Il vero cane nascosto dietro a Doge

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“Wow!” Disse il can-e: “Tutto scorre, che fluidità”. Le orecchie a punta, gli occhi a mandorla, il pelo vaporoso di un giallino fluorescente. Sullo schermo posto innanzi a lui,  la familiare cascata verticale di caratteri verdi, paralleli, dal significato chiaramente arcano; “Quale… (Magnifica) traslazione semantica!” Non c’era pace, sull’hovercraft volante Nabucodonosor, né distensione. Inseguiti dagli agenti tentacolari del mondo delle macchine, gli ultimi rappresentanti di questa palpitante razza umana, gli orfici protagonisti del film Matrix, oscillavano di continuo fra realtà e ingannevole simulazione, materia del sensibile o del digitale. E nonostante tutta la tecnologia fantastica fuoriuscita dalla mente degli sceneggiatori, fra cavetteria neurale o spinotti corticali, c’era sempre una costante d’interfaccia, fra loro e l’altro mondo: l’immancabile grafema, portatore di un significato semantico ulteriore. Quel Codice, che cadeva verso il basso, componente di molti cupi ambienti scenografici, tutti perennemente in viaggio, per necessità di trama. “A forza di guardarlo, non vedi più le cifre. Ma bistecche, belle donne o patatine fritte” Diceva un certo personaggio, “Wow…” Aggiungeva forse poco dopo, sotto voce.
Però a forza di studiarla, questa sequenza velatamente incomprensibile, capivi pure qualcos’altro. Che si trattava di caratteri giapponesi katakana, invertiti e ruotati di 180 gradi. Trasformati in glifi misteriosi, oltre che per il metodo di un simile artificio grafico, anche grazie al mutamento del contesto di fruizione: “Quanti fra il pubblico..” Avranno pensato, “…Riconosceranno questa scrittura, tutt’altro che internazionale?” Nel contempo, secondo certe teorie, la scelta di regia voleva essere un (comodo) omaggio ad altre creazioni cyberpunk, fatte d’anime fantasmagoriche nel guscio, diciamolo, relativamente: per i pochi eletti capaci di capire. Così, privo del suo senso nipponico di partenza, quell’alfabeto fonetico, normalmente usato per i termini stranieri, era diventato…Qualcos’altro. D’insensato, eppure così tremendamente significativo.
Passano 14 anni di monitor misteriosi, fra screen saver, video parodie ed animazioni in flash. La cascata del codice scorre tutt’ora, sebbene meno in evidenza, relegata a qualche sito di aspiranti anarchici ed hacker digitali. Ma fra le pieghe dell’approssimazione più simile a quel paventato mondo d’illusione, la variegata Grande Rete, spunta pure un cane, gigantesco, con il muso a Tokyo e la coda riccioluta, oh, addirittura! Fra i canali di Venezia. E altre Repubbliche marinare. Un logo imperscrutabile, l’icona per eccellenza, senza l’ombra di una lettera d’accompagnamento. Il supremo, l’onnipresente Doge. Che prima di essere anche lui canonizzato, trasformato in puri pixel trascendenti, era un vero cane. Di sesso femminile, pensa un po’. “Wow!”

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Animali dai fazzoletti nella reclame giapponese

