostanze ai fiumi e ruscelli situati nei dintorni, le cui acque cominciarono a mostrare un’ansiogena colorazione vermiglia. Quindi nel 1967, raggiunta la pace ed il benessere, tutte le operazioni minerarie cessarono in maniera improvvisa, lasciando finalmente silenziose i circa 14.000 pozzi d’estrazione. E ben presto, tutti dimenticarono, o fecero finta di dimenticare ciò che era stato.
Ma fu il passo successivo, come nella narrazione delle piaghe bibliche d’Egitto, a mettere in prospettiva la gravità effettiva dell’eredità ricevuta: quando nel 1996, uno studio indipendente dell’EPA (Environmental Protection Agency) rilevò segni di avvelenamento da piombo in una probabile quantità del 34% dei bambini in età scolare dell’intero centro abitato, causando l’attivazione del protocollo governativo per il salvare il maggior numero di vite, indipendentemente dagli effetti avuti sulla sicurezza finanziaria, ed il successo imprenditoriale, dei loro nonni e genitori. Come parte dell’area d’investimento per il Superfund definita con il termine di “Tar Creek” anche Picher, quindi, venne sottoposta dal governo all’unico approccio possibile in tali gravi circostanze: l’offerta di una certa quantità di denaro, per l’acquisto delle rispettive case, poco prima di trasferirsi altrove. E in molti potrebbero pensare, forse, che un tale capitolo potesse essere l’ultimo della storia…

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Ore norvegesi nella lunga fabbrica delle gomene

Tecnologia che proviene da una lunga tradizione e la complessa storia di un’industria, forse oggi meno rilevante di una volta, ma non non meno necessaria per fare una cosa, sopra ogni altra: garantire la natura autentica di un possente veliero. Nave dei tempi che furono e notevole esistenza in mare, il cui sartiame, tanto spesso, siamo indotti ad ignorare. Come i fili di una marionetta, come la struttura interna di una collana di perle, semplice motore interno alla “struttura” che non ha un significato metaforico degno di venire messo in evidenza contro il resto della propria circostanza d’impiego. Ma quando ci pensi, se consideri cosa c’e dentro, appare chiaro che dev’esserci al suo interno un qualche tipo di segreto ovvero il nesso ultimo della sapienza, coltivata in luoghi le cui ultime caratteristiche provengono dalle ragioni del bisogno e della pratica di lunga data. Il cui nome, in lingua norvegese, è reperbane (corderia) ed è questa che vediamo in azione, nel caso specifico, presso la cittadina di Älvängen in Västra Götaland. In un luogo che viene chiamato oggi Repslagarmuseet ovvero per le regole agglutinanti di questa lingua, una lunga parola che significa “museo della corda” benché in tempi precedenti fosse stato null’altro che l’azienda rinomata di Carlmark AB, aperta nel remoto 1848 e venduta dopo più di un secolo nel 1983, per sopraggiunta variazione sostanziale del contesto marittimo vigente. Eppure molti furono, in tale occasione, a protestare contro la presunta demolizione dell’insolito edificio, e poi di nuovo nel 2003, quando logiche di quella stessa provenienza avevano presunto di riuscire a trasformare il suo terreno in parco cittadino scevro dell’ormai desueta rimanenza tecnologico-industriale. Ed è assai palese per questi occhi la ragione, di una simile tendenza alla conservazione, quando si prende atto della significativa valenza storica di questo luogo ricco di antichi macchinari, know-how tecnico e capacità manuali decisamente al di sopra della media. In un video prodotto, per l’appunto, dal museo marittimo di Hardanger (non molto vicino: 682 Km più in là e all’interno dell’omonimo fiordo a sud di Bergen) i cui rappresentanti si trovavano in visita, al fine di supervisionare il copioso ordine di cime per la nave a vela Götheborg, fedele replica di un mercantile rinascimentale completata nel 2005. Per la cui sovrastruttura, semplicemente, non sarebbe mai potuto sembrare soddisfacente l’impiego di una corda di provenienza e fattura moderna, per la funzionalità, lo spessore e l’aspetto eccessivamente anacronistici all’interno di un simile ambito d’impiego. Ecco dunque l’occasione di mostrarci, finalmente, il vero approccio alla trasformazione della materia prima in molti utili metri di pregevole corda; sostanza fibrosa la cui origine, come potreste ben sapere, è la variante della Cannabis sativa usata come canapa industriale (vicina parente della gānjā o marijuana che dir si voglia) attentamente instradata all’interno di una filiera produttiva che potremmo addirittura definire, col tipico gusto estetico del post-moderno, conforme agli stilemi del genere letterario e artistico dello steampunk

