La pianta immortale nel deserto del Namib

Welwitschia

Guidando tra le aride sabbie dell’Africa Occidentale, dove le strade adatte agli pneumatici sono una ricchezza estremamente rara, può capitare di scorgere, grazie alla sua lunga ombra meridiana, un’oggetto conico e rossastro, dalla genesi piuttosto misteriosa. Umanità, curiosità. Sarà difficile, a quel punto non fermare la potente automobile a noleggio, aprire lo sportello e andare a controllare; immaginando, forse, di aver trovato un qualche minerale raro. L’uovo di un rettile cornuto, magari, oppure un favoloso cellulare, in grado di ricevere chiamate fino in capo al mondo. Ma con l’avvicinarsi graduale a tale cosa, fra refoli di vento e basse nuvolette polverose, sara presto chiara la realtà: era una pigna, questa qui. Si, l’ordinario ricettacolo vegetale, che noi da sempre associamo ai boschi della cara e vecchia Europa, la maggiore esportazione di pinete verdi e rigogliose. Facendosi scudo dalla luce abbagliante del Sole grazie alla propria mano destra, sarà quindi il momento di guardarsi tutto attorno…Possibile che in mezzo ai grani erosi di una simile distesa, così chiaramente priva di vitalità, cresca una conifera, sperduta? Non c’è pizzo verde in vista, non c’è canto urgente di nidiate sopra rami pieni d’aghi. Ovviamente. Eppure la pigna che teniamo in mano è cresciuta proprio qui vicino, giusto dietro l’escrescenza collinare ed oltre il prossimo orizzonte. Come sia giunta fino a palesarsi, è una storia estremamente lunga. Che inizia come finisce, da un piccolo seme nudo posto sulla culla di una brattea in legno, mangiatoia della sua esistenza, due millenni d’anni fa.
Tweeblaarkanniedood: ovvero, in lingua afrikaans, due foglie che non muoiono (mai). Sempre, comunque, esattamente due. Una per il giorno, l’altra per la notte. Una per il principio, la sua controparte per la vita eterna. L’alto e il basso, il bianco e il nero. Ma non attentamente distinti tra di loro, tali e tanti concetti, bensì avviluppati dentro a un’orrida matassa, tutta rovinata e quasi secca nelle sue propaggini marroni. Quando William Jackson Hooker, il direttore dei Royal Botanic Gardens di Kew, ricevette dal suo amico e collega austriaco Friedrich Welwitsch il primo campione di questo possente vegetale nel 1860, scrisse nella sua lettera di ringraziamenti: “Questa è la più straordinaria pianta mai introdotta nel mio paese. Certamente, anche una delle più brutte.” Poi la chiamò Welwitschia mirabilis, perché fosse chiaro a tutti chi osava evoare questo fulmine scientifico, in grado di gettare nello sconforto l’intera comunità botanica internazionale. La pianta eterna del deserto della Namibia, infatti, tutt’ora sfugge alla classificazione. Il suo ordine è il Welwitschiales, viene definita l’unica esponente della “famiglia” delle Welwitschiaceae, nonché del genere Welwitschia. Specie, beh, questo era facile ed al tempo stesso inutile: mirabilis – stupefacente. Tanto che forse sarebbe più appropriato, nonché preciso, definirla per analogia: come fece lo stesso Charles Darwin in via informale, che la chiamano “l’ornitorinco delle piante”. Non solo per la sua evidente stranezza estetica, ma anche per il modo in cui pare incorporare le caratteristiche di tante altre specie, radicalmente differenti tra di loro.

