Il mezzo in grado di spostare fino a 10.000 tonnellate

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Il buon vecchio sistema usato per edificare un qualcosa, che prevede la disposizione di un mattone sopra l’altro, sopra l’altro, sopra l’altro: superato, lento, inefficace, anacronistico, obsoleto. Soggetto ad infinite problematiche complicazioni. Che succede se il luogo prescelto manca di infrastrutture? E se ci si trova in un paese con regolamenti particolarmente onerosi, oppure si è ricevuta la direttiva d’intervenire con il minimo impatto ambientale? È mai possibile trasportare fino al luogo deputato centinaia di operai specializzati? Che non parlano la lingua e quindi non interagiscono con le maestranze… Senza contare i costi vivi di una tale metodologia. In un mondo in cui  tutto deve muoversi velocemente, incluso il tempo stesso, e ci si prefigura di vedere pronto in poche settimane ciò che è stato appena concepito, persino l’architettura è diventata una questione di catena di montaggio. Mettere in posizione un ponte, una piattaforma offshore, un serbatoio, un trasformatore elettrico: tutto può essere fatto, ovunque. Ma è tanto più efficiente, sia dal punto di vista dei costi che dell’organizzazione, affidarsi all’ambiente controllato della fabbrica, ovvero gli strumenti tecnologici della metallurgia. Immaginate i componenti che prendono forma con immediatezza sostanziale, mediante la trasformazione idonea dei preziosi materiali primi. E quindi, previo l’esercizio della volontà umana, iniziano a spostarsi con estremo ordine, lungo l’autostrada e fino al distante molo d’imbarco. Poi da lì, fino ai porti di terre lontane. È come se gli oggetti grossi come una montagna avessero messo zampe invisibili, prese in prestito dal ragno Universale. O più nello specifico, molte (potenzialmente Infinite!) Paia di ruote.
Il primo punto alla base del concetto degli SPMT (Self Propelled Modular Transporter) non è tanto il Self, riferito alla loro capacità di spingere se stessi innanzi, mediante l’impiego di un certo numero di potenti motori, ma il Modular, ovvero l’innata e superiore capacità di cooperazione. Anzi è proprio questo, in definitiva, a renderli più forti di qualsiasi altro veicolo su questa Terra. Considerate, come termine di paragone, il rapporto tra un orso e le formiche: il primo sarà in grado di spostare facilmente il tronco di un albero, grazie ai suoi muscoli davvero impressionanti. Ma le seconde, a parità di peso, potrebbero smontare una foresta. Ed è proprio di questo, se vogliamo usare una similitudine, che riesce ad occuparsi la Mammoet, azienda olandese che opera, in diverse fin forme, ormai da ben due secoli disseminati di successi. Benché l’invenzione del suo mezzo simbolo, questo incredibile prodotto della moderna tecnologia, non risalga che al 1984, grazie ad una fortunata collaborazione con il gruppo Scheuerle di Pfedelbach, in Germania. Alcuni affermano, con sicurezza estrema, che veicoli appartenenti a questa singolare classe fossero in realtà esistenti da diversi anni, nell’interpretazione che aveva dato la compagnia inglese Econofreight. Questo non è facile da verificare; ciò che resta certo, tuttavia, è che gli eredi di Jan Goedkoop, l’imprenditore che aveva iniziato a trasportare carichi via mare tra la prima e la seconda Rivoluzione Industriale, furono i primi a dotare la loro piattaforma su ruote della capacità di ruotare su se stessa, e inoltre ad avere la geniale idea di farla larga esattamente 2,43 metri e lunga un massimo di 8,4, permettendogli di essere caricata all’interno di un container dai portuali. Il che gli ha permesso, nel corso delle ultime generazioni, di seguire il carico attraverso le onde dell’Oceano, per trovarsi pronta, caso per caso, a portarlo fino all’ultima destinazione.

