Che fine ha fatto l’autobus a propulsione nucleare, strano sogno cinematografico degli anni ’70

Cruciale nel comprendere l’assioma tipicamente anglofono secondo cui less is more (“meno è meglio”) è ritornare con la mente al tipo d’intrattenimento proiettato sugli schermi cinematografici di due o tre generazioni prima di quella corrente. Prima della grafica creata al computer, dei personaggi totalmente fittizi, delle scene immaginifiche e delle comparse duplicate digitalmente. Quando un Buon Effetto Speciale era frutto dell’ingegno, il senso pratico, la capacità di rendere possibile il volere del regista sul suo trono trasportabile di alluminio e tela. E costruire automobili rappresentava, tanto spesso, il volto tecnologico di produzioni con un budget sufficientemente ampio, poiché il mondo dei motori continuava ad essere, nella mente e nell’immaginario collettivo, il simbolo rombante del progresso e dell’avvenire. Questo seppe dimostrarci Batman già verso la metà degli anni ’60 e per trasferire tale locuzione ad un diverso genere, la memorabile Monkeemobile del telefilm sui stravaganti musicisti ed aspiranti star del rock Dolenz, Nesmith, Tork e Jones, in realtà nient’altro che una Pontiac GTO modificata, con fari e pinne aerodinamiche notevolmente ingrandite. Dietro il successo andato avanti fino al ’68 dei Monkees figurava d’altro canto un giovane regista, la cui voce risuonava come quella del magico manichino nell’appartamento dei protagonisti, capace di elargire perle di saggezza ogni qualvolta ne tiravano lo spago di attivazione. Il suo nome era James Joseph Frawley ed otto anni dopo avrebbe finito per costituire la mente tecnica di uno dei più bizzarri, insoliti e per certi versi meglio riusciti disaster comedies nella storia di Hollywood. Prima di Airplane! (L’aereo più pazzo del mondo, 1980) e Critical Condition (Prognosi Riservata, 1987) e certamente prima di Sharknado (2013) fu per iniziativa dei cervelloni della Paramount che venne messo in produzione il concept per qualcosa di piuttosto raro dai tempi di Agatha Christie: una pellicola girata quasi totalmente, per lo meno nella finzione scenica, all’interno di un veicolo in movimento, la cui stessa esistenza era del tutto e puramente fantastica, essendo la risultanza di una fortunata comunione di menti creative. Andando nel contempo a rivisitare, in chiave ironica, le celebrate narrazioni drammatiche e terrificanti del regista cult e Master of Disastre, Irwin Allen (1916-1991). Così raccontano le poche cronistorie degli eventi tra cui quella dell’appropriatamente intitolata rivista Bus World, di come al direttore artistico dell’innovativa proposta, Joel Schiller fosse stato fornito un ampio budget di 250.000 dollari (pari ad un milione al cambio attuale) per creare un veicolo che fosse memorabile ed al tempo stesso iconico, degno di figurare come il vero e proprio protagonista dello show. Operazione destinata a compiersi senza disegni preparatori, un piano preciso e progetti ingegneristici, poiché quella era l’usanza dell’epoca, ma con l’assistenza di tecnici veterani quali Gaile Brown e Lee Vasque, addetti al dipartimento effetti speciali della compagnia. Fiduciosi che l’oggetto scarsamente identificato risultante da un simile summit di talenti, lungo più di 30 metri ed alto come un double-decker londinese, con 32 ruote di cui 8 sterzanti e costruito attorno ad un vistoso “reattore atomico” dalla potenza fuori scala, avrebbe finito per lasciare basiti persino loro stessi…

