Il fantasma rievocato dai cannoni della caravella che vegliava sull’Unione di Kalmar

Nell’ideale gerarchia dei responsabili delle migliori scoperte archeologiche dello scorso secolo, al primo posto vengono sempre messi i cercatori. Che con mappe topografiche, lenti d’ingrandimento e metal detector si recano sul campo incontrando le vetuste vestigia d’Imperi dimenticati dal mondo. Ma che dire invece, degli sportivi dediti all’impegnativa pratica delle immersioni marine? Come quelli del club norvegese di Stora Ekö, presso l’arcipelago di Blekinge Skärgård, che attorno al 1970 s’imbatterono casualmente in qualcosa che poteva soltanto essere il relitto, relativamente completo, di un antico castello dei mari. Il tipo di nave impiegata dai potenti delle epoche trascorse per portare a termine le proprie mansioni maggiormente caratterizzanti. Completo in ogni sua parte, sebbene alla rinfusa come i pezzi di un puzzle appena tirato fuori dalla confezione. Compresi alcuni elementi invisibili, che aspettavano soltanto di essere disegnati con l’efficace aiuto della cosiddetta intelligenza artificiale…
Governare dall’alto scranno di una monarchia: molti furono gli sforzi compiuti, nei trascorsi dei popoli e le odierne società europee, affinché i detentori di un simile ruolo ereditario fossero dotati di un particolare contegno, la saggezza superiore ricevuta assieme al sugello del sacro mandato. Obiettivo non facile da perseguire in senso materiale, dando largo spazio alla conseguenze ricerca di fattori pratici da esternalizzare a beneficio delle moltitudini (presumibilmente) adoranti: le insegne fiammeggianti, l’alto cimiero, il cavallo fantastico, l’enorme castello. Ed un maestoso vascello, degno di trasportare un’intera corte verso le opportune destinazioni. Nel tardo Medioevo sussistette d’altra parte una specifica potenza, militare, commerciale e politica, le cui caratteristiche geografiche e territoriali richiedevano al sovrano di trascorrere una larga percentuale del tempo tra i flutti dei freddi mari settentrionali. Si trattava della discontinua Unione di Kalmar, l’entità politica e familiare concepita tramite un accurato programma di matrimoni combinati a partire dal 1397, grazie al pensiero strategico di Margherita I di Danimarca. E mantenuta ancora solida un secolo dopo, anche grazie agli sforzi del suo più recente successore (non direttamente imparentato) Giovanni di Danimarca. I cui frequenti viaggi tra il paese d’origine, la Svezia e la Norvegia, nonché i territori d’oltremare delle Faroe, l’Islanda e la Groenlandia, avrebbero contribuito a creare l’immagine di un princeps navigatore, ancor più dei sovrani spagnoli e portoghesi che inviavano, con il beneplacito papale, i propri esploratori alla ricerca del Nuovo Mondo. Non c’è molto da stupirsi dunque se costui potesse disporre, nel suo ricco catalogo di averi, di un’imbarcazione all’avanguardia secondo qualsiasi punto di riferimento coévo, acquisita mediante l’abile combinazione di diplomazia, competenze tecniche dei servitori e potere economico. L’imponente Gribshunden o Cane-Grifone, con i suoi 32 metri di lunghezza tali da porla ai massimi livelli di quel tempo remoto. Costruita in base ai crismi progettuali delle cosiddette caravelle, due delle quali lo stesso Cristoforo Colombo avrebbe condotto, assieme alla nau Santa Maria oltre l’Oceano Atlantico e alla scoperta di quelle terre che avrebbero fatto la fortuna della sua insigne mandante. E se quella particolare classe d’imbarcazioni, storicamente basate sui pescherecci sudafricani capaci di doppiare il Capo di Buona Speranza, evitando in tal modo di pagare il pedaggio dell’Impero Ottomano verso i Mari d’Oriente, si era dimostrata tanto efficace nell’oltrepassare il vasto vuoto tra i continenti, cosa mai avrebbe potuto fermarne una con il comparativamente semplice compito di battere i quattro angoli del Baltico ed i paesi ad esso confinanti? Una domanda destinata a rimanere senza risposta soltanto fino al 1495, tre anni dopo la grande “scoperta” quando il vascello del re di Danimarca si trovava temporaneamente ormeggiato presso una baia sulla costa di Ronneby nel sud della Svezia. E ad un tratto, senza il benché minimo preavviso né ragione apparente, esplose, andando giù, fino al sabbioso fondale della baia a settentrione di Stora Ekö…

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L’alta insegna di cemento che protegge l’astronave cattolica del Minnesota