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Invasione di locuste nella capitale del Madagascar

Locuste ad Antananarivo

“Quando giungerà l’autunno nel nono giorno del nono mese, il mio fiore sboccerà e tutti gli altri moriranno. Quando la fragranza del crisantemo saturerà Chang’an, l’intera città verrà ricoperta di un’armatura d’oro.” Il celebre componimento di Huang Chao, capo ribelle contro la dinastia cinese dei Tang, era stato impiegato dal regista Zhang Yimou nel film La Città Proibita (2006) per introdurre un’epica battaglia. Il manto splendido dei fiori di crisantemi era lì trasfigurato, infatti, nell’armatura gialla e luminosa di altrettanti soldati, gli strenui difensori del Mandato Celeste e dell’Imperatore. Il ciclo delle stagioni è una realtà che caratterizza ogni regione, civiltà e cultura del mondo. Le sue immagini floride ci conturbano, mentre i gesti che ne conseguono, le ribellioni ad opera degli esseri naturali con queste folli e pericolose migrazioni, ci ricordano le alterne peripezie dell’umanità. A Sud-Est del grande continente africano, presso l’isola del Madagascar, si sta ora verificando la più antica e terribile delle confluenze, mentre una città di un milione e mezzo di abitanti, Antananarivo sul finire dell’estate, si ricopre di un impenetrabile velo nero. È rumoroso e multiforme, mentre fluttua nell’aere, questo feroce sciame di cavallette giganti. Si potrebbe quasi definire: biblico. Tutto è iniziato, per inciso, lo scorso giovedì 28 agosto. E finirà…
Le cavallette appartenenti alla famiglia delle Acrididae, estremamente vasta e variegata, sono generalmente caratterizzate da antenne corte e dalla collocazione dei timpani auditivi sul lato del primo segmento addominale. Ma sono note, soprattutto, per la loro predisposizione a migrare diverse volte nel corso della propria vita, causando enormi problematiche per l’industria agricola e l’economia dei paesi in via di sviluppo, così sfortunati da trovarsi sulla loro strada. La causa scatenante di un tale disastro, secondo l’evidenza logica nonché alcuni studi effettuati dall’Università di Oxford (evviva la scienza!) Sarebbe primariamente la sovrappopolazione. Questi insetti, che come tutti gli altri appartenenti a tale classe sono davvero molto prolifici, si sviluppano attraverso fasi precise, che causano variazioni anche significative nella loro pigmentazione e grandezza. In modo particolare, risulta rilevante il ciclo della Locusta migratoria, la specie più diffusa in Africa nonché la probabile colpevole della situazione di Antananarivo: questa vive una gioventù solitaria. Pacifica mangia erba e foglie di piante a basso fusto, che sminuzza e incamera nell’organo definito mesenteron, all’interno del quale la materia viene dissociata e digerita da specifici enzimi. In tale fase l’insetto è prevalentemente grigio-marrone, con un tocco di giallo che aumenta in proporzione all’età. Mano a mano che un’habitat si rivela propedeutico alla crescita e al prosperare delle cavallette, tuttavia, restare soli diventa progressivamente più difficile. Aumentano gli incontri battaglieri e con essi lo stress. Gli animali in questione, riattivando un  meccanismo evolutivo insito nella loro fisicità, iniziano a secernere un particolare feromone, che richiama i consimili a raccolta; da un estremo all’altro, dunque, si forma l’assembramento. È davvero mirabile a vedersi. La loro colorazione assume il caratteristico colore verde brillante, mentre ciascun esemplare aumenta notevolmente di dimensioni. Superato il punto di non ritorno, la locusta diventa estremamente vorace, riuscendo a fagocitare il suo equivalente di peso (alcuni grammi) per ciascuna giornata. Potrebbe sembrare poco, ma moltiplicatelo per mille, diecimila, milioni di volte…Ben presto, del bosco primordiale delle tranquille origini artropodi, non resta pressoché nulla. Giunge, dunque, l’ora di spostarsi verso lidi migliori.
I quattro movimenti della vita animale sono: nomadismo, stanzialità, selezione R (alta crescita) selezione K (alta percentuale di sopravvivenza). Una specie che punta alla sopravvivenza di ciascun membro della sua prole, come siamo noi esseri umani, punta generalmente al predominio di una specifica nicchia evolutiva. Prima che la preponderante massa del nostro cervello, con l’intelligenza che ne deriva, rovesciasse del tutto i rapporti di potenza, le civiltà protostoriche oscillavano tra le soluzioni contrapposte della caccia e dell’agricoltura. La prima, conducente al nomadismo, tra bestie feroci e rischi ambientali. Mentre la seconda, costituiva il fondamento stesso della costituzione di vere città, impervie ai pericoli naturali. Tranne uno. Per una specie come le locuste, che mirano alla riproduzione in grandissimo numero, indipendentemente dalla realizzazione dei singoli individui, il viaggio è tutto. E guai a chi dovesse frapporsi fra loro e la meta…