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Con un buco nel cortile verso il sottosuolo della Cornovaglia

Recita un vecchio proverbio, trasformato recentemente in canzone: “I ragazzi della Cornovaglia sono pescatori e minatori di stagno. Ma quando i pesci e lo stagno saranno esauriti, che cosa faranno i ragazzi della Cornovaglia?” Gli uomini con la lunga barba, assieme alle consorti, figlie ed altri abitanti sufficientemente anziani della zona, ancora ricordano quando furono posizionati i cartelli: “Pericolo miniera, possibile voragine a seguire”. Giorni o letterali settimane, dopo la trasformazione cataclismica che avrebbe ricreato l’intero paesaggio. Da valle desolata e priva d’erba, punteggiata dalle macchine svettanti con i loro sbuffi di vapore, a semplice ritaglio di campagna inglese, punteggiato di campi, abitazioni e strade verso i più vicini e popolosi tra gli hundreds o cento [comuni] della Cornovaglia. E fu al suono di un tale silenzio, mentre i picconi e gli altri attrezzi ritrovavano uno spazio dentro i magazzini, oppur venivano svenduti ai centri di riciclo dei rottami, che la gente ricevette la notizia: “É finito, è finito. Non c’è più traccia di stagno nei recessi accidentati e più profondi dell’Opportunità di Wheal.” Così come si erano esaurite di recente, presso la Fortuna ed il Tesoro, parte di quel dedalo che dalla parte finale del XVIII secolo, avevano costituito la ricchezza della zona di Scorrier, verso la punta estrema della sottile penisola sud-orientale verso l’immensa vastità oceanica che ci separa dal Nuovo Mondo. E fu allora che la gente, con intento certamente positivo, scelse di affrontare quel problema nell’unico modo possibile: uno spesso coperchio d’assi di legno e ghiaia, successivamente ricoperto da uno strato di terra. Affinché, al posto di ciascuna pompa dismessa, potesse trovare posto non tanto l’abitazione futura, posta sul terreno solido con l’adeguata cautela del caso, bensì il suo cortile o campo coltivato, al massimo il parcheggio per gli abitanti. Ma come spesso capita attraverso i casi della storia, la memoria della gente non può durare in eterno, mentre persino i cartelli vengono abbattuti dal vento per non essere mai più ricostruiti. E ciò che per l’occhio tanto risultava soddisfacente, ben presto si trasformò nella mente delle persone in assoluta verità situazionale, mentre le mura delle case tornavano ad avvicinarsi, con viepiù insistenza, al baratro perduto delle antiche vie d’accesso. Ed è questo, dopo tutto, che ci porta dritti all’incredibile verificarsi dell’Evento.
Voglio dire, non è totalmente inaudito: permessi edilizi che vengono rilasciati a sproposito, presso luoghi dal terreno eccessivamente friabile, finché ad un certo punto i nodi non possono far altro che venire al pettine. E proprio in mezzo al prato delle idee tranquille, all’improvviso, si palesa l’orribile geologica realtà. Di quel profondo spazio cavo e orribilmente pericoloso… Se ogni persona coinvolta dunque risulta sufficientemente fortunata, come nel caso della casa almeno in apparenza condannata nell’ormai trascorsa primavera del 2016 presso il succitato luogo, si riescono a evitare le conseguenze peggiori del caso. Ma non per quanto la veranda e parte del garage, inviati senza nessun tipo di rimorso verso le oscure profondità del mondo. Fu una notizia piuttosto discussa in patria, benché ragionevolmente fatta passare in secondo piano qui da noi nel Meridione europeo. Del resto, nessuno vorrebbe mai pensare che ciò possa accadere, tranne forse le involontarie, accidentali cause dell’evento, la compagnia specializzata Mining Eye di Redruth, alla perenne ricerca di simili residui di un’epoca lungamente trascorsa. I cui rappresentanti si trovavano a trapanare alla ricerca di potenziali pericoli, come esplicitamente concesso dai proprietari del terreno e la villetta ancora temporaneamente invenduta, quando innanzi ai loro occhi increduli si spalancò un pozzo profondo all’incirca 90 metri. Probabile presa d’aria, oppure foro d’estrazione per quei ragazzi ormai cresciuti che oggi, dopo tutto, non potevano far altro che guardare fuori dal confine dei cantieri dismessi…

