Roy Sullivan, il ranger della Virginia per sette volte condannato dal sommo Zeus

In una data per lo più incerta situata attorno alla metà degli anni venti del Novecento, un ragazzo e suo padre lavoravano in un campo. Il giovane, attorno ai quindici anni di età, era intento a regolare l’erba mediante l’utilizzo di una falce di metallo, che utilizzava con sicurezza tenendola con entrambe le mani. Il pomeriggio era avvolto nella lieve foschia che nei dintorni delle Blue Ridge Mountains, tanto spesso, sembrava indicare l’avvicinarsi di un temporale. Tuttavia nessuna goccia di pioggia era ancora caduta a terra, ed i due apparivano sereni mentre preparavano il cortile di casa ai tiepidi giorni della primavera. D’un tratto, il ragazzo smise momentaneamente di lavorare, mentre appariva concentrato su qualcosa che aveva visto verso la linea dell’orizzonte. Nel farlo, sollevò la lama della falce in senso perpendicolare al terreno. Il padre si voltò verso di lui sorridendo e fu allora che… Lo vide accadere. Un singolo possente strale di luce, filtrato a tradimento attraverso lo strato inferiore delle nubi, sfogò la sua furia elettrica lungo svariati chilometri di cielo, soltanto per scegliere nell’ultimo tratto la via di minore resistenza: il manico dell’attrezzo tenuto in mano da suo figlio. Il Dio del fulmine aveva parlato. Ma il giovane Roy Sullivan, non sembrava averne subito le conseguenze. Esiste un’anomalia statistica, occasionalmente discussa, secondo cui chi è abbastanza sfortunato da essere colpito da un fulmine, evento probabile soltanto ad 1 contro 10.000, vede aumentare in modo significativo la probabilità di subire tale fato nuovamente prima del termine della sua esistenza. Il che potrebbe anche essere rilevante nel caso di costui, la cui occupazione futura l’avrebbe condotto in età adulta ad entrare a far parte del Servizio Parchi statunitense, trascorrendo lunghi ed operosi anni tra i boschi della regione di Shenandoah, dove diventò famoso tra i colleghi per la sua saggezza proveniente dall’esperienza, la capacità di riconoscere gli alberi e le tracce degli animali. Resta altresì opinabile che questo individuo, reso celebre negli anni da innumerevoli articoli e trattazioni, fino al suo inserimento all’interno del Guinness dei Primati a partire dagli anni ’70, potesse annoverarsi tra i più fortunati dell’intera popolazione terrestre, per la sua capacità di sopravvivere senza particolari conseguenze ad uno degli incidenti più pericolosi tra coloro che trascorrono la propria vita all’aria aperta, quella di essere trasformati nel terminale conduttivo sul finire della più impressionante scarica prodotta dalla condizioni atmosferica del pianeta Terra. Non una, né due o tre volte, bensì almeno sette in aggiunta a quella non verificabile della sua età adolescenziale. Sopravvivendo fino al 1983 quando all’età di 71 anni, inaspettatamente, morì nel proprio letto in circostanze misteriose e per un colpo di pistola alla testa.
Ma prima di parlare della triste fine di una simile leggenda, sarà il caso di percorrere in maniera ordinata i punti più salienti della sua improbabile vita, partendo dal suo primo incontro, volente o nolente, con la devastante furia elettrica della Natura…

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La storia dei ventuno elefanti che misero alla prova il principale ponte statunitense