Tissue Animals

Et tu, Brute! Salute, raffreddore. Figlio del fieno e dell’inverno. Un senso di catastrofe imminente, che si prolunga col passare dei secondi: lo starnuto che se pure arriva, lo fa quando meno te lo aspetti. Rammarico, disperazione; la giacca cambiata, il fazzoletto che non c’è “…Oh, baka!” HA-KU-SHON! (Direbbe un giapponese). Le onomatopee, questo è noto, mutano da una nazione all’altra. E così è pure per le usanze del convivere civile, soprattutto in materia di emanazioni effusive, del tipo dovuto ad intemperanze del sistema umano di processazione dell’ossigeno. Suscettibili polmoni, bronchi traditori…Come pubblicizzare i fazzoletti, senza parlare di prestazioni ed assorbimento, resistenza ai liquidi, capacità di esorcizzare di saliva? Di naso e di narici, codeste horribiles visiones? Argomenti somatici tanto più sgradevoli, in un paese in cui c’è un rispetto per gli altri così sviluppato, omni-comprensivo, che i perseguitati dal male stagionale dovrebbero girare perennemente con la mascherina. Diffusa è la gag piuttosto spiritosa, tra vecchi anime o manga in bianco e nero, del giovane protagonista, gocciolone pendulo e traballante nei pressi della faccia, trattenuto per un pelo, grazie a doti d’apnea degne di un atleta pronto per competere nelle olimpiadi degli sport acquatici. Ed è quasi poetica, quella bolla umida, la quale, sospesa magicamente nell’aere di una sera limpida d’autunno, riflette la luce della luna in due o quattro cerchi scintillanti, grazie alla perizia di un tremendamente fervido disegnatore. Riecheggia del senso dell’impermanenza che sorregge tanta parte di quell’unica, soave cultura. In Giappone, vero e virtuale, non ci si soffia questo naso, nossignore – Se non molto silenziosamente, da una parte e in assenza d’incongrui testimoni – sniiff!
Cionondimeno, con doverosa osservanza verso le logiche dell’universo, sugli scaffali dei negozi trovano posto molti fazzoletti, delle marche o fogge più diverse. Una di queste, ebbene, è la NEPIA, committente della pubblicità in oggetto, leader di settore nonché runner-up in quello dell’iper-prosaica carta igienica. Non si giunge a quei livelli di primato nazionale, tabù culturali permettendo, senza l’apporto di un valido reparto marketing, o per lo meno la capacità di creare un’immagine aziendale perfettamente calibrata. Loro, a quanto sembrerebbe, scelgono l’emblema dell’ecologia. E l’arte antica dell’origami zoomorfo-effervescente, che si muove, vive di sua iniziativa oppur barrisce, all’occorrenza.

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Mangiando hamburger con la bocca chiusa

Liberation Wrapper

Sopra la porta del tempio di Tōshō-gū, a  Nikkō, in Giappone, da quattro secoli ci sono tre scimmiette del tutto denutrite. Non mangiano panini. Né patatine fritte, né tantomeno le banane. Non si muovono e non producono alcun suono. Di una simile abulia però non c’è molto da stupirsi, visto che sono -ohibò!- di legno. Questi sono i loro nomi: Mizaru (non vede) Kikazaru (non sente) Iwazaru (non dice). Sono famosissime. Le troviamo raffigurate nei fumetti, sui libri e sui diari, nelle agende e appiccicate, come adesivi, alle carrozzerie di molte auto, avviate per le strade più diverse. Il Mahatma Gandhi, che notoriamente rifiutava ogni forma di possesso, era solito conservarne una piccola riproduzione statuaria, da contemplare. Ed è sorprendente l’importanza che può avere una simile minuzia, nella vita di una figura storica importante. Perché ci ricorda che il cervello umano lavora per immagini ultra-chiare, o per meglio dire: icone. La gestualità delle tre scimmie, ciò che fanno con le mani, è una potente allegoria. Il cui significato, come spesso capita, può venire diversamente interpretato. Le tre dottrine principali dell’Estremo Oriente, confuciana, taoista e buddhista, concordano su questa versione: Mizaru non vede (il male), Kikazaru non sente (il male), Iwazaru non dice (il male). Per il resto, tutto OK. Sono, queste scimmiette collettivamente note con il termine Sanzaru, una metafora personificata di animale probità, preziosa proprio nel suo essere fine a se stessa. La cultura popolare d’Occidente, che non può fare a meno di chiedersi “Perché lo fanno?” Di questi tempi vi ha costruito sopra uno stiléma, spesso ripetuto. Nei drammi criminali, tra prigioni e aule di giustizia, anti-eroi di dubbia moralità le invocano imitandole scherzosamente, a suggestione d’omertà. “Una mano lava l’altra, bro! Oh, qui nessuno ha visto nulla, stai tranquillo!” Come al cinema, nei videogiochi. Succede pure in GTA 5. E per un attimo persino Trevor, il più squilibrato degli alter-ego ludici di quel settore, smette rispettosamente di parlare.
Vorrei aggiungere la mia versione. Perché nel caso della terza scimmia, quella che si copre la bocca, c’è uno spunto d’approfondimento. Fin dall’epoca di Nara (710– 794) sussiste in Giappone il più curioso dei pensieri. Che i denti umani siano brutti, a vedersi; o quanto meno, ineleganti. Per questo la moda dei nobili di corte, nel periodo immediatamente successivo, imponeva che si tingessero di nero. E i samurai portavano un ventaglio, per coprirli, o usavano la manica del kimono. Ancora oggi, di una simile stranezza culturale, se ne vedono gli effetti, però ridotti al solo mondo femminile, più affine al concetto universale di graziosità. E come si usa dire: “Monkey see, monkey do…”

