Bulldozer incatenato Vs. il pericolo dei campi minati

“Oltre quella duna, sergente. Laggiù…Dietro il cumulo di sabbia. C’è la postazione dei tedeschi e degli italiani fatta fotografare ieri dai ricognitori aerei, coi cannoni anticarro puntati dritti lungo l’unico viale d’accesso libero per El Alamein. Da qui non possono neppure vederci. Ma tutto il resto è un mare di esplosivi, un vero Giardino del Demonio.” Un secondo di silenzio sembrò intromettersi nel rombo dell’artiglieria di sbarramento, poi tutto continuò com’era prima. Devil’s Garden: un tale soprannome circolava in effetti, tra l’alleanza di Inglesi, Australiani, Neozelandesi, Sud Africani, Francesi, Greci ed Americani, per l’intera zona del campo di battaglia che il temibile Erwin Rommel detto Wüstenfuchs (la Volpe del Deserto) aveva fatto disseminare di tre milioni delle migliori, più affidabili e pericolose mine anticarro tedesche, nella precisa consapevolezza che proprio nessuno, tra i comandanti delle forze corazzate nemiche, aveva ancora imparato a fluttuare sopra il suolo sabbioso del deserto, guadagnandosi quindi l’opportunità di sorprendere le sue truppe alle spalle. “Ma quel vecchio canide baffi-lunghi e muso-a-punta non ha ancora fatto i conti con la punta della lancia. Il Corpo Ingegneri dell’Esercito di Sua Maestà. Fate avanzare…Gli Scorpioni!” Ora, se la seconda guerra mondiale si fosse svolta nel medioevo, innanzi tutto questo sarebbe stato molto meglio, per ciascuna delle parti coinvolte. Le limitazioni in fatto di tecnologia bellica, oltre alle difficoltà inerenti nell’impresa per l’epoca improbabile di attraversare gli oceani Atlantico e Pacifico, avrebbero reso indubbiamente l’intero affare molto meno sanguinoso, nonché prolisso. E gli scorpioni sarebbero stati una versione soltanto lievemente perfezionata di una delle macchine da assedio preferite dagli Antichi Romani, sostanzialmente delle gigantesche balestre caricate grazie alla torsione. Ma nell’Anno Domini 1942, il nome dell’aracnide preferito da tutti i bambini si riferiva a un qualcosa di radicalmente diverso, ovvero un Matilda Scorpion, uno di quei carri di fanteria ormai un po’ antiquati, poco armati e lenti ma dotati di una buona corazzatura, che erano stati modificati per incorporare un pesante rullo nella parte frontale, posizionato circa 1,8 metri dal muso del veicolo. Rullo sopra il quale, con notevole dimostrazione di perizia costruttiva, erano state assicurate esattamente 24 catene con dei pesi all’estremità. Tale impressionante thingmajing era dunque stato connesso ad un motore Ford V8 da 105 cavalli. Durante l’avanzata verso le linee nemiche, a questo punto, un coraggioso si sarebbe piazzato dietro la torretta del carro armato tentando di non cadere, ed avrebbe usato i comandi ad impulso elettrico per dirigere la spietata rotazione. E se tutto fosse andato bene, le mine sarebbero scoppiate PRIMA dell’arrivo del carro stesso.
Chi diamine aveva avuto questa idea? Ovviamente non lui, l’operatore. Bensì un certo capitano Abraham du Toit, a quanto si dice, di stanza in Sud Africa all’inizio della guerra. Il quale mise tutto per iscritto, colpendo ad un tal punto la fantasia dei suoi superiori, che fu subito promosso e rimandato in Inghilterra a lavorarci in gran segreto (ah, però!) Ma non prima di averne parlato, per sua e nostra fortuna, con l’ingegnere meccanico capitan Norman Berry, che in un attimo ebbe modo di diventare il suo più grande fan. Fu proprio quest’ultimo quindi, collaborando con il maggiore L. A. Girling ed altri membri del comando africano Sul-Campo, che giunse all’elaborazione dello sconcertante progetto Matilda Scorpion. Le cronache affermano che il nome del veicolo modificato si fosse palesato quasi spontaneamente, all’esclamazione di un soldato semplice che aveva visto il mostro fuoriuscire dal garage. Un qualcosa di simile a: “Goddammit! Sembra proprio uno Scorpiòn!” Ritagli memorabili di vita militare. E il debutto della nuova, costosa attrezzatura, fu… Beh, torniamo a raccontare la storia, per così dire, dall’interno…

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L’orribile sovrano del regno dei topi