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Il problema dei procioni che s’incastrano nei carri armati

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Un nemico così subdolo veloce, furbo, pronto alla battaglia, che non può essere più definito un semplice soldato, bensì un guerriero, un giustiziere della notte con tanto di maschera sul volto. Le voci corrono nella caserma: “È la prima volta che ci troviamo ad affrontare qualcosa di simile. Un lieve suono nella notte, un refolo di vento. Bastano una porta o una finestra distrattamente lasciate aperte, magari da quelli del 23°… Per non parlare degli…Sportellini di metallo. Ah! Gente di città! Loro non conoscono il PERICOLO della foresta…” Ovviamente, nessuno dei militari in servizio presso la piccola base di riservisti può avere una cognizione diretta di cosa possono farti solo due, tre anni di guerra continuativa. Chi ha servito in Vietnam, quel luogo in cui la capacità di provare sentimenti fu annacquata e trasportata vai dal soffio dei monsoni, avrà ormai un rango d’ufficiale con spalline di un certo livello, tale dal non ritrovarsi sul finir di una mattina di ottobre, ad armeggiare con un vecchio M-41 Bulldog, carro leggero in servizio dal 1953. Mai ritirato dal servizio attivo, più che altro, perché sarebbe stata una fatica eccessiva. Benché non vedrete di sicuro uno di questi mezzi trasportato all’estero dalle forze armate degli Stati Uniti, neanche per usarlo contro i mezzi altrettanto vetusti di un qualche dirupato spiegamento. Nossignore, qui stiamo parlando d’implementi bellici da usare solamente in caso di emergenza. Risorse per l’ultimo e più disperato dei conflitti. Da mantenere in condizioni ineccepibili, come segno di rispetto al Presidente e allo zio Sam. Mentre la quadrìmane controparte, a quanto ne sappiamo, non ha mai smesso di combattere senza mai un singolo dubbio sulla causa: cibo, cibo, nutrizione, pane e carne e dolci, dolci caramelle… Come potrebbe mai, un singolo soldato umano, affrontare tutto ciò? “Ca-capitano, è successo di nuovo.” Le pale del ventilatore girano a velocità ridotta, nell’elegante sala riunioni del secondo piano. Il fumo di un sigaro cubano, lieve nell’aere, disegna volute spiraleggianti che si stagliano su sciabole di luce.  “C’è un p-p-procione nel mio carro armato.” NO, CHE C▬ NON È ▬ POSSIBILE, di nuovo? Come avete potuto permettere che succedesse, COME? L’ultima volta, quei dannati cosi hanno artigliato un sedile, graffiato le ottiche della mitragliatrice secondaria, disintegrato lo zaino con le razioni K ed alla fine delle gozzoviglie, per buona misura, anche lasciato un ricordino nel compartimento delle munizioni. Vuoi ritrovarti TU a pulirlo, tenente? Io ti sequestro i guanti e te lo faccio fare con la linn▬! “N-n-n-no, non ha c-capito. Non ha capito. Signore! Questa volta il procione si è incastrato, e…” Ah. Sempre meglio, puah! Allora ecco la tua missione: torna la sotto. E tira fuori. Il procione. Dal carro armato. Non c’è un accalappiatore designato, qui.
Si, ma la vera domanda è “Come?” Naturalmente, ci sono casi d’incastramento animali in cui basta dare un colpo sul loro sedere peloso, per spaventarli a sufficienza indurli a fuggire verso l’orizzonte. In altri determinati casi di lupi o cervi che s’impigliano nel filo spinato, un paio di tenaglie e molta cautela sono l’approccio consigliato per dirimere la situazione. Ma non c’è una procedura, un modus operandi riconosciuto, per una scena tanto improbabile ed assurda. Il procione ha infatti tentato, nella sua costante attività di ladrocinio, di penetrare nel mezzo blindato attraverso la fessura rettangolare per l’episcopio del guidatore. Uno strumento simile ad un periscopio, usato per guardare fuori senza esporsi al fuoco dei cecchini. Il quale misura, a quanto pare, esattamente come il girovita della povera grassa bestiola. Che adesso si trova gambe all’aria e fuso col veicolo, come nella scena di un irriverente cartoon, mentre un altro membro del corpo carristi sta tentando disperatamente di tirarlo fuori senza fargli male. Nel frattempo un capannello di commilitoni, apparentemente senza niente di meglio di fare nella loro lunghissima giornata, gridano vari suggerimenti sconclusionati: “Tira il procione, tiralo. Spingi il procione, spingilo.” Ora al di là dello scompiglio causato da un simile imprevisto evento, appariva chiaro che chiunque avesse estratto questo equivalente della Spada della Roccia, sarebbe presto diventato al pari del Re d’Inghilterra. E tutti ci volevano provare, ma poiché la gerarchia aveva pur sempre la sua importanza, l’addetto fu pronto a farsi da parte per il suo diretto superiore. “Forse potrei usare dell’olio da cucina…” Ipotizza il tenente, nel video ripreso segretamente da qualcuno e caricato, originariamente, anche sul portale LiveLeak. Poi prese lievemente a ricordare le esperienze della sua remota gioventù…

