Eleganza, prestigio, tradizione. Di un antico rituale che sin da tempo immemore, è stato tramandato da una lunga dinastia. Il che non significa, d’altronde, che l’espressione e la creatività personale non trovino alcun posto, nella messa in pratica da parte degli uccelli candidi che si esibiscono ogni anno ad aprile. E fino al mese di giugno, una coppia alla volta, percorrono agilmente l’increspata superficie dei maggiori laghi americani. Non volando a bassa quota, come sono soliti fare nei momenti in cui hanno l’intenzione di spostarsi da un luogo all’altro; né nuotando o galleggiando in superficie, metodo più che altro utile a trovare qualche meritato attimo di riposo. Bensì correndo in modo verticale sulle zampe, che potremmo definire posteriori se non fossero le uniche a disposizione, dell’uccello che proprio da tale propensione sembrerebbe prendere il nome. Svasso, “lo sguazzatore” nell’arcaico dialetto romagnolo, mentre il nome anglosassone grebe parrebbe provenire dal termine bretone che vuole dire “pettine” in riferimento all’alta cresta erettile di colore scuro sulla sua testa. Termine quest’ultimo, che ritroviamo assai più spesso riferito alla particolare specie qui mostrata dell’Aechmophorus occidentalis, diffuso in colonie di centinaia d’esemplari nell’intera parte ovest degli Stati Uniti. Dove il suo particolare stile usato nel periodo dei corteggiamenti, differente dalle comunque notevoli sceneggiate dei cugini europei, lo vede eseguire un’acrobazia inerentemente appropriata alla figura veneranda del divino Salvatore: camminare sull’acqua, un miracolo piuttosto semplice. Quando si dispone della forma fisica ed il peso ridotto di creature come queste, lunghe 55-75 cm e con un peso massimo di appena 2 chilogrammi. Senza nessun particolare dimorfismo tra il maschio e la femmina, sebbene esista una specie cognata che può trarre l’ornitologo in inganno, data l’inerente somiglianza in ogni aspetto tranne le dimensioni leggermente inferiori e la scurezza del piumaggio in corrispondenza delle ali. Mentre uguale resta, per tale A. clarkii, l’abitudine a praticare il podismo super-acquatico, nel momento fatidico della sua storia riproduttiva annuale. In quella che viene definita dagli etologi una vera e propria cerimonia, per la ripetizione di una serie di gesti e movimenti chiaramente sempre identici, facenti parte delle cognizioni ereditarie possedute in potenza fin dal momento in cui l’uccello fuoriesce dall’uovo.
Si comincia, in genere, con un richiamo ripetuto e squillante, finalizzato a segnalare ai propri simili che la sfida è prossima a cominciare. Una volta che i maschi si ritrovano assieme, e le femmine riunite in cerchio a guardare, le coppie di pretendenti si mettono fianco a fianco ed uno di loro solleva prima il lungo collo da cigno, quindi il corpo intero. Iniziando a muovere con precisione consumata i suoi piedi palmati, mentre accelera rapidamente verso l’orizzonte e di nuovo in senso contrario. La controparte, ben presto, inizia a seguirlo sincronizzando i propri movimenti fino al benché minimo dettaglio, mentre i due fanno a gara per vedere chi riesce ad andare più lontano, o alternativamente riesce a proseguire più a lungo la stancante attività fisica. Una volta che le potenziali partner hanno fatto la propria scelta, si esegue a questo punto una corsa finale i cui due membri sono i novelli innamorati, pronti a passare alla seconda parte della loro ben precisa cerimonia nuziale. Chiamata per l’appunto “rito delle alghe” in quanto consiste nel tuffarsi ripetutamente sott’acqua, per offrire vicendevolmente al partner piccoli ciuffi di materiale erboso, che viene successivamente rigettato da una parte con un elegante movimento del lungo becco appuntito. Un passaggio potenzialmente finalizzato a dimostrare in potenza l’abilità dei membri della coppia nell’imminente costruzione del nido tra le canne e la vegetazione lacustre ripariana. Verso l’ottenimento di uno stato di grazia e soddisfazione familiare, che culmina generalmente con la deposizione di 3-5 uova bluastre, destinate ad essere covate a turno da entrambi i genitori. Mentre l’altro, dimostrando il suo altruismo, si occupa di procacciare il cibo per entrambi nutrendo il coniuge come se fosse parte della sua stessa prole…
laghi
A chi appartiene il volto nell’uovo di pietra del misterioso lago Winnipesaukee?