Non c’è espressione migliore di efficienza a questo mondo, della capacità prosperare in ogni situazione del roditore topo. E la forma più alta di quest’ultimo, nella forza, resilienza, intelligenza e ricchezza di risorse, è senza ombra di dubbio il ratto nero. L’essere che dopo aver messo a ferro e fuoco l’India, infestò le navi dei mercanti arabi sbarcando in mezza Asia, per poi giungere fino in Europa grazie all’utile passaggio dei cavalieri di ritorno dalle crociate. La singola specie di mammifero più invasiva al mondo, in grado di soverchiare persino i grandi e antichi insetti delle isole d’Oceania, dopo aver dominato i vicoli oscuri dei maggiori centri culturali e commerciali del Medioevo e Rinascimento, portandovi “accidentalmente” la Peste Nera. Un dono all’umanità, in realtà, concesso dalle pulci contenute nel loro pelo, ma che risultò straordinariamente utile a ridurre il numero dei grossi bipedi rivali, con le loro trappole, i loro veleni, il loro sistema immunitario inefficace. Faceva tutto parte…Del piano? Possibile? Un ratto non è poi così diverso dagli umani. Esso possiede gli stessi organi, lo stesso istinto di sopravvivenza. Vive in società e protegge la sua prole, poiché comprende ad un livello istintivo che in essa alberga la chiave del futuro della sua specie. Ma c’è una cosa di cui manca, almeno presumibilmente: l’organizzazione. Poiché dinnanzi all’esigenza di sopravvivere ogni giorno, tutti i roditori sono uguali. E sarebbe del tutto impossibile per loro, dunque, concepire il concetto stesso di un governo centrale. Il che non significa, del resto, che un ratto particolarmente vecchio e saggio, in determinate condizioni, non possa accentrare su di se una sensibile percentuale del cibo e le altre risorse a disposizione di una singola colonia, iniziando, nei fatti, e dirigerne le operazioni. L’oligarchia è una naturale tendenza di tutti gli esseri viventi, poiché a volte, consente di determinare il corso dell’immediato futuro, piuttosto che subirlo in modalità del tutto passiva. Nelle settimane o mesi a seguire, quindi, i piccoli esseri pelosi iniziavano a girare attorno a simili figure, venerandoli come fossero i loro stessi dei. E ad un certo punto, per quanto ci è dato di sapere, vi restavano attaccati per la coda.
Un Rattenkönig, re dei ratti, è una celebre creatura compòsita particolarmente rappresentativa del folklore tedesco, che tuttavia gode di uno stato di esistenza semi-confermata, entrando nei fatti nell’Olimpo dei criptidi, ovvero gli esseri, come Piedone o il mostro di Loch Ness, sulla cui esistenza molti sarebbero pronti a giurare. Secondo una delle attribuzioni più accreditate, per inciso, essa potrebbe provenire dalla Francia, essendo testimonianza di uno slittamento semantico dall’espressione maggiormente descrittiva di rouet de rats (la ruota di ratti) verso un più poetico ed accattivante roi de rats. L’origine di questa espressione, nei fatti, non è complessa da mettere in relazione con quanto stiamo guardando quest’oggi: un groviglio di roditori attaccati per la coda non potrà che dipanarsi dalla matassa centrale, mentre ciascuna delle menti coinvolte invia istruzioni contrastanti ai diversi membri del collettivo. Se si vuole cedere alla tentazione della logica naturalistica, in effetti, l’agglomerato di animali non potrà che essere la risultanza di uno sfortunato incidente, destinata a sopravvivere soltanto per un periodo particolarmente limitato. Ma l’uomo medievale, si sa, non era il più razionale interprete dei presagi, ragione per cui il ritrovamento di uno di questi ammassi, generalmente, stimolava l’istintivo terrore per l’imminente palesarsi di una qualche terribile piaga. Il che ogni volta,m puntualmente, si verificava. Pensateci: qual’è l’unica situazione in cui i ratti potrebbero annodarsi tra di loro? Se non quella in cui essi si trovassero già stipati in uno spazio troppo stretto per loro, a malapena sufficiente per raggiungere l’uscita della tana. Ovvero nel caso del sussistere di una situazione di squittente sovrappopolazione, con conseguente strascico di gravi malattie. Nel tempo, quindi, la leggenda del sommo masticatore continuò ad accrescere e perpetuarsi, mentre i pochi ritrovamenti accreditati trovavano collocazione nei musei.