Uno stress test costituisce, nell’ingegneria moderna, l’importante passaggio mediante il quale i risultati di un progetto vengono messi alla prova, nel peggior scenario immaginabile tra quelli che potrebbero verificarsi nel corso dei lunghi anni successivi d’impiego. Qualche volta, tale iniziativa viene messa in pratica più volte attraverso l’esecuzione dei lavori, al fine di essere sicuri di ciascun passaggio. Altre volte, ne viene previsto uno al termine, come precauzione ulteriore rispetto alla certezza di aver fatto un ottimo lavoro. E poi ci sono i casi in cui l’intera opera infrastrutturale è tanto solida e assolutamente resistente, da non richiedere alcun tipo di verifica nell’idea di chi ha portato a termine le operazioni, né quella dei committenti. Per cui manifestare pubblicamente la propria incertezza può essere soltanto controproducente, per la reputazione e le iniziative future di ogni parte coinvolta. Ma la mente umana, si sa, segue dei sentieri spesso imprevedibili e non è sempre possibile attribuire un’etichetta al corso degli eventi. Tanto che può essere del tutto lecito, aspettarsi l’inaspettato ed operare sulla base delle sue conseguenze: era il 24 maggio del 1883, quando due sindaci s’incontrarono al centro esatto della surreale striscia di cemento, situata 84 metri sopra le acque agitate dell’Hudson River. A nord-ovest c’era il primo cittadino della grande New York, polo nevralgico dell’economia e l’industria, faro nascente di un diverso, e più possente tipo d’America dei tempi odierni. Ed a sud-est quello di Brooklyn, all’epoca comune indipendente, non ancora inglobato all’interno di quella che sarebbe diventata celebre come la Grande Mela. E neanche un verme, presente all’appello! I due uomini, con fare drammatico e formale, si strinsero la mano, quindi presero a percorrere i chilometro ciascuno che li separava dalle proprie rispettive comunità di appartenenza. Fuochi d’artificio illuminarono l’evento, tra il giubilo e il tripudio di un’intero popolo in festa. L’atmosfera, sulle rive del fiume che non era un fiume (ma piuttosto… Una baia?) appariva di festa e celebrazione per il completamento di una delle più incredibili creazioni nella storia degli Stati Uniti e dell’uomo. Nessuna struttura nell’intera città risultava essere più alta delle torri del ponte di Brooklyn, fatta eccezione per la guglia della Chiesa della Trinità, nel pieno distretto finanziario di Manhattan. E forse anche per questo, era stato deciso che tali sovrastrutture adottassero un comparabile stile neogotico, che le avrebbero rese delle vere e proprie icone del primo secolo post-industrialista, costruite dalla famosa coppia d’ingegneri padre-figlio Washington e John A. Roebling, il primo immigrato tedesco deceduto in seguito ad un infortunio, ed il secondo ex-ufficiale della guerra civile poi sostituito dalla moglie Emily come capo-cantiere, dopo aver riportato i sintomi della malattia da decompressione per la discesa ripetuta nei cassoni a tenuta stagna utilizzati nella costruzione del ponte.
Quello che le separava nettamente dalla struttura ecclesiastica sopra citata, tuttavia, era il doversi conquistare faticosamente la fondamentale fede della gente. Un processo complicato e che avrebbe finito per costare, drammaticamente, la vita di ulteriori 12 persone, oltre alle 27 che si erano sacrificate nel corso della sua costruzione. Erano trascorsi soltanto sei giorni dal lieto evento d’inaugurazione, quando una donna finì malauguratamente per inciampare in uno scalino che si trovava ai margini della corsia pedonale verso il centro della piattaforma. Un’altra dei presenti, rimasta sorpresa, gridò improvvisamente, causando un allarme a catena in quel pomeriggio particolarmente affollato da utilizzatori e curiosi. E fu così che tra la gente, senza alcuna soluzione di continuità, iniziò a diffondersi al voce che il più ambizioso ponte sospeso della storia stesse per crollare, come in molti avevano per l’appunto previsto. Comprensibilmente scoppiò il panico tra i proto-newyorchesi, mentre tutti iniziavano a correre in ogni direzione, premendo i propri simili contro il parapetto, i piloni, le strutture di sostegno. Fu un letterale massacro, dovuto al sospetto fondamentalmente diffuso che realizzare l’impossibile non fosse, dopo tutto, possibile, e che il disastro si trovasse sempre dietro l’angolo, per chiunque avesse preso l’iniziativa di sfidare la natura.
E qui, in molti altri momenti storici, la questione sarebbe stata presto accantonata, come un evento storico del tutto inevitabile, che tutti avrebbero tentato per quanto possibile di dimenticare. Se non che a quell’epoca, ancor più di quelle successive, gli Stati Uniti rappresentavano la terra delle opportunità e le iniziative imprenditoriali più notevoli ed innovative. Come la notevole creazione di Phineas Taylor Barnum, al secolo P.T, il più celebre e facoltoso amministratore circense nella storia contemporanea di quel mondo. Il quale, leggendo la notizia sui giornali, scelse di fare la proverbiale offerta che non poteva essere rifiutata al NYCDOT (N.Y. Department of Transportation). Un sistema che potesse far disperdere istantaneamente ogni dubbio residuo nella mente e i cuori della gente, fugando il rischio di futuri incidenti simili durante l’utilizzo della grande opera dei Roebling mentre forniva ulteriore visibilità alla sua attività principale: l’organizzazione, ed esecuzione di una maestosa sfilata di pachidermi e altri animali. L’alfa e l’omega, di una delle storie più incredibili della città di New York…

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L’Aquila Mercedes che si posò con ali nere, per risorgere d’argento

