Non è una ciotola di fango ma l’amata kava, radice psicotropica del Pacifico meridionale

Tra tutte le sostanze che assumiamo nel corso di una comune giornata, il nero ed aromatico sapore del caffè viene considerato in genere un gusto acquisito, che per molte persone richiede l’inclusione di svariati cucchiaini di zucchero, o un dolcificante equivalente, per non ricordare da vicino la sensazione di una sgradevole medicina. Eppure a prova significativa che con la pratica ogni cosa può essere effettivamente migliorata, vi sono miscele e tipologie di questa bevanda frutto di particolari cultivar, che paiono trascendere simili stereotipi, riuscendo a trascinare, volenti o nolenti, papille incerte verso un mondo di amarezza stranamente conturbante, a suo modo parte di un’esperienza piacevole ed antica. Non così, a quanto si racconta, l’inebriante kava. O Piper methysticum, pianta cespugliosa dalle grandi foglie imparentata con il pepe nero (P. nigrum) assieme a numerose altre spezie utilizzate nella cucina asiatica, indonesiana e dei paesi polinesiani. A differenza delle quali, tuttavia e indipendentemente dal tipo di preparazione attraverso cui raggiunge il palato umano, essa sembra possedere un sapore che viene generalmente paragonato a quello di una certa quantità di terra umida preventivamente posta in sospensione nell’acqua del bicchiere, o ancor meglio quella grande tazza condivisa, da cui viene consumata in certi luoghi come una diffusa e stimatissima attività conviviale. Un risultato del tutto logico, quando si considera la provenienza dalle parti sminuzzate di una radice. Il che lascia sorgere spontanea la domanda del perché, esattamente, gli abitanti di Samoa, Tonga, Vanuatu, Pohnpei, le Fiji e finanche Rapanui, la rinomata Isola di Pasqua, continuino ostinatamente a sottoporsi a un tale rituale, ancora oggi con i prezzi relativamente bassi e la facilità nell’importare qualsivoglia tipo di bevanda alcolica, con gran guadagno di sapore e innata piacevolezza degustativa. Per cui la stratificata risposta, lungi dall’includere meri concetti quali il prezzo e la facilità di ottenimento, sconfina nell’effettivo regno del piacere individuale, con particolare riferimento agli effetti latenti posseduti da questa pianta, che viene descritta alternativamente come un tranquillante, un sedativo ed un euforico, capace di allontanare dalla mente i propri problemi e dare un senso di felicità e rilassatezza accompagnato da un lieve senso di piccantezza e il terribile retrogusto fangoso. Spesso paragonato nei suoi paesi di principale diffusione a quello della noce di Betel (Areca catechu) facendo a meno delle stesse gravi implicazioni per la salute degli utilizzatori a lungo termine e soprattutto in assenza del suo terribile e ben noto senso d’assuefazione. Col che non voglio certo affermare che si tratti di una sostanza del tutto priva d’implicazioni problematiche, nella maniera ampiamente dimostrata in una serie di studi di settore effettuati nel corso degli ultimi anni soprattutto negli Stati Uniti, dove la kava viene venduta liberamente, pur essendo accompagnata da una lunga serie di controindicazioni latenti. Le quali tendevano a passare prevedibilmente in secondo piano, all’interno dei paesi dove fu capace di costituire attraverso i secoli uno dei pilastri fondanti del concetto stesso di struttura sociale, all’interno di occasioni fortemente ritualizzate ed altre ricorrenze dalle caratteristiche sacrali…

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Larve di vespa: piatto forte di un insolito Giappone

Molto del successo che la cucina dell’arcipelago è riuscita ad acquisire attraverso le ultime generazioni della gastronomia internazionale deriva, con conclamata evidenza, dall’abilità e il fascino della presentazione tipica di taluni piatti, che nutrono il nostro senso estetico ancor prima dell’organismo perennemente in cerca di nuovi metodi per garantirsi il sostentamento. Chi non conosce, soltanto per fare qualche esempio, l’aspetto invitante del sushi attentamente arrotolato nell’alga nori, la composizione artistica del pasto da asporto bento nella sua scatolina tradizionale in legno, oppure l’armonia di colori dei wagashi (dolci nazionali) con l’impasto di mochi (pasta appiccicosa di riso) o fagioli azuki, o ancora l’aspetto corroborante di un piatto di ramen o somen, pasta lunga con l’accompagnamento di una varietà d’ingredienti straordinariamente vari e diversificati tra loro. Potrebbe dunque certamente lasciare basiti sedersi all’interno di un ristorante alla moda di una grande città come Tokyo e ordinare un misterioso piatto di hachinoko (蜂の子) soltanto per vedersi portare una pietanza che non sfigurerebbe certamente in una qualsiasi puntata degli show di sopravvivenza dell’ex-soldato delle forze speciali inglesi Bear Grylls, famoso per nutrirsi di cose che in molti non si azzarderebbero neppure a chiamare “cibo”. Perché il problema vedete, è che l’occidentale medio può anche apprendere in linea teorica il significato di una combinazione d’ideogrammi ma il più delle volte, tenderà a interpretare le cose in maniera più o meno letterale soltanto in base alla situazione e il contesto. Ragion per cui difficilmente, qualora si trovasse a ordinare una pietanza denominata “figli (ko – 子) di (no – の) ape/vespa (蜂 – hachi)” egli penserà di stare per mangiare effettivamente, le larve di alcune delle più note impollinatrici vegetali, con tutto l’accompagnamento di orrore potenziale che ciò comporta. Ma la pressione sociale, reale o percepita, può portare a fare molte cose. E nell’ambiente formale di una simile situazione, circondati da un’atmosfera di assoluta serietà professionale, si può persino giungere a scoprire il fascino di un nuovo sapore…
Ora quando un giapponese usa il termine hachi, può in effetti riferirsi ad un vasto ventaglio di specie artropodi, grossomodo corrispondenti al clade tassonomico ancora non ufficialmente riconosciuto degli Anthophila, ovvero tutti quei particolari imenotteri, volanti per la maggior parte della propria vita, che sopravvivono utilizzando un apparato boccale succhiatore perfezionato per estrarre sostanze nutritive dai fiori. Nel momento in cui in Giappone ci si approccia all’argomento da un’ambito alimentare, tuttavia, è altamente probabile che l’insetto preso in considerazione sia la Vespula flaviceps, un calabrone tipico dell’Asia Orientale temuto da secoli per il dolore causato dal potente veleno del suo pungiglione. Ed assai amato, nel contempo, per il sapore notoriamente gradevole dei suoi neonati vermiformi, particolarmente apprezzati in prefetture come quelle di Nagano, Gifu ed Aichi, dove la distanza dalle coste rendeva assai difficile, soprattutto in epoca pre-moderna, poter disporre del principale cibo invernale dell’arcipelago, il pesce. È soltanto nel momento in cui si dovessero finalmente lasciare le ombre degli alti grattacieli metropolitani, meta di una soverchiante percentuale del turismo interessato a quel paese distante, che sarà possibile scoprire tutte le più profonde e complesse ramificazioni di una simile fonte d’alimentazione. Nonché una marcata propensione giapponese, certamente insospettata da molti, verso il campo apparentemente nuovo dell’entomofagia…

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