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La precaria città delle cabine volanti

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Nelle parole di Vakhushti, principe del regno di Kartli e rinomato studioso viaggiatore, nel XVIII secolo Chiatura non era altro che: “Una roccia che si erge nel crepaccio come un pilastro, notevolmente alta. Sopra di essa c’è una chiesa, ma nessuno è più in grado di salirci, né saprebbe come farlo.” E quanto fosse effettivamente antica una simile struttura umana, sopra quella geologica praticamente senza tempo, nessuno saprebbe esattamente dirlo. Esiste però una teoria, secondo cui la lingua, e con essa l’identità nazionale dell’intera Georgia, andrebbero fatte risalire proprio a questo luogo, tra le antiche incisioni in Mrgvlovani (l’alfabeto “tondo”) realizzate su una lastra in pietra calcarea dai pochi, silenziosi monaci che vissero isolati quassù, almeno fino all’epoca delle invasioni Ottomane. Ma era un simbolo legato ad un’importante tradizione, questo monolito alto 40 metri svettante sopra il fiume di Katskhura, uno degli affluenti del vorticoso Q’virila, legato al concetto della vita ultraterrena e della Vera Croce. Così, col trascorrere degli anni, alla sua base sorse una piccola comunità religiosa, che avrebbe attratto, nel 1879, anche il poeta Akaki Tsereteli. Il quale durante un’escursione, per puro caso avrebbe scoperto sopra le montagne circostanti, preziosi depositi di manganese, un elemento usato in molti campi della metallurgia. E fu così, nel giro di appena 16 anni, in questo luogo fu fatta giungere la ferrovia, ed a poca distanza dal pilastro venne costruita in primo luogo una miniera, quindi, tutto attorno, la città.
Ai tempi della Rivoluzione Russa del 1905, Chiatura era un importante centro minerario con almeno 3.700 addetti all’estrazione, che ogni giorno dovevano arrampicarsi sulle ripide pendici del dirupo, per raggiungere le alte aperture che conducevano nel sottosuolo. In quello stesso anno, un giovane idealista in fuga dalle autorità si presentò ai monaci che qui avevano costituito la loro residenza, in un appassionato discorso di 15 minuti che riuscì a convincerli e portarli alla sua causa, al punto da guadagnarsi la nomina ipso facto di sergente maggiore, e la costante protezione di una squadra di milizia popolare soprannominata “guardia rossa”. Il nome di quell’uomo era Joseph Stalin, e questo luogo, per i pochi anni che mancavano alla caduta degli zar, sarebbe diventata la sua prima roccaforte. Per tutta l’epoca del suo dominio, quindi, egli si sarebbe ricordato della piccola città georgiana, dando disposizioni occasionali affinché essa ricevesse molte significative opere pubbliche, il meglio dell’urbanistica moderna, e soprattutto, un particolare servizio di trasporti pubblici, che potremmo definire senza alcun problema unico al mondo: 22 distinte funivie, in grado di risolvere il problema della quotidiana scalata da parte dei minatori. Il progetto non si sarebbe realizzato, ad ogni modo, se non dopo l’epoca della sua morte, quando verso la metà degli anni ’50 venne ultimata l’ultima stazione del servizio, e gli urbanisti del partito, soddisfatti dell’opera svolta, non avrebbero di nuovo fatto rotta verso la distante capitale moscovita.
Così la ruota gira, ed il tempo passa per tutte le cose. Oggi, delle originali cabine volanti ne restano operative esattamente 17. Scrostate nella verniciatura e consumate dalla ruggine, oscillanti nel vento, residuato affine a quello di molti altri luoghi di un’epoca di più significativo ottimismo, battuta dal Sole entusiastico dell’avvenire. La popolazione locale le ha soprannominate “bare di metallo” eppure, questione indubbiamente sorprendente, continua quasi quotidianamente ad usarle, per il semplice fatto che non c’è un modo migliore, allo stato attuale dei fatti, per raggiungere le pendici soprastanti ed andare finalmente a lavorare. Nei caratteristici edifici religiosi circostante, una fervente comunità rinnova costantemente le proprie preghiere. Viene da chiedersi se non sia proprio questa, l’unica ragione per cui è ancora non si verifica l’irreparabile tragedia.