Nel 1872 la cittadina di Meredith nello stato del New Hampshire, come del resto l’intera regione del New England, aveva già una certa familiarità con il concetto di misteriosi volti scolpiti nella pietra. Risale ad oltre 70 anni anteriormente a quella data, per l’appunto, la prima menzione del Vecchio della Montagna, forse scultura creata dagli umani oppure un semplice caso di pareidolia, frutto di un’erosione particolarmente suggestiva ad opera del vento e delle intemperie, per cui un profilo chiaramente riconducibile a quello di un enorme individuo barbuto faceva capolino dalla cima del promontorio granitico di Cannon Mountain, tra i picchi delle Montagne Bianche. Eppure il facoltoso uomo d’affari Seneca A. Ladd, che aveva fondato la sua banca esattamente tre anni prima, dopo aver fatto la sua fortuna commerciando in carri e strumenti musicali, non stava probabilmente pensando a tale luogo quando venne chiamato improvvisamente dal gruppo di lavoratori locali impegnati nell’infiggere il palo di una recinzione nei dintorni del più grande lago del suo stato, dal nome ereditato di Winnipesaukee: “Signore, venga a vedere. Abbiamo trovato una strana pietra!” In base ad altre versioni della storia, invece, egli stava passando casualmente di lì, quando vide la concrezione d’argilla, probabilmente contenente un fossile o reperto archeologico di qualche tipo, gettata con disattenzione presso il cumulo di terra derivante dalle opere infrastrutturali in corso. Nulla, ad ogni modo, avrebbe potuto prepararlo a quanto stava per fare la sua comparsa sul suo tavolo da lavoro, usato nella pratica amatoriale di hobbista archeologo, che l’aveva portato negli anni a collezionare un grande numero di artefatti creati dalle antiche popolazioni dei Nativi Americani. Quando si trovò improvvisamente a fissare, direttamente negli occhi, una stranissima figura: faccia dai lineamenti stilizzati, nell’ovale inciso al centro di una pietra levigata con la forma e le dimensioni di un uovo di gallina (100×64 mm in totale). E immaginate la sua sorpresa quando, voltandola attentamene tra le mani, scorse ai lati e dietro di essa una serie di simboli misteriosi: una pannocchia, la luna, una spirale, un teepee indiano, alcune frecce disposte a formare una sorta di lettera “M” ed altri disegni geometrici apparentemente privi di un palese significato. Ritrovamento fuori dal contesto destinato forse a scomparire tra le pagine della storia, se non fosse per la peculiare abitudine, da parte di quest’uomo, ad esporre nell’anticamera della sua banca i pezzi migliori della collezione, avendo trasformato tale ambiente, sostanzialmente, in un piccolo museo. Diventata ben presto una delle attrazioni preferite dagli abitanti del territorio rurale attorno a Meredith, l’uovo di pietra venne quindi notato nell’estate di quello stesso anno dal celebre scienziato ed inventore Daniel J. Tapley di Danvers, Massachusetts, che dopo aver parlato con entusiasmo del reperto in una lezione presso l’Istituto Essex di Storia Naturale, scrisse entro pochi mesi un articolo pubblicato sulla rivista The American Naturalist in cui ne descriveva a fondo l’aspetto chiamandolo “Una misteriosa reliquia degli Indiani”. In breve tempo, in tutto il paese e persino in Europa le varie interpretazioni del mondo accademico iniziarono a sovrapporsi. In quegli anni le popolazioni native americane, ormai ammansite al cosiddetto “destino manifesto” degli uomini venuti da Oltremare erano state riconsiderate dall’opinione pubblica e della scienza, assumendo le fondamentali caratteristiche di genti mistiche in profonda comunione con la natura, in qualche modo depositarie di una conoscenza che tutti gli altri sembravano da tempo aver dimenticato. L’uovo di Ladd, tuttavia, come un vero oggetto fuori dal contesto, non accennava a schiudersi mostrando i suoi segreti, data l’assoluta assenza di alcuna riconducibilità a tradizioni note di tribù locali, assomigliando per certi versi a iconografia e figure mitologiche di una matrice culturale totalmente distinta. Entro una paio di decadi, inevitabilmente, giunsero le prime ipotesi extra-terrestri, mentre i più scettici iniziarono a dire apertamente che potesse trattarsi di uno scherzo creato intenzionalmente da un banchiere eccessivamente annoiato…
Progettista berlinese tenta di produrre il più portatile kayak di sempre
C’è del significativo potere, in una simile parola. In un contesto dove le proporzioni della logica determinano lo schema della convenienza, accompagnato da praticità e semplificazione, diventa il culmine del senso tecnologico e la necessità percepita di fare quello che si vuole, quando si vuole, in assenza di residui compromessi: portabilità. Dei computer, tablet, videocamere, sistemi audio e d’intrattenimento, videogiochi. Mentre il mondo fisico dei trasporti, gradualmente, si adegua? Biciclette pieghevoli. Hoverboard da mettere in borsa. Persino zaini a razzo alimentati col nitrogeno, utili a fluttuare sopra i sogni delle circostanze ultra-gravitazionali. Mentre molto stranamente, non erano molti a essere pronti, prima dell’ultima decade, a concepire un metodo quasi-tascabile per navigare sopra l’onde delle umide località peri-urbane. Grazie