Forti mura grigie costruite sulla base del criterio di resistenza. Dove domina la forma di montanti parabolici ed interconnessi, traforati per permettere alla luce di passare attraverso. Questo è il “bunker” con la forma di possente parallelepipedo, la cui facciata principale orientata a nord avrebbe ricevuto poca luce negli orari più prossimi all’alba e al tramonto. Se non fosse stato grazie all’edificazione della propria controparte, un insolito edificio piatto e largo la cui costruzione si avvicina largamente a quella di un pannello che voleva accogliere messaggi pubblicitari o slogan politici di qualche tipo. Se non fosse per la sua natura totalmente scarna concepito per riflettere i raggi solari all’interno, dominata unicamente dalla sagoma di quattro campane. Ed al di sopra di queste, una croce tridimensionale che passa attraverso.
Siamo largamente abituati allo stereotipo statunitense, che individua cattedrali nel deserto nella guisa d’imponenti meraviglie, costruite per ragioni differenti lungo il ciglio delle lunghe arterie cementizie, strade interstatali che conducono attraverso il vasto nulla. Per essere il singolo paese maggiormente popoloso d’Occidente, in effetti questa confederazione che occupa in larghezza buona parte di un’intero continente ha larghi spazi dove la natura riesce a farla da padrona ed altre zone intermedie, per lo più rurali eppure oggetto di maestosi ed imponenti progetti edilizi. Fabbriche, centrali elettriche, centri commerciali, opere d’arte. Oppure luoghi dal significato spirituale eminente, come punti di convergenza d’intere comunità religiose destinate a crescere nel tempo. Una di questi fu senz’altro, già pochi anni dopo la sua nascita, il convento benedettino di San Giovanni, fondato a sud di St. Cloud con l’arrivo di cinque rappresentanti della congregazione americana-cassinese dalla Pennsylvania, nella cosiddetta Beautiful Valley, durante l’anno del Signore 1856. Il che avrebbe portato nel giro di un paio di decadi, mediante l’investimento di facoltosi devoti, alla costruzione del cosiddetto quadrangolo, dominato da una svettante chiesa con due campanili gemelli. In un luogo destinato a ricevere nel tempo l’appellativo di Collegeville, per la prestigiosa università cattolica che avrebbe aggiunto nel 1883 i propri edifici al decentrato complesso sul ciglio dell’Interstatale 94. Il che avrebbe visto aumentare drasticamente verso l’inizio del secolo il numero dei membri della congregazione presenti in un dato momento, motivando il progressivo acquisto di ulteriori terreni e l’edificazione di strutture architettoniche addizionali. Verso una direzione destinata a raggiungere il punto di ebollizione all’inizio degli anni ’50 del Novecento, nel momento in cui diventò letteralmente impossibile pronunciare una messa a cui fossero presenti tutte le letterali centinaia di membri attivi dell’istituto allo stesso tempo. Allorché l’intraprendente abate Baldwin Dworschak, dovendo scegliere una strada per arginare il problema, decise di percorrere una strada che praticamente nessun altro avrebbe scelto al suo posto: indire un concorso, chiamando a parteciparvi architetti di larga fama internazionale, affinché una commissione dei suoi confratelli potesse trovarsi a valutare le diverse opzioni a disposizione. Il risultato sarebbe stato qualcosa che nessuna istituzione religiosa di tale entità, fino a quel momento, aveva potuto desiderare di possedere prima di quel particolare momento…

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Scimmia, persona? La diatriba decennale che coinvolge il teschio del più antico antenato umano