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Il magma argenteo freddo come un forno a legna

Lava di carbonatite

Non scordiamoci il pomodoro. È la più alta, mistica ed impressionante di tutte le fontane Zen per la meditazione. È un colosso che ha radici nelle viscere del mondo, ma piuttosto pare una sorgente. È il vulcano tanzanese che il popolo Masai da sempre chiama: Ol Doinyo Lengai, ovvero: la montagna di Dio. Qualifica che lo accomuna a tanti altri suoi colleghi, però tutti privi di cotanta quintessenza. Perché non è come il Fujiyama, tale picco, non è l’Etna né l’islandese Bardarbunga. Dalla sua cima scaturisce una fanghiglia assai particolare, quasi fredda, se mai volessimo toccarla. Mille gradi in meno della consuetudine, per un totale di “soltanto” 500. Di una zuppa che non è comunque terra mista ad acqua, come avviene nei crateri dei massicci di Berka in Romania. Ma vera pietra liquida detta carbonatite o natrocarbonatite, sostanza mista a terre rare e stronzio, bario, niobio. Una lava differente, osservabile, ai nostri giorni, solamente in questo strano luogo. Il cui colore pare quello del mercurio, dell’argento, delle nubi di una sera sul finir d’agosto. Non vorreste visitarla, un po’ assaggiarla? Per una spedizione, mai pianificata, da portare avanti con un forte piglio sperimentativo. Se ci siamo, adesso è ora di mangiare. Di appoggiare questa pizza sopra il flusso di fanghiglia quasi incandescente, definito in gergo hornito. Tempo di cottura: tre minuti, almeno. Si consiglia l’uso di un tegame con coperchio. Per salvare i denti, la purezza dell’impasto ed il colore…
Eternamente bianco. Tale massiccio alto poco meno di 3000 metri, appartenente alla macro-famiglia conica degli stratovulcani, è sicuramente uno dei più interessanti al mondo. La sua unicità spicca già guardandolo da lontano: perché pare, al primo e anche al secondo sguardo, che sia del tutto ricoperto dalla neve. Situazione, questa, estremamente poco probabile tra il 13° e il 14° parallelo, nell’Africa sud-orientale della Rift Valley, al di sotto delle nubi e dove piove soltanto per due mesi l’anno. Ma basta avvicinarsi per capire che si tratta in realtà di uno strato di calciti, sodio solidificato (simbolo chimico Na, da cui il termine natrocarbonatite) e una pletora di elementi alcalini, impalliditi come di consueto al primo contatto dell’aria. Lungamente ricercata e soltanto infine concessa, per la forza della fisica, a tali abissali fluidi provenienti dal mantello stesso della Terra. Non è davvero importante quanto sia insistente l’erosione. Perché il manto candido si ispessisce di continuo, durante le frequenti eruzioni, sia esplosive che effusive, di questo bellicoso cugino del Kilimangiaro. Quel gigante silenzioso sito a meno di 200 Km verso ovest con i suoi sei chilometri dall’altezza, all’estremità opposta della tropicale cordigliera. Dotato, lui davvero, dell’eterno ghiacciaio del Rebmann, fredda particolarità concessa solamente a un tale monte, che non erutta da almeno 170 anni.  Tutto il contrario dell’esuberante Ol Doinyo Lengai, con la sua furia reiterata e pervasiva. In quanto il nostro protagonista, piuttosto che farsi forza dei comuni silicati magmatici, viscosi e proni all’accumulamento per un alto numero di generazioni (finché…)
Ha questo fluido strabiliante, simile all’argentovivo, proveniente da sostanze misteriose. Spinto innanzi, tanto spesso, dall’apporto di una forte componente di gas, tra cui il diossido di carbonio, da sempre direttamente proporzionale alla ribalderia di un monte sputafuoco. Lui, in particolare, si è infatti scatenato molte volte durante il corso dello scorso secolo e poi di nuovo nel 2007, nel 2008, nel 2010 e nel 2013, quando formò una nube piroclastica da far invidia a certi terribili film statunitensi. Con un’importante differenza: ciò che è rimasto, al diradarsi del fumo irrespirabile, sopra il suolo di queste regioni praticamente disabitate. Un tesoro della massima entità, soltanto di recente ricercato…