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Il filo ininterrotto del Tabasco, fiammeggiante tradizione americana

Mentre si abbandona uno dei centri della cultura Cajun a Lafayette dirigendosi verso Vermilion Bay, nella parte meridionale della Louisiana, diventerà possibile scorgerlo chiaramente: il profilo bulboso di un luogo del potere, collina o “isola” che dir si voglia, dove il Sud ebbe a giovarsi lungamente di due fondamentali risorse attraverso i secoli della sua identità culturalmente distinta. Per prima cosa il sale stesso, elemento costituente del diapiro (o cupola) geologica sopra cui sorge la comunità di Avery Island, un tempo sito di una delle più importanti miniere nordamericane di questa preziosa sostanza. E in secondo luogo, non necessariamente in ordine di rilevanza, la maggiore coltivazione tra i confini degli Stati Uniti della particolare pianta nota come Capsicum frutescens, generalmente associata allo stato del Messico meridionale denominato Tabasco, così come figura il nome del vegetale stesso. E non sarebbe certo inappropriato chiedersi, a tal proposito, perché qui venga coltivata in modo intensivo proprio tale varietà del genus cui appartiene l’intera varietà del più apprezzato condimento piccante della storia, laddove tali frutti, piccoli e difficili da amministrare, risultano così drammaticamente inefficienti rispetto alle alternative generalmente soggette alla produzione industriale dei nostri giorni. E non soltanto questo: poiché nei giorni prefissati sarà possibile osservare un rito particolarmente significativo. Del singolo padrone e presidente della tenuta, poiché è di questo che stiamo effettivamente parlando, che s’inoltra tra i filari coltivati come il prototipico Uomo del Monte, con in mano un particolare bastoncino di gradazione cromatica (le petit baton rouge) al fine di determinare quali frutti siano degni di essere inviati, con il loro prezioso contenuto di semi, presso le distanti piantagioni sudamericane della compagnia. Giungendo ad annodare, attorno a quelli ritenuti degni, un pezzo di spago che potremmo definire “il filo della conoscenza” cui faranno seguito le gesta attente dei suoi stimati sottoposti, mentre il resto dei peperoncini finiranno tritati e sotto sale, all’interno dei barili di seconda mano procurati dalla fiorente industria del whisky locale.
Ed è forse il fatto più stupefacente che un simile rituale non derivi in alcun modo dal contesto post-moderno dei nostri imprevedibili giorni, costituendo piuttosto l’eredità diretta di un singolo uomo vissuto attorno all’epoca della guerra civile americana (1861-1865) benché la sua effettiva identità resti tuttora largamente incerta. Secondo l’attuale entità societaria depositaria del relativo, nonché prezioso nome di mercato, giustamente definito quello de “l’unica salsa hot che la gente chiede per nome” sarebbe stato proprio il leggendario fondatore Edmund McIlhenny, banchiere di discendenza irlandese e scozzese, i cui nonni erano immigrati per cercar l’America durante gli anni in cui il puritanesimo veniva perseguito in patria, a scoprire il valore nascosto di una simile combinazione straordinariamente semplice, della pianta precedentemente importata, assieme ad una certa quantità di sale ed aceto. Benché la moderna analisi storiografica, nei fatti, abbia rintracciato un probabile predecessore in tale sforzo nella figura del colonnello (termine onorifico) locale Maunsel White, proprietario di 191 schiavi (!) che tuttavia si disse sempre contrario a un simile commercio (!!) benché lieto d’investire le copiose entrate delle proprie piantagioni nella messa in atto di festeggiamenti dalla straordinaria opulenza, durante il quale serviva ai propri ospiti una prima versione della salsa che ancor oggi tutti conosciamo. Ospiti tra i quali avrebbe figurato, per l’appunto, l’amico anch’esso parte della società più benestante dell’intero stato del Bayou.

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