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L’esploratice trasformabile del web

IE Tan

Fra schermi e processori, ventole o condensatori, l’utente diventa un ingranaggio del sistema, soprattutto nelle grandi aziende. Tecnologia: il mondo dell’assoluta razionalità, logico e coerente. Così le personalità creative, esplorandolo, devono portare l’uniforme. Ogni cosa è specializzazione. Il montatore video professionaista non effettua le riprese. Chi fa il ritocco di una foto difficilmente l’ha scattata, colui che impagina, in genere, non costruisce siti (tagli al personale permettendo). E in fondo poi, perché? Se guardi gli spazi online di un gestore telefonico, di un grande magazzino ecc…Confrontandoli con le rispettive brochure o manualetti, non è che cambi poi moltissimo. C’è un intestazione –pardon- la head, ci sono riquadri geometrici con immagini e figure –pardon- i banner e il testo, molto testo, schede tecniche o piantine. Lo fai su carta, piuttosto che su schermo, il risultato è del tutto simile o persino uguale…Si e no. Ciò che cambia resta dietro, invisibile agli utenti. Per produrre il web occorre programmare in più linguaggi, adattarsi a degli standard contrapposti. Diciamolo, la colpa è pure sua. Ebbene si, di questa ragazza! Per anni la giovane guerriera, in qualche città del distante Oriente, era cresciuta lontano dai nostri riflettori virtuali, fino a quest’età fatidica della prima adolescenza. Ci aveva reso la vita difficile, col suo modo astruso d’interpretare l’HTML. Oggi è finalmente qui, iper-agguerrita, e ha gia trovato i suoi nemici senza volto né pietà, rigorosamente dotati di occhi minacciosi e bioluminescenti. Malware? Virus? “Cavalli” dei greci digitali, latòri di dubbiosi doni? Chi può dirlo. Stiamo parlando, comunque, di Inori Aizawa, la figlia segreta di 2chan e di Clippy (quella saccente graffetta che abitava in fondo a ogni pagina di Word). L’ultima mascotte di una compagnia che fra tutte, storicamente, è sempre stata quella più incapace di produrre la sua valida mascotte: l’onnipresente, l’eterna Microsoft.
Nessun ambito si muove per strade parallele, ciascuna indipendente dalle altre; così è anche questo, del mondo virtuale. Come sono i professionisti, così anche gli stereotipici utilizzatori occasionali. Tutti uguali. Siccome di questo concetto, l’uniformità, si è fatto il perenne termine paragone e fondamento  commerciale, oggi siamo al parossismo di un’imprescindibile faziosità. Che viene considerata buona e giusta.  L’utente ideale, per uno dei maggiori browser, sarebbe un po’ come un soldato. Specializzato nel suo ruolo, fedele a un ideale, soprattutto: quello di un potente logo. Ma che noia queste mele morsicate, Pokéball multicolori (cromate) e/o bussole bluastre da safari! Soprattutto, perché dovrei cliccare su quella vetusta “e” minuscola, con appena un accenno agli anelli di Saturno, per di più offuscata da una pessima reputazione (soltanto parzialmente motivata) di lentezza funzionale e incapacità interpetativa. Ora che Internet Explorer si rinnovi. Anzi, che affronti la sua vulcanica trasformazione. Verso la notte dei super-eroi nipponici, evoluzionisti per necessità, di grandi battaglie postumane. Verso le misteriose allegorie robotiche e il Futuro.

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