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Le auto del futuro secondo un cinegiornale del ’48

Con la guerra alle spalle e una vittoria conseguita grazie allo straordinario potere della tecnologia, gli Stati Uniti sul finire degli anni ’40 erano pieni di fiducia negli eventi dell’immediato, nonché remoto, futuro: la Nazione avrebbe conosciuto la ricchezza di tutti, l’alfabetizzazione perfetta, una rete stradale e dei trasporti del tutto priva di difetti. Tutti avrebbero potuto esprimersi liberamente, alla ricerca di quel principio sacro e universale d’autodeterminazione, sopra il quale governava il senso universale dei popoli finalmente uniti. Pace, cessazione dei bombardamenti e sempiterna sazietà. Una visione del mondo e delle cose che difficilmente può esimersi da modificare a più livelli lo stile di vita della gente, da una maggiore propensione a spendere, alla consapevolezza più che mai giustificata che lasciare un metodo di lavoro imperfetto era possibile, perché il domani avrebbe riservato un metodo diverso per guadagnare. Ed è proprio questo che pensavano anche loro, gli ingegneri e designer automobilistici di più larga fama. Se si spinge lo sguardo indietro fino agli anni ‘2o e ’30, si ha modo di conoscere uno stile motoristico dotato di una bellezza antica, con automobili dalle linee eleganti, ancora simili a carrozze che fossero state magicamente private dei cavalli. Ma dal dopoguerra fino alla prima metà degli anni ’60, soprattutto in Nord America è un tripudio di forme improbabili con pinne, protuberanze, vere e proprie ali sul portabagagli. Con le normative di sicurezza ancora in stato embrionale, ma le catene di montaggio già perfezionate ad un livello comparabile alla tecnica contemporanea, i diversi grandi marchi parevano sfidarsi a chi sapesse creare in mezzo con l’estetica più strana e innovativa, ovvero maggiormente in grado di risultare accattivante quando fotografato dalle riviste di settore, la vera e propria Internet di allora. Ed è questo lo scenario in cui, nel 1948, l’intramontabile mensile Popular Mechanics fece produrre per il cinema questo breve segmento, intitolato in modo pienamente descrittivo: CARS of the FUTURE! Se visto oggi, una vera e propria finestra sullo stile e il gusto estetico di allora, commentato da una magistrale interpretazione della “voce” dei vecchi tempi, quel commentatore spersonalizzato con dozzine di volti e lingue madri in tutto il mondo, che pareva esprimersi a metà tra l’annunciatore di un circo e l’imbonitore delle folle in occasione di colorite fiere di paese. Ma sopratutto con loro, 3 modelli di veicoli dannatamente affascinanti ed al tempo stesso, chiaramente destinati al fallimento di pubblico, visto come non somiglino per niente alle auto che oggi viaggiano sopra l’asfalto.
È un’attenta selezione di quelle che potrebbero definirsi auto utilitaria (oggi la chiameremmo city car) grossa familiare con carlinga in alluminio e fiammante fuoriserie sportiva, ciascuna rappresentante con la massima puntualità la visione delle cose di un particolare progettista, egualmente determinato a lasciare il segno sulla storia futura dell’automobilismo. E tutte egualmente caratterizzate da un’influenza marcatamente aeronautica, perché tutti amavano volare in quegli anni! Con linee morbide, apparentemente pronte ad accompagnare l’abitacolo fin sopra le nubi delle oltremodo lievi circostanze.
Guardare ed apprezzare simili creazioni motoristiche, giudicandole per ciò che sono senza attribuzioni di contesto, è già di per se un’attività meritevole d’attenzione. Perché permette di conoscere il pensiero e l’approccio risolutivo dei tecnocrati all’epoca dei nostri nonni, che ancora lavoravano a stretto contatto con la carta, il righello e la matita, piuttosto che affidarsi all’aiuto procedurale dell’ormai dilagante mezzo informatico, che evita gli errori ma appiattisce il sentimento. Ma è soltanto approfondendo nei dettagli ciò che abbiamo visto e stiamo vedendo, io credo, che si può giungere a comprendere la vera portata della brusca inversione di marcia sopraggiunta nella storia dell’automobilismo, appena poche decadi dopo quell’arbitrario momento. È un fallimento del tutto imprevisto che riprende, per certi versi, quello dello stesso sogno americano…

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L’ombra di Yasuke, grande samurai africano

