Lo straordinario sottomarino biologico rappresentato dalla madre dell’opossum di fiume

Ecologicamente parlando, per un granchio, pesce o mollusco ci sono dei vantaggi significativi nell’uscire dai propri nascondigli unicamente dopo il tramonto del sole. Lontano da esche subdole, uccelli cercatori, lo sguardo famelico di mammiferi carnivori e altri agguerriti predatori. Per gli appartenenti a tali classi d’animali nell’America Meridionale e Centrale, nonché parte dei ruscelli e laghi d’acqua dolce messicana, persiste tuttavia un problema la cui metodologia di caccia trova sfogo soprattutto al sopraggiungere del buio. Potendo fare affidamento su adattamenti dall’alto grado di specificità, tra cui vista e olfatto sviluppati, ma soprattutto una capacità del tatto superiore alla media concentrata nelle zampe e le lunghissime, sensibili vibrisse che circondano il suo muso aguzzo dai molti piccoli denti affilati. Essendo un tipico rappresentante, sin dall’epoca preistorica, del gruppo di creature che hanno l’abitudine e far stare i propri piccoli all’interno di un’apposito marsupio, sebbene in questo caso caratterizzato da una serie di peculiarità piuttosto rare. In primo luogo, la presenza di questa caratteristica anatomica sia nel maschio che la femmina della specie. E secondariamente, la presenza di una muscolatura piuttosto sviluppata attorno all’apertura del suddetto, permettendo ad ambo i sessi di “chiuderlo” ermeticamente, sigillandolo in tal modo e proteggendo il contenuto dal proprio primario elemento di pertinenza: l’acqua stessa, che altro?
Sussistono in effetti, all’interno della famiglia ben studiata dei Didelphidae, ovvero i tipici opossum del nuovo mondo, due gruppi di creature perfettamente adattate dall’evoluzione alla vita anfibia. Da una parte l’intero genus Lutreolina, con due varietà riconosciute egualmente inclini a trascorrere una parte piccola ma significativa della propria esistenza immersi nel corso dei fiumi. E dall’altro, il protagonista della qui presente trattazione detto scientificamente Chironectes minimus, specie monotipica il cui soprannome utilizzato dai locali è yapok, antonomasia verosimile del fiume Oyapok situato entro i confini del Guiana Francese. Tra il novero dei luoghi dove può essere talvolta udito, nelle ore in cui la luce diurna lascia temporaneamente il territorio, mentre sgranocchia rumorosamente il suo crostaceo d’occasione, lungo gli argini del contesto semi-sommerso ove trascorre la più alta percentuale delle proprie ore di veglia. Guardingo, attento, striato come l’estinta tigre tasmaniana, cui sorprendentemente, per certi versi, assomiglia…

Mammiferi associati in linea di principio al continente australiano, i marsupiali ebbero in realtà la propensione inspiegabile a migrare dai lunghi ponti oceanici attraverso l’Africa e gli altri continenti meridionali, riuscendo in qualche modo a giungere nella regione settentrionale dell’Amazzonia. Con i primi fossili trovati dell’opossum americano risalenti all’Era geologica del Miocene, 20 milioni di anni fa, trovandosi in posizione ideale per quella che sarebbe diventato, molto tempo dopo, il fenomeno migratorio del grande scambio americano. Un ulteriore spostamento di habitat, verificatosi approssimativamente 2,7 milioni di anni a questa parte, delle genìe settentrionali con quelle meridionali, il che avrebbe portato tra le altre cose l’opossum della Virginia (Didelphis V.) a colonizzare il territorio degli odierni Stati Uniti. Il che non significa, naturalmente, che i suoi cugini meridionali avrebbero cessato del tutto di esistere, potendo anzi disporre di nicchie ecologiche privilegiate entro cui sviluppare i propri fenotipi evolutivi di riferimento. Doti come il possesso di un pelo folto, corto ed idrorepellente da parte del membro acquatico della famiglia, così da massimizzare la sua capacità di nuoto e scivolamento in circostanze immerse, rispetto alla lenta benché resiliente modalità di spostarsi del comune opossum all’interno di tale ambiente. Un vantaggio ulteriormente massimizzato dal possesso di zampe posteriori palmate, a differenza di quelle anteriori, usate per manipolare ed agguantare la preda di turno. Benché entrambi le categorie di arti vantino una configurazione quasi simmetrica con l’alluce in posizione parallela alle altre dita, così da minimizzare il dispendio energetico per trasmettere il moto meccanico all’interno del fluido in cui si trovano temporaneamente immersi. Non meno notevole, come sopra menzionato, la prerogativa dei piccoli, partoriti in genere in gruppi di 4-5 attorno ai mesi di dicembre e gennaio, a poter trattenere il fiato e sopravvivere parecchi minuti all’interno di uno spazio totalmente sommerso, in questo caso il marsupio materno chiuso in modo ermetico. Una strategia del tutto necessaria a custodire e proteggerli nella loro natura altriciale, con occhi destinati a rimanere chiusi almeno fino al 38° giorno di vita. Il che ci porta all’essenziale domanda del perché il maschio, che protegge e segue la femmina in questo periodo della sua vita, possieda anche lui un marsupio. La risposta è semplice, ma interessante: egli fa impiego infatti della tasca naturale per sigillarvi dentro i testicoli durante il nuovo, che in questo modo restano termicamente protetti, lontani da eventuali ostacoli sommersi e cosa ancora più pratica, non contribuiscono in maniera negativa alle prerogative idrodinamiche del corpo di lui. Un effetto che potremmo associare idealmente a quello degli stretti costumi impiegati dai partecipanti olimpici durante le competizioni di nuoto.

Interessante fossile vivente, con diverse caratteristiche prive di termini di paragone nell’attuale mondo animale, l’opossum acquatico risulta sorprendentemente ancora oggi poco studiato nel suo ambiente naturale e sottoposto a limitati sforzi di conservazione internazionali. Questo nonostante sia stato ripetutamente qualificato, in qualità di predatore al vertice di molti ambienti di riferimento, come fortemente influenzabile dalla riduzione dell’habitat e l’inquinamento dei fiumi. Mentre la troppa vicinanza degli insediamenti umani, nella maniera riportata in uno studio del 2022 in Brasile (Mendonça, Vieira) è stata associata alla propensione degli animali a lasciare l’ambiente avìto, trasferendosi a una vita interamente all’asciutto che diminuisce drasticamente le loro possibilità di sopravvivenza. Tutto questo nell’attesa, come sempre tristemente necessaria, che un qualche indice del rischio d’estinzione possa categorizzarlo presto o tardi. Ricordandoci che niente e nessuno, per quanto possa essere antica la sua tradizione, è totalmente al sicuro dal valico dell’ultima soglia, da cui non potrà più ritornare e frequentare le ben note, amene valli planetarie di provenienza. Riportandoci al fondamentale nonché solito quesito di chi sia davvero un interprete più meritevole della vita terrena/tangibile, tra noi (frenetici, stressati, indifferenti) e colui che vive in modo pratico, cacciando solamente quello che riesce a mangiare.

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