Un uomo muore di attacco cardiaco a 55 anni, nel 1966. Patologia ereditat da suo padre, oppure…? Un altro di leucemia mieloide acuta sul finire del 1965. Mentre il terzo, incorre in complicazioni fatali dell’aplasia midollare al volgere del 1973. Fu piuttosto fortunato: aveva 83 anni. Eventi all’apparenza del tutto scollegati tra di loro, se non per il fatto che costoro, in un preciso momento dell’anno successivo al termine della seconda guerra mondiale, si trovavano tutti nella stessa stanza. Assistendo all’evento estremamente rapido che avrebbe portato all’avvelenamento letale da radiazioni del loro stimato collega canadese Louis Alexander Slotin, abbastanza sicuro di se, o folle, da “infastidire ripetutamente la coda del dragone” con lo strumento inadatto di un cacciavite. Nonostante una simile bestia avesse, nei fatti, già fagocitato la vita del suo esimio predecessore.
Terribilmente delicata risulta essere la chiara cognizione secondo cui l’essere umano, come creatura pensante che abita questo pianeta, sia fondamentalmente una presenza ragionevole, o prudente. Poiché una tale posizione filosofica avrebbe la necessità di radicarsi nell’acquisita, o in qualche modo giustificabile certezza, che ogni particolare errore, qualora sufficientemente grave, non venga commesso più di una singola volta. E che ogni morte evitabile venga, a seguito del suo verificarsi, inserita nel catalogo di quelle che saranno a partire da quel momento evitate. Risulterebbe allora assai difficile, per chiunque abbia un’opinione critica della storia, giustificare una duplice tragedia come quelle di Hiroshima e Nagasaki. Subìte da un paese nemico in guerra già fiaccato ed incapace di combattere benché, nell’opinione presunta dallo stato maggiore americano, avesse l’intenzione di sacrificare fino all’ultimo uomo in uniforme. Molto meglio provvedere, quindi, all’annientamento eclatante di una parte considerazione della sua popolazione civile residua, no? Del resto, fu successivamente ricercata come giustificazione, nessuno conosceva “l’orrida potenza” di un “terribile ordigno” capace di scatenare l’energia incalcolabile della fissione atomica, alla compressione del suo nucleo di plutonio ricavato da pericolosi impianti di raffinazione del minerale. E per quanto riguarda la seconda volta, beh, probabilmente non c’era stato abbastanza tempo per rendersene conto…
Vi sembra un’affermazione credibile? Forse non a tutti i possibili livelli. Ma almeno ad uno, di certo: quello degli scienziati direttamente coinvolti nel progetto Manhattan. Coloro che per vie molto diverse tra loro, a seguito della fatidica lettera di Albert Einstein e il fisico di origini ungheresi Leo Szilard al presidente Franklin D. Roosevelt (1939: “Investi nella ricerca atomica, o la guerra sarà perduta”) si ritrovarono a lavorare nell’impianto top secret di Los Alamos, guardati a vista da sorveglianti armati, per tentare di comprendere il segreto che avrebbe condotto alla realizzazione dell’arma più potente dell’intero Sistema Solare, per lo meno a quanto ci è dato di sapere fino al momento corrente. Si trattava di un gruppo eterogeneo, composto in egual misura da stimate figure del mondo accademico, statunitensi per nascita o naturalizzate tali, professori universitari ed ogni sorta di esperto di quel campo vertiginosamente innovativo che era lo studio dell’energia nucleare. Ma molti di loro erano giovani, il che tendeva a renderli spregiudicati e proprio per questo, inconsciamente convinti della propria sostanziale immortalità. Figure come l’armeno-americano Harry Daghlian, che dopo essere cresciuto a in un piccolo paese del Connecticut con la sorella ed il fratello, si dimostrò sufficientemente geniale da accedere alla prestigiosa istituzione del MIT a soli 17 anni, per laurearsi in scienze e iniziare a lavorare sui ciclotroni nel 1942. E da lì all’installazione nel deserto del Nuovo Messico, come accennato nel nostro racconto, il passo fu breve. Portandoci al drammatico antefatto della nostra vicenda principale: il brillante scienziato, dell’età di appena 24 anni, che successivamente al concludersi dell’orario di lavoro maneggia una serie di sfolgoranti mattoncini di metallo alla tenue luce del laboratorio e sotto lo sguardo attento della guardia che gli era stata assegnata. In mezzo ai quali, in maniera alquanto sorprendente, figura una sfera. Si tratta del terribile oggetto che fin troppo presto, sarebbe passato alla storia con il nome inquietante di Demon Core (il Nucleo, o Nocciolo Demoniaco).