In un attimo, scese il silenzio nella sala dei ricevimenti. Il signore della guerra con il crocefisso d’oro al collo alzò il suo sopracciglio destro, appoggiando il recipiente col saké: “Volete dirmi, maestro, che il colore di quest’uomo è naturalmente scuro come l’inchiostro, che non l’avete tinto per prendervi gioco di me? Fate attenzione, potrei spazientirmi…” Alessandro Valignano, Ispettore designato di tutte le missioni gesuite in Giappone, sedeva a gambe incrociate di fronte all’uomo più pericoloso e imprevedibile che avesse mai conosciuto. Vestito in kimono, come il resto della sua delegazione, chinò enfaticamente la testa: “Nobile signore!” L’eloquio si svolgeva in uno strano giapponese, impersonale e quasi gnomico nelle espressioni, tanto quest’ultime erano state attentamente selezionate: “Ve lo confermo. Questo giovane volenteroso è giunto presso la nostra ambasciata con l’ultima nave dei rifornimenti, assieme alle bibbie e agli abiti talari per il nuovo seminario. Secondo il racconto del capitano della nave genovese, si è offerto di seguirlo spontaneamente, fin dalla remota terra del Mozambico.” Con questa affermazione, fece un cenno all’interessato, che secondo le istruzioni ricevute precedentemente, avanzò verso il centro della scena arrancando sulle ginocchia, guardandosi bene dall’alzarsi in piedi. Quindi, s’inchinò portando la fronte fino al pavimento in tatami. “Ebbene si. Il suo nome barbarico sarebbe impronunciabile per Voi, come del resto lo è stato per noi cristiani. E poiché viene dal popolo degli Yao, i vostri connazionali hanno preso l’abitudine di chiamarlo Yasuke. Già, usando il semplice suffisso generico dei nomi maschili.” Naturalmente, come tutti coloro che rientrassero sotto la sua giurisdizione, Valignano aveva fatto battezzare l’africano. Ma non vide alcuna utilità nel dirlo, affinché l’irascibile interlocutore non sospettasse che si trattava di una spia. Neppure per un attimo, del resto, egli pensò che il simbolo portato apertamente dal sovrano implicasse una sincera conversione, quanto piuttosto un altro vezzo del suo modo di essere diverso dalla collettività. “Davvero…Molto…Interessante. Bene: Tsuda Nobusumi, nipote mio: paga generosamente il servo del nostro amico. Più tardi vorrò vederlo. E parlare con lui. Per quanto concerne il resto di questo lieto incontro, ringrazia il nostro amico italiano e salutalo per me. Bere mi ha fatto venire sonno.” Il missionario gesuita, che ovviamente era lì ed aveva sentito tutto, tirò un sospiro di sollievo. Quindi, chinò anche lui la fronte fino al pavimento.
Negli anni tra la vittoria a Nagashino nel 1575, ottenuta grazie al lampo e al tuono dei moschetti, e il il giorno della sua morte, sopraggiunta a seguito di un tradimento nel 1582, nessuno avrebbe osato negare il potere pressoché illimitato di Oda Nobunaga, il conquistatore inarrestabile sorto dalla provincia di Owari. Signore di un clan secondario, che dopo essersi ribellato ai suoi alleati più potenti, gli Imagawa, aveva sconfitto un esercito 10 volte più grande grazie all’attacco a sorpresa di Okehazama, per poi annientare i Saito di di Mino impossessandosi del loro castello (che sarebbe diventata la famosa reggia fortificata di Gifu) e piegare l’alleanza degli Azai e degli Asakura, guidata da niente meno che il consorte di sua sorella, la celebre quanto sfortunata dama Oichi. Quindi, per buona misura, avrebbe bruciato fino alle fondamenta il sacro tempio del monte Hiei, dove i monaci della lega degli Ikko-Ikki si erano ritirati a lanciargli i loro anatemi. Senza alcuna pietà, in uno stato di guerra costante, guidato dal desiderio e l’ambizione incontenibile al comando. Per un intera generazione, la situazione apparve fin troppo chiara: se mai l’ammasso di feudi costantemente in conflitto tra di loro che veniva definito Giappone sarebbe mai riuscito a risorgere come una Nazione unita in senso rinascimentale, il portatore di un simile cambiamento sarebbe stato proprio lui, dopo averlo distrutto come una reincarnazione terrena del signore dei demoni Shutendoji. Se non che, un giorno….
Nobunaga era un personaggio che odiava le tradizioni, e cosa ancor peggiore, non rispettava gli antenati. Proprio per questo, il suo più fidato generale, Hashiba Hideyoshi, non proveniva da una grande famiglia ma era un uomo del popolo, che aveva iniziato lavorando come supervisore alle opere edilizie del clan, per poi diventare portatore di sandali del suo signore. Un ruolo molto ambìto, anche dal punto di vista personale. Da lì, comandare la spedizione di 20.000 uomini del 1576 contro il clan dei Mori del Chūgoku, tra gli ultimi oppositori del nuovo ordine, il passo fu estremamente breve. E pericoloso.

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