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Madri macroscopiche della natura

Cucciolo di giraffa

Felini riportati al loro posto, finalmente. Non cala mai la nebbia sul confine tra la Tanzania e il Kenya, nella pianeggiante regione del Serengeti. E i predatori, per cacciare, sono sempre sotto gli occhi e i nasi delle prede; che possa esistere un carnivoro così scaltro da potersi procurare il cibo in tali avverse condizioni, non è cosa facile da trascurare. Non per niente, lo chiamano il re della foresta. Benché questa incoronazione sottintenda una fondamentale dimenticanza, la tipica trascuratezza di chi guarda solo quello che vuol vedere. Non è chiaro? Tale zannuto dominio viene continuamente contrastato, giorno dopo giorno, dalla venuta di visitatori assai ingombranti. Impossibili da divorare o mandar via. Come noi, oppure questa giraffa con il cucciolo, ripresa nella riserva del Masai Mara, presso il Kicheche Bush Camp, resort turistico pensato per gli amanti avventurosi della natura. Il secondo animale di terra più grande al mondo, nonché quello più alto, sarebbe questo dinosauro dei nostri tempi, che spaventa addirittura lui, loro e tutti gli altri; alto e forte, fiero masticatore delle foglie irraggiungibili dai suoi compatrioti naturali. Soprattutto, protettivo della sua preziosa discendenza.
Il cucciolo della giraffa nasce dopo 400-460 giorni di gestazione, cadendo da un’altezza di due metri o giù di lì, con le zampe in avanti, ancora senza corna ma già alto quasi due metri, già pronto a correre e scappare via. Nel giro di poche ore, sarà virtualmente indistinguibile da un esemplare di 1, 2 settimane. Questa è la natura degli erbivori, per quanto imponenti siano nelle proporzioni: dover sempre dipendere dalla velocità, per la sopravvivenza. Anche se, alla fine, avete mai visto soccombere una bestia di tali enormi dimensioni? Il calcio di un cavallo, se colpisce il suo bersaglio, è già sufficiente a scoraggiare un lupo solitario. Figuriamoci quello dato da questa gigantessa! Nel comportamento sociale delle giraffe madri, esiste un meccanismo definito con il termine francese di crèche. Tale approccio procedurale, ampiamente documentato anche tra gli elefanti ed i leoni, consiste nel prendersi cura non soltanto dei propri cuccioli, ma anche di quelli degli altri suoi simili. È uno strumento evolutivo di sopravvivenza. Per simili appartenenti alla classe biologica della macrofauna, la riproduzione è un momento delicato, che corona mesi di pericoli e fatica. È dunque fondamentale, per la continuativa sopravvivenza della specie, che ogni singolo erede prosperi e raggiunga l’età riproduttiva.
Le giraffe non hanno un ruolo primario nell’educazione dei propri piccoli. Benché interagiscano con loro amichevolmente, soprattutto nei primi mesi, quando ancora il cucciolo è vulnerabile. E tende soprattutto a nascondersi, usando il suo manto maculato. Che funziona, però fino a un certo punto. Perché comunque nel pericolo, quando per l’appunto: hic sunt leones, c’è sempre qualcuna/o pronta/o a intervenire. Che sia la propria madre o quella d’altri, non importa. La giraffa non è predisposta alle formalità. E neanche…

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