all’antica tecnica dei piegatori della carta giapponese, l’arte nota al mondo con il termine composito 折り紙 (origami). Avete presente, per dire, la Venezia tedesca? Una definizione che talvolta sfugge agli altri abitanti d’Europa, benché sia nei fatti riferita a niente meno che Berlino, ove al convergere del fiume Sprea con vari splendidi canali, tra cui quello di Charlottenburg, Berlin-Spandau e Westhafen, viene a crearsi quella pittoresca convergenza che da in molti l’istantaneo desiderio d’esplorare. Il che non sarebbe stato un grandissimo problema per Daniel Schult, l’ultimo giovane di queste parti a tuffarsi nella grande avventura di un progetto imprenditoriale finanziato coi soldi “di Internet”, non fosse stato per la sua casuale preferenza verso gli spostamenti veicolari grazie all’energia dei muscoli, ovvero in altri termini, la rinuncia alle diaboliche tentazioni dell’automobile, per assumere il virtuoso ruolo del ciclista. Agile, silenzioso, rapido verso i suoi scopi nella vita… Tranne quello, s’intende, d’imbarcarsi nel secondo umido elemento, data l’inerente problematica di come, precisamente, trasportare un qualsivoglia tipo d’imbarcazione fino agli alti argini di quel bisogno personale. Perché neppure gli inuit, inventori dell’imbarcazione personale più maneggevole nell’intero scenario delle popolazioni amerindie, erano soliti trasportare i propri mezzi per lunghi tragitti di terra, come potremmo definire quelli dell’odierno ambiente urbano ricoperto da impietoso asfalto. Ecco qui l’idea, come diretta conseguenza, di rivolgersi a quel segmento di mercato nato all’inizio del 2013 come alternativa ai comunque ponderosi kayak gonfiabili, per la barca in polipropilene pieghevole capace di trasformarsi, al termine dell’utilizzo, in una compatta borsa sollevabile con un singola mano. Ma le mani, come sappiamo molto bene, non sono libere mentre si guida una normale bicicletta. Ecco dunque spiegato, in poche parole, il suo ulteriore margine di miglioramento…
La flotta trasparente che sorveglia la muraglia glaciale d’Islanda
Viaggiare lungo il grande anello stradale che circonda la nazione isolana più a settentrione d’Europa potrà richiedere un grande numero di ore, ma difficilmente può essere definito “noioso”. Soprattutto quando ci si appresta ad affrontare il tratto che fiancheggia, una dopo l’altra, meraviglie naturali come le cascate di Skógafoss, il vulcano Eyjafjallajökull ed il ghiacciaio Mýrdalsjökull. Ma è mentre si procede verso Est, nell’ideale progressione di quest’avventura al volante, che la prima vista effettivamente ardua da identificare inizia a palesarsi oltre le digradanti coste di quell’universo paesaggistico senza un eguale: per l’apparente fila di quattordici, quindici autocarri dalla cima frastagliata, che in rapida sequenza sembrano riemergere da un mondo sotterraneo, fiancheggiando stolidi il sottile nastro asfaltato che costituisce l’interfaccia tra il mondo sensibile e lo stato delle cose. Finché al variare della prospettiva, tali orpelli si presentano per ciò che veramente erano sempre stati: sculture di ghiaccio, alte, oblique, trasversali. Aspetti indipendenti di un tetto bianco che sovrasta, e in senso concettuale riesce a incombere, sopra ogni spazio abitabile di quel paese sospeso tra l’Atlantico e la terra leggendaria del Grande Inverno. Così che se una popolazione indigena, come gli Inuit canadesi o i Chukchi della Siberia, avesse vissuto in questo luogo prima della colonizzazione da parte dei Norreni avvenuta nel corso del Medioevo, tale luogo avrebbe avuto il nome e ruolo religioso di “divino” Vatnajökull, coi suoi 7.900 Km di materia compattata grazie alla pressione gravitazionale, per un volume complessivo di 3.000 Km quadrati, entrambi dati capaci di collocarlo in cima alla classifica dei più vasti ghiacciai europei. Ma chi dovesse credere, a un simile proposito, che tale monade suprema sia risultata immutabile attraverso i secoli, come le grandi montagne o laghi delle terre più distanti dal grande Cerchio, avrà di certo una sorpresa considerevole, comparandone l’aspetto attuale con quello registrato sulle mappe di appena una generazione o due a questa parte. Poiché il ghiaccio cambia e assieme ad esso la forma geometrica d’Islanda, come ben sappiamo dalle registrazioni risalenti alla piccola era glaciale (PEG) generalmente collocata tra il XIV e XIX secolo, ma realmente portata ad esaurirsi verso l’inizio degli anni ’30 del Novecento. Data in cui il grande ghiacciaio, dopo essersi propagato per circa 50 Km oltre le coste dell’isola, ha iniziato gradualmente a ritirarsi. Lasciando indietro gli iceberg che continuano, uno di seguito all’altro, a percorrere il nastro trasportatore posto in essere dalla natura in attesa.
Jökulsárlón è il suo nome, che significa letteralmente “fiume della laguna glaciale” benché non si tratti allo stato attuale di nessuna delle due cose, bensì un esempio particolarmente imponente di quello che prende il nome di lago proglaciale, essenzialmente intrappolato dalla duplice morena (slavina di detriti) causata per l’effetto del progressivo disgregarsi della montagna bianca. Una visione totalmente priva di alcun termine di paragone…