Il Big Bus o Fantabus, come sarebbe stato definito nella versione italiana del film, si guadagnò dunque presto un soprannome, destinato a diventare il suo nome anche nei dialoghi dei vari protagonisti dell’insolita sceneggiatura: Cyclops, data la presenza del singolo, gigantesco faro nella parte frontale. Incorporato in un altrettanto notevole parabrezza curvo, con ampia visibilità su entrambi i piani, quello inferiore con la cabina di guida ed il piano bar situato al di sopra. Caratterizzato da un punto di snodo centrale con raccordo a soffietto, analogamente ai maxi-bus delle città contemporanee, il gigante poteva nominalmente trasportare 110 passeggeri, una cifra non del tutto irrealistica almeno finché non si prendeva in considerazione l’ulteriore dotazione interna di amenità straordinariamente ingombranti, come una pista da bowling ed una piscina panoramica nella parte posteriore. Non che tale classe di veicolo fosse del tutto inusitata all’epoca, potendo addirittura individuare una significativa ispirazione nel Neoplan Jumbocruiser dell’omonima compagnia tedesca, pullman a due piani ed altrettanti segmenti snodati in servizio tra Belgio e Spagna tra il 1975 e il 1992. Non che i mezzi avessero, sostanzialmente, alcunché in comune dal punto di vista meccanico e/o funzionale. La bizzarra e variopinta creazione di Schiller usava infatti come piattaforma ben due camion indipendenti del modello International Harvester Cargostar con liberale aggiunta di semiassi ulteriori, che potevano essere guidati separatamente fino alla location impiegata nelle scene di turno, mentre il punto di snodo centrale faceva uso secondo IMDb di “500 bulloni” che potevano essere montati da un team esperto nel giro di appena 40-45 minuti. Benché durante l’utilizzo su strada restassero necessari da un punto pratico entrambi gli autisti, mantenuti in comunicazione strategica mediante l’utilizzo di un interfono e capaci di far sterzare indipendentemente la parte posteriore di un simile treno stradale. Bus World parla inoltre di come gli originali motori degli International fossero stato successivamente sostituiti da più potenti impianti Ford, provvedendo nel contempo a cambiare l’idea di partenza per un doppio posto di guida, in stile prettamente aeronautico, alla funzione meramente ausiliaria e di controllo dei sistemi del co-pilota presente nella versione finale del film.

E che assurda vicenda, sarebbe stata raccontata tra tali & tante sferraglianti paratìe! Una sgangherata corsa compiuta dal pilota e capitano Dan Torrance, ex fidanzato della figlia dell’inventore del Cyclops chiamato per sostituire l’originale incaricato della compagnia immaginaria Coyote. Fermamente intenzionato, per far dimenticare le trascorse quanto a suo dire ingiuste accuse di cannibalismo (!) a stabilire un nuovo record nella tratta transcontinentale tra New York e Denver. Mentre le pericolose trame del magnate del petrolio Ironman (così chiamato in quanto intrappolato all’interno di un polmone d’acciaio) si sarebbero palesate nel costante quanto malefico tentativo di mandare in rovina l’impresa. Con incidenti sfiorati, bizzarre vicende degli stravaganti passeggeri a bordo e persino una sequenza in cui l’autobus diventava incapace di fermarsi su una tortuosa strada montana, in qualche modo profetico del futuro successo hollywoodiano Speed (1994). Molte le funzioni collaterali totalmente improbabili mostrate dal veicolo, tra cui quella del lavaggio automatico ed il cambio ruote in corso di marcia, previo lancio esplosivo in mezzo ai cactus a bordo delle grandi strade che percorrono gli Stati Uniti centrali.
Film innovativo per l’epoca, certamente originale e difficilmente criticabile dal punto di vista della regia, grazie alle notevoli riprese ed il montaggio dell’ormai esperto Frawley, The Big Bus fu nonostante ciò un sostanziale flop ai botteghini, rivelandosi incapace di compensare i significativi investimenti necessari per la sua produzione. Il che spiega, almeno in parte, il sostanziale mistero successivo al suo rilascio: quello relativo al destino del più famoso, immaginifico ed inconfondibile autobus a propulsione nucleare nella storia della fantascienza contemporanea. Che pur essendo stato usato brevemente nell’area di Los Angeles per la promozione della pellicola, scomparì sostanzialmente dopo il 1976, quando prese brevemente parte alla parata cittadina per il bicentenario della Nazione. A quanto si dice, rottamato dalla Paramount, purtroppo scarsamente intenzionata a preservare questo atipico pezzo di storia del cinema e dei motori. Che magari potrà un giorno ritornare guidabile, sebbene in via del tutto finzionale, grazie all’opera di un modder consumato che lavori con la grafica e le caratteristiche di un qualche moderno videogame aperto alla manomissione da parte di terzi. Un carburante per la fantasia che non è in grado di esaurirsi tanto facilmente, come il combustibile all’interno del generatore che costituiva il cuore del ciclopico Fantabus.

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