personaggi
Dai futuristici anni ’80, l’anello mancante tra la macchina e la moto
Tolta la curva parabolica, l’entusiasmante rettilineo. Senza più l’elettrizzante discesa o il preoccupante dosso, l’intollerante cordolo, l’appiccicosa trappola di sabbia. Cosa resta di una guida che potremmo definire, a pieno titolo, capace di fornire un’esperienza memorabile? Poiché tutti sappiamo, nel nostro profondo, che dotarsi di una rossa sportiva o l’enorme e potente SUV, piuttosto che l’agile ultraleggera mono e bi-posto, è un gesto futile per chi non suddivide i propri giorni tra la pista e il ruvido asfalto cittadino, poiché il traffico ed il codice (per ovvie e semplici ragioni) riducono drasticamente le opportunità d’esprimersi al volante. Rendendo l’una e l’altra cosa, in maniera indipendente dall’energia cinetica serbata nel motore, sostanzialmente del tutto identiche tra loro. Ecco dunque la ragione, per qualcuno, di cercare un modo per cambiare ciò che ci si aspetta dal veicolo, in quanto tale: quantità e posizione delle ruote, forma e tipo del volante, disposizione di autista e passeggero. E soprattutto, il comportamento del veicolo in curva. Difficile capire, a questo punto, se l’avveniristica natura della Litestar/Pulse di Jim Bede, all’epoca della sua prima costruzione nel 1982, fosse dovuta a un’effettiva ricerca di migliorare quanto precedentemente dato per scontato. Oppure, una mera coincidenza accidentale dei fattori ingegneristici in gioco. Ciò possiamo confermare, per lo meno: colui che ebbe ragione di crearla rappresentava e aveva rappresentato ancora (all’epoca del suo decesso nel 2015, all’età di 82 anni) un vero e proprio genio dell’ingegneria applicata ai desideri della gente, dando al pubblico americano quello che avevano ragione di desiderare più di qualsiasi altra cosa: tecnologia innovativa, a un costo relativamente accessibile a chiunque. Di questo grande progettista americano abbiamo già parlato, qualche tempo fa, restando nell’ambito del suo lascito più celebre, quello dei veri micro-aerei in scatola di montaggio con i più svariati allestimenti motoristici, che più di una vita finirono per costare agli sconsiderati acquirenti, fin troppo approssimativi nel seguire le fondamentali istruzioni. Non tutti sanno, tuttavia, di come verso la fine degli anni ’70, dopo il collasso economico della sua azienda Bede Aircraft nell’ennesimo capitolo dei suoi molti guai con i finanziamenti e la consegna per tempo di quanto evidentemente pre-ordinato, l’eclettico Jim ebbe modo e tempo di dedicarsi a un qualcosa di completamente diverso. Costituendo quella la realtà sarebbe stata iscritta ai registri aziendali come Jim Design, dichiaratamente dedita a rivoluzionare il concetto di automobile e tutto ciò che questa tendeva a comportare. Ulteriore sogno da cui vennero due cose perfettamente distinte: la prima fu la Bede Car, iper-futuribile macinino dall’economia notevole dei consumi, ma basato sulla tecnologia piuttosto fuori luogo di una grossa elica intubata e per questo quasi del tutto incapace di effettuare una partenza in salita. La seconda era l’assai più utilizzabile, nonché intrigante Litestar.
Immaginate a questo punto una giornata di sole primaverile, che batte insistentemente sopra quella fabbrica di Owosso, Michigan, dove fino al 1990 fu prodotta la maggior parte dei 325 veicoli venduti al tempo (fatta eccezione per la singola serie proveniente dallo Iowa) di cui una parte significativa, in quel fantastico momento, sembrava trovarsi solennemente riunita in un singolo e tanto importante luogo. Ciascuno di un colore diverso, una livrea fantasiosa, oppure decorato come fosse quel jet da combattimento a cui, a suo modo, sembrava desiderasse assomigliare; è tutto ciò nient’altro che l’annuale raduno dei proprietari del primo cosiddetto “autociclo” un qualcosa di motoristico che non avrebbe mai, realmente, conosciuto eguali….
Scheletri di bambù: la Grande Onda nel bosco di Chikuunsai
Diecimila anni dopo l’abbandono del Met di New York, ogni traccia di vita scomparsa dalle ombrose sale, una minuscola radice inizia ad insinuarsi sotto lo stipite della finestra principale, quindi cresce a dismisura tra gli altri muri ricoperti di muffa e crepe. Un poco alla volta, così facendo, la natura preme e insiste, penetra e riconquista, mentre ritorcendo questo strale su se stesso, come un bruco, esso traccia una figura che definisce e riqualifica lo spazio, donandogli, ancora una volta, la vita. Ma la storia non finisce (e inizia) certo in questo modo: poiché come per la luce di un potente flash fotografico o abbagliante lampo generazionale, ogni traccia di verde sembra scomparire all’improvviso, lasciando il posto alla struttura simile a un intreccio di rami secchi. I quali, se soltanto qui ci fosse ancora una persona in grado di osservarli, verrebbero descritti sulla base della loro più realistica natura: nient’altro che strisce di bambù, attentamente tagliate e ripiegate con l’impiego del calore di una singola candela, dalle sapienti mani dell’artista che non sembra possedere un tempo, un luogo ed un contesto definiti.