“Che cosa intendi, 751 Kg?” Notte carica d’aspettativa, quella del 3 giugno 1934, presso le campagne tedesche dove ancora oggi scorre la sottile striscia d’asfalto definita, con considerevole ottimismo, l’ormai leggendario circuito del Nürburgring Nordschleife: oltre 22 Km di “anello settentrionale” all’ombra dell’omonimo castello, dove illuminato dalla luna, il direttore sportivo della Mercedes-Benz Alfred Neubauer si accarezzava pensieroso il mento, rispondendo al capo meccanico della sua scuderia: “Non è possibile che Herr Nibel abbia sbagliato i conti. Se così fosse, all’alba saremo squalificati!” I due scambiarono uno sguardo carico di sottintesi. Era l’apice di un anno estremamente combattuto, primariamente con la grande scuderia rivale della Auto Union, conglomerato dai quattro anelli che un giorno (ma questo, loro non potevano saperlo) avrebbe finito per passare in eredità al singolo membro della August Horch Automobilwerke GmbH, oggi nota più semplicemente come Audi. In tal modo i principali antagonisti di una tale possibilità, a quell’ora tarda di quello specifico momento in bilico tra le due guerre, si affrettarono a pesare nuovamente la vettura, fiammante ancorché convenzionale monoposto W25 dall’iconica colorazione bianca. A quei tempi per lo più privi di sponsor, naturalmente, il colore aveva un’importanza primaria nelle corse d’automobili, con ciascun paese associato, convenzionalmente, a una specifica tonalità: l’Italia rossa, l’Inghilterra verde, la Francia blu e la Germania, per l’appunto, candida come la neve dei monti Wetterstein, nell’area delle Alpi Calcaree Nordtirolesi. Almeno, così recita l’aneddoto, fino a quella notte fatale. Quando Neubauer, privo di altre idee, diede l’epocale ordine: “C’è una sola possibilità: prendete i raschietti e togliete attentamente la vernice, fino all’ultimo dettaglio delle cromature. In verità vi dico: all’alba questa macchina verrà scoccata dalla corda del nostro arco. A costo di venire soprannominata la Freccia d’Argento”
Quasi un secolo dopo, c’è una stanza nell’avveniristica struttura del museo sulla storia della Mercedes a Stoccarda, in cui una serie d’automobili sono montate su una curva parabolica, piuttosto che orizzontalmente. Proprio qui figura quella stessa W25, o una identica, assieme ad una serie di veicoli, tutti dello stesso identico colore. Con alla testa di una tale straordinaria carovana, qualcosa che non sembra neanche appartenere a questo mondo: uno strano veicolo a sei ruote, altrimenti descrivibile come l’ibridazione tra un pesce ed un aereo, con doppia coda aerodinamica, un corpo lungo e flessuoso e addirittura un paio di piccole ali. Fu perciò con chiaro piglio metaforico, che all’epoca Adolf Hitler in persona ebbe l’idea di definirla Schwarzer Vogel, o Uccello Nero. Ma forse sarà meglio cominciare dal principio. Ovvero dalla raramente citata battuta di caccia, risalente al più che mai remoto 1925, in occasione della quale il giovane politico e futuro führer della Germania venne presentato dal suo autista ad un vecchio amico di nome Hans Stuck von Villiez, abile con il fucile almeno quanto al volante del suo furgone, con cui effettuava le consegne a tempo record del latte dalla propria stessa fattoria presso Monaco di Baviera, emulando nella propria fantasia le imprese dei contrabbandieri di alcolici nei distanti Stati Uniti, poco prima di farne una professione. E proprio questo fu l’inizio di una lunga e solida amicizia, tanto che nel 1933, con Hitler cancellerie e Stuck ormai diventato un pilota di una certa fama grazie ai successi motoristici conseguiti al volante della Mercedes SSK (W06) il primo si ricordò del secondo, affrettandosi a presentarlo per quello che sarebbe rimasto, anche negli anni del successivo conflitto globale, il suo principale referente in materia di motori e tecnologia: nientemeno che il controverso, ammirato e spesso discusso Ferdinand Porsche. Perciò e soltanto naturale che dall’unione tra la mente di un pilota ambiziosa e quella di un leggendario ingegnere, potesse nascere qualcosa di assolutamente straordinario. Soprattutto quando si considera la massima aspirazione del terzo personaggio di questa storia, che in un modo o nell’altro sarebbe rimasta al centro dei suoi pensieri per l’intero ventennio successivo: mettere “al primo posto”, come si usa dire anche oggi, la sua “beneamata” Germania. In tutti i campi, incluso quello tecnologico e motoristico e in un particolare campo sopra qualsiasi altro: la massima velocità che fosse mai stata raggiunta da un’automobile su strada. E quale favolosa strada, questo strano triumvirato avrebbe scelto d’impiegare…

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