Per tutta la sua popolarità mediatica, le occasionali citazioni nelle opere d’ingegno ed intrattenimento fin dalla scoperta sopraggiunta nel 1974 in Etiopia, lo scheletro d’ominide denominato “Lucy” fu per lungo tempo mantenuto ai vertici assoluti del complesso campo della paleoantropologia. Questo non soltanto per il fatto di essere il più antico mai trovato fino a quel momento, con i suoi 3,2 milioni di anni di età, ma soprattutto in funzione dell’elevato grado di chiarezza e trasparenza relativo alla sua scoperta in Etiopia, la difficoltà nel confutare le tesi dei ricercatori responsabili della spedizione, la notevole e altrettanto rara completezza dell’intero esemplare. Laddove questo campo dalle significative implicazioni filosofiche, ideologiche e per molti versi creative, fu nel tempo supportato da una pletora di tesi discordanti, più o meno improbabili, su chi o quale nazione potessero orgogliosamente attribuirsi il merito dell’origine di tutto ciò che siamo, in qualità di esseri che hanno ereditato la Terra. Stendardo destinato ad essere spostato, dopo lunghe e alterne tribolazioni, soltanto nel 2002 nel paese africano del Chad, parzialmente ricoperto dalle sabbie del deserto sahariano. Sarebbe stato dunque nella confinante zona centrale del Sahel, quasi altrettanto arida, che una squadra composta da paleontologi chadiani ed un singolo francese in trasferta, Alain Beauvilain, si sarebbe imbattuta in parti di un teschio parzialmente sgretolato, ricoperto d’incrostazioni geologiche ma con proporzioni craniche e caratteristiche paragonabili a quelle di Lucy. Un vero proto-umano ma stavolta risalente all’epoca del tardo Miocene ovvero 7-6 milioni di anni fa. Quando ancora gli oreodonti camminavano nelle antiche foreste equatoriali e le tigri dai denti a sciabola costituivano il più temibile dei predatori fin dai tempi del Tyrannosaurus Rex.
Inviati questi “pezzi” presso il dipartimento di paleontologia dell’Università di Poitiers, sotto la supervisione del rinomato studioso Michel Brunet, quest’ultimo sarebbe giunto alla realistica conclusione di trovarsi di fronte ad un essere bipede, la cui massa cerebrale chiaramente limitata (come quella degli altri “anelli mancanti” a noi noti, d’altronde) non bastava a relegarlo a mero predecessore degli odierni primati, bensì ciò che potremmo paragonare, nel campo dell’egittologia alla scoperta della tomba intonsa di Nebkheperura Tutankhamon: le diverse parti di un teschio, ragionevolmente completo, di un singolo remoto predecessore dell’ingegneria, il pensiero filosofico, la critica del mondo e l’Universo. Denominato ufficialmente con il nome chadiano di Toumai (“Speranza di Vita”) e quello scientifico di Sahelanthropus (“Uomo del Sahel”) durante un evento alla presenza del capo di stato nazionale, l’oggetto preistorico riuscì presto ad affiorare dalla profonda voragine dell’indifferenza collettiva ad ogni cosa priva di applicazioni quotidiane. Fama internazionale e imperitura, oltre a cospicui finanziamenti per l’insigne promotore, a questo punto, sembravano assolutamente a portata di mano…

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Tubo rosa: la strana meraviglia architettonica ove correvano le navi berlinesi

Un punto chiave nella comprensione del post-modernismo è che tale corrente non deriva dalla forzatura di alcun tipo di maniera implicita di dar forma alle cose. Piuttosto che il sovvertimento di un modello, il suo superamento, ovvero l’adozione di un sistema per dare risposta alle necessità di un mondo sottoposto a velocissimi cambiamenti. Così nel 1900, il kaiser Guglielmo II di Germania e Prussia si trovò di fronte ad un progetto per la costruzione di un Istituto di ricerca per l’ingegneria idraulica e la costruzione navale, da posizionare in corrispondenza della piazza dei cavalli imperiali. Ma negando il suo permesso, famosamente, disse: “No. Il mio maneggio rimane.” Tre anni dopo, molto più appropriatamente, esso trovò posto comunque, lungo il canale Landwehr sulla Müller-Breslau-Straße. Qui, tra una serie di laboratori di mattoni con piscine artificiali interne, gli addetti alla progettazione cominciarono a impiegare il metodo sperimentale prima di approvare la possibile funzionale delle diverse imbarcazioni imperiali. Sessantaquattro anni dopo, con l’ampliamento del canale, il sito si trovò sopraelevato entro gli angusti confini di un’isola artificiale. Tanto che fu deciso, in tale occasione, di coinvolgere l’ingegnere Christian de Boes, che previde a tal proposito l’installazione di un cosiddetto tubo di circolazione, imponente elemento grazie al quale fosse possibile simulare lo scorrimento di grandi masse d’acqua e la conseguente generazione di un moto ondoso. L’estetica esterna, per ovvie ragioni, non era al centro delle sue preoccupazioni e fu per questo che, ancora una volta, le autorità al comando mancarono di nuovo di approvarlo, decidendo piuttosto d’indire il concorso del 1968 per il coinvolgimento di architetti di fama. O quanto meno, in grado di tirare fuori soluzioni che potessero definirsi visualmente appaganti. A questa seconda categoria apparteneva dunque Ludwig Leo, attivo nel settore fin dal termine della seconda guerra mondiale ma che, forse in funzione delle sue idee d’avanguardia, aveva avuto fino a quel momento l’occasione di portare termine una quantità limitata d’edifici. Tutti grosso modo rispondenti ad un approccio assai raro per l’epoca, di anteporre la funzione al rispetto dei modelli, creando al tempo stesso dei nuovi metodi coerenti per erigere e determinare gli spazi abitativi o dotati d’altre funzioni. Mai tanto insolite, né così determinanti; le ragioni per cui, probabilmente, l’Umlauftank 2 (“Serbatoio di Scorrimento”) viene ad oggi considerato il suo capolavoro assieme alla vicina Scuola di salvataggio in mare (DLRG) con il suo iconico ascensore inclinato per immagazzinare le scialuppe in inverno. Laddove campeggiava in questo caso una svettante scatola blu cielo, per lo meno al momento della sua inaugurazione, circondata da un contorto serpente del colore di un bouquet a San Valentino, degno d’ispirare intere generazioni di pittori surrealisti metropolitani…

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