Tanabe Chikuunsai, quarto del suo nome, al secolo Shochiku, da cinque anni ormai l’erede della storica famiglia d’artisti della città di Sakai in prossimità di Osaka, che tante meraviglie hanno saputo costruire con l’ipertrofico e svettante filo d’erba tanto rappresentativo delle foreste d’Asia. Circa 600 delle 1200 specie appartenenti alla famiglia tassonomica Bambuseae crescono in Giappone, ed è soltanto una quella che lui impiega, ormai da molti, per la produzione della sua espressione artistica più famosa: si tratta dello scuro e tratteggiato Phyllostachys nigra f. punctata, anche detto torachiku o “bambù della tigre” che cresce unicamente su una singola montagna della prefettura di Kōchi, nella parte meridionale dell’isola di Shikoku. Il che costituisce una scelta pratica ma anche funzionale, data l’elevata resistenza del materiale unita alla natura dei suoi lavori, imponenti installazioni specifiche e temporanee costruite presso i siti di alcuni dei musei e mostre più importanti del mondo. Che lui assembla, assieme ai suoi assistenti, con le stesse metodologie praticate da secoli nel campo estremamente rigido e codificato del takezaiku (竹細工) o tecnica giapponese di lavorazione del bambù. Con il risultato di presentare ai visitatori questi organici ed all’apparenza quasi naturali arredi, che sembrano fluire in modo straordinariamente libero all’interno di ambienti artificiali, integrando in essi l’imprevedibile sentimento del mare in tempesta. E condividendo con esso la natura fondamentalmente non duratura, data l’evidente necessità di provvedere allo smontaggio dell’opera al termine di ciascun evento, operazione compiuta con la stessa perizia da parte dell’equipe dell’artista, allo scopo di poter riutilizzare almeno in parte quelle strisce di prezioso materiale ligneo proveniente dai boschi del natìo Giappone. Esatto: questa è la favola del legno alla deriva. Che continuando il proprio viaggio oltre i confini delle nazioni, costruisce un filo ininterrotto tra uomo e natura…
Prezzi unici: finisce all’asta il primo veicolo prodotto dalla Porsche
L’aria che converge, le luci che si spengono, un sibilo che si trasforma in educato rullo di tamburi. Con l’avvicinarsi del vertiginoso 17 agosto, data in occasione della quale, durante l’annuale asta di automobili organizzata da Sotheby’s presso la località californiana di Monterey, uno dei singoli pezzi più importanti nella storia di questo evento dovrà essere venduto soltanto per la seconda volta in oltre 60 anni, ad una cifra stimata sui possibili 20 milioni di dollari. E che affare straordinario, possiamo facilmente immaginarlo, avrà fatto il facoltoso collezionista in grado di trionfare nella più importante occasione d’acquisto della sua vita…
Mai sottovalutare, all’interno di una famiglia d’artisti, la differenza che può fare una singola generazione. Soprattutto quando i suoi componenti piuttosto che dipingere o scolpire s’interessano a quel campo estremamente trasversale che è la progettazione per l’industria. Campo che possiede ramificazioni verso l’utile, il dilettevole e talvolta addirittura il tragico, sulla base degli eventi che attraversano effettivamente la società. Era dunque il 1934, quando Adolf Hitler in persona diede l’ordine che per il giudizio postumo degli storici, sarebbe stato l’ultimo capace d’introdurre un cambiamento positivo nel mondo: rivolgendosi al suo conoscente, forse addirittura amico Ferdinand Porsche, che aveva abbandonato volontariamente le origini cecoslovacche per trasformarsi in onorario ed orgoglioso cittadino del Reich: “Costruiscimi una macchina che sia per tutti: economica, capiente, facile da guidare. Che sia per questo degna di ricevere l’appellativo di Volkswagen (Auto del Popolo)” Tutto questo prima delle bombe e dei carri armati, prima del sostegno all’industria aeronautica e delle pericolose altre creazioni che avrebbero portato un tale grande dell’ingegneria al processo e la condanna per i crimini di guerra, successivamente alla vittoria degli Alleati 11 anni dopo quel momento di svolta nella sua carriera. E verso la creazione di un fondamentale maggiolino, destinato a rivoluzionare ciò che fosse possibile aspettarsi da un veicolo economico in termini di prestazioni ed affidabilità. E sebbene la storia non racconti di un contributo particolarmente significativo al progetto da parte di suo figlio e futuro erede tecnologico Ferdinand Anton “Ferry” Porsche, che aveva all’epoca già 25 anni, la situazione cambia in modo significativo con la successiva e più importante creazione dei due, il prototipo, assemblato con un obiettivo per lo più pubblicitario, che sarebbe passato alla storia con il nome di Type 60K10 o molto più semplicemente, Porsche 64. Che risultava essere, sostanzialmente, l’erede diretta di visioni del mondo distinte…