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Un trattore che si avvia con le cartucce di fucile

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Scenario: l’immediato periodo successivo al termine della seconda guerra mondiale. In un mondo stanco e ferito, sostenuto da un senso di latente sollievo, provato nell’anima ma lieto di voltare finalmente pagina, l’economia e l’industria cominciavano a tornare lentamente sul binario principale. E tutte le industrie, da Oriente ad Occidente, che per tanti anni avevano prodotto soltanto aeroplani o carri armati, avrebbero fornito gli strumenti stessi per cercare la normalità. Niente più cannoni ma tegami, aratri al posto dei fucili ed i motori potenziati dell’ultima generazione, vincitori di campagne combattute fino all’ultima goccia di carburante, che per la prima volta si trovavano applicati in ambito civile, servendo a svolgere mansioni maggiormente edificanti. Il che non significa, del resto, che le fabbriche di munizioni avrebbero dovuto chiudere del tutto. C’era, dopo tutto, ancora la necessità di andare a caccia, ed esisteva pure un certo di tipo di agricoltore. Il quale i propri colpi, li sparava col trattore. Anzi, DENTRO il trattore. E non soltanto perché il gesto risultava… Straordinariamente divertente!
Il particolare approccio era mutuato anch’esso, guarda caso, dall’ambito dei mezzi militari: perché all’epoca non c’era proprio niente di meno pratico, ponderoso e inaffidabile, che un sistema d’accensione elettrica, che richiedeva grosse batterie da mantenere cariche grazie ad attrezzature specializzate. Mentre il metodo dell’avviamento per inerzia, tramite l’impiego di un volano con o senza la stereotipata manovella, risultavano ingombranti, lenti e faticosi. Provate, a tal proposito, a vedere la questione dalla prospettiva degli anziani, che per anni avevano dovuto mantenere attivi i campi, mentre i loro figli, generi e nipoti, combattevano sui fronti più lontani e disperati. Uomini dai molti anni e qualche volta le afflizioni dell’età, piegati dolorosamente, per roteare il meccanismo ancòra e ancòra, finché a un certo punto finalmente l’accensione del veicolo giungeva a compimento. Così quando nel 1945 la Marshall, Sons & Co. di Gainsborough, nel Lincolnshire inglese, uscì sul mercato col suo ultimo e più rivoluzionario modello di veicolo agricolo, lo fece dando la più alta rilevanza pubblicitaria ad una particolare, fantastica funzione: il sistema di avviamento con cartuccia di fucile. Per cominciare la giornata di lavoro con un solo gesto, in pochi attimi, e passare subito al paragrafo più rilevante. Osservare con ammirazione, oggi, una simile prassi desueta, può sembrare un mero passatempo nostalgico. Ma la realtà è che il funzionamento di questi motori a diesel, tanto diversi da quelli attuali, potrebbe offrire un utile metro di paragone, per cercare nuove strade evolutive, potenzialmente meno problematiche o inquinanti.
A spiegarci il funzionamento del miracoloso meccanismo, ci pensa l’agricoltore veterano Pete, orgoglioso proprietario di un modello Field Marshall tirato a lucido fin quasi alle condizioni del nuovo, in questo video all’apparenza girato durante un qualche tipo di concorso per veicoli di un altro tempo, probabilmente tenutosi nel 2011 in un luogo d’Inghilterra. Il tutto ci giunge grazie al nostro relatore John Finch, autore e cameraman del video, che ci fa notare di aver “saputo porre le domande giuste al momento giusto” complessa operazione che lui definisce non senza ironia il “punto primo” dell’intera procedura. Mentre è ciò che viene subito dopo, a catturare l’attenzione e l’immaginazione…

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