È abbastanza normale per un’amministrazione presidenziale statunitense trovarsi a risolvere, poco tempo dopo l’insediamento, un qualche tipo di problema ereditato a causa delle scelte politiche ed organizzative del predecessore. Nel caso di Ronald Reagan, tuttavia, tale casistica sembrò assumere proporzioni del tutto nuove, quando gli amministratori dell’erario si trovarono a fare i conti con l’esistenza di circa 1,3 milioni di Kg di formaggio proprietà dello Stato, lentamente avviato ad ammuffirsi in una vasta quantità di siti di stoccaggio segreti. Letterali caverne sotto il suolo del paese, concettualmente non così dissimili da Fort Knox se solo “l’oro” fosse visto, ed allo stesso tempo ridefinito, dalla prospettiva di un roditore. E per capire come si sia giunti a questo, sarà dunque opportuno ritornare indietro di ulteriori 32 anni, quando nell’immediato dopoguerra la produzione agricola statunitense parva risentire di un significativo rallentamento del mercato, causato almeno in parte dall’introduzione di una dieta maggiormente diversificata ai molti dei livelli della società contemporanea. Ragion per cui venne deciso con l’Atto Agricolo del 1949, ultima conseguenza della strategia economica varata da Roosevelt con il suo New Deal, che lo stato avrebbe mantenuto stabili i prezzi di determinati prodotti, non calmierandoli dall’alto bensì acquistandone delle quantità variabili secondo le leggi del libero mercato, nella convinzione di poter in seguito trovargli un qualche tipo di destinazione. Prospettiva valida per molti aspetti, tranne quella del fluido al tempo stesso più prezioso e deperibile proveniente dai copiosi allevamenti dell’America rurale: il latte bovino. Che ben presto venne trasformato in burro, latte in polvere e… Formaggio, per l’appunto, nella ragionevole speranza di riuscire a conservarlo più a lungo. La situazione non sarebbe tuttavia davvero sfuggita di mano fino agli anni ’70, quando un generoso programma di sussidi venne implementato durante il mandato di Jimmy Carter, nella ferma convinzione che l’investimento di circa due miliardi di dollari in un periodo di 4 anni sarebbe stata l’unica maniera per contrastare la crisi economica e dei carburanti. Il risultato, non del tutto prevedibile, sarebbe stata una letterale esplosione di produttività. Ogni ranch, fattoria ed allevamento bovino si trovò a nuotare letteralmente nella preziosa e nutriente bevanda, affrettandosi quindi a rivenderla alle autorità sfruttando i metodi creati svariate decadi prima. Così il surplus di formaggio continuava ad aumentare e nella speranza di riuscire a conservarlo più a lungo, l’erario si affrettò a procurarsi spazio in magazzini dalle condizioni climatiche il più favorevole possibili, inclusi quelli situati sotto molti metri di cemento e terra. Era iniziata l’Era del formaggio nascosto e nulla, caso vuole, sarebbe stato più quello di prima…
Al passaggio dei poteri verso il carismatico Reagan, d’altra parte, il problema venne ignorato per qualche tempo. Il presidente attore del Partito Repubblicano, che durante la sua campagna aveva spesso criticato il comportamento di coloro che vivevano grazie ai sussidi a spese dello stato, non poteva semplicemente cambiare soluzioni strutturali tanto utili al mantenimento dell’economia del suo paese, né introdurre quantità impressionanti di prodotti caseari sul mercato internazionale, avviando una sorta di guerra commerciale al ribasso. La situazione tuttavia stava precipitando in modo prevedibilmente rapido, con tonnellate di cibo che ogni giorno continuava a diventare incommestibile, tra le proteste del Congresso cui si aggiunsero, ben presto, quelle della popolazione sufficientemente informata. “L’unico modo per risolvere in maniera rapida ed economica il problema” riportò un ufficiale del Dipartimento dell’Agricoltura nel 1981: “Sarebbe scaricare tutto nell’oceano.” Ma l’istituzione presidenziale avrebbe avuto un’idea migliore, almeno in linea di principio, con la firma da parte di Reagan il 23 dicembre dello stesso anno di un secondo Atto per l’Agricoltura e il Cibo, in base al quale la stragrande quantità di formaggio posseduto dagli Stati Uniti sarebbe andato in beneficenza. Iniziò quindi un lavoro febbrile, mentre le diverse autorità del governo federale studiavano come veicolare tali quantità a vantaggio dei bisognosi, con un generoso contributo collaborativo da parte di organizzazioni umanitarie e chiese disseminate sul territorio. Il primo stato ad usufruirne sarebbe stata dunque la California, accettando in carica a gennaio una prima consegna da 1.400 tonnellate, da ridistribuire in primissima battuta agli anziani in situazione d’indigenza. Molti stati seguirono progressivamente tale esempio, rendendo il formaggio di stato un bene piuttosto comune all’interno di particolari case, in particolari quartieri di metropoli e contesti semi-urbani da una costa all’altra del continente. Il formaggio in questione, tipico prodotto dell’industria moderna a base di cheddar, colby e varie tipologie di grana piuttosto rudimentale, veniva distribuito nella forma di un “lingotto” in una scatola di cartone di 40 x 15 cm, idonea per la preparazione di una vasta varietà di pietanze. Molti lo descrivevano come simile al prodotto commerciale Velveeta, della compagnia Monroe di New York. Dopo un primo periodo in cui vennero smaltite le riserve sotterranee più vecchie e dalla maggiore vicinanza all’incommestibilità, il formaggio di stato cominciò a diventare un’ingrediente non del tutto sgradevole nella dieta popolare americana, sebbene accompagnato da una sorta di stigma dovuto alla sua associazione a condizioni di vita economicamente carenti. E più di qualcuno, tra i giovani e gli adolescenti degli anni ’80, lo ricorda con una sorta di nostalgia latente, sebbene il giudizio a posteriori sul sapore sembri variare notevolmente. Tanto che in molti sono pronti a giurare fosse talmente salato da poter trovare posto solamente nei panini più conditi o all’interno del Mac & Cheese.
Contingenze simili, del resto, furono vissute in più momenti e situazioni della storia umana, come mera conseguenza delle regole del “gioco” dell’economia sistematica, il cui comportamento non è sempre facile da prevedere. E c’è da dire che altri paesi o istituzioni, in epoca pressoché coèva, sbagliarono i propri calcoli in maniera ancor più clamorosa, come nel caso della tragica montagna di burro accumulata dall’Unione Europea (CEE) a partire dagli anni ’70 inizialmente in Germania Ovest, più volte smaltita e conseguentemente riformatisi a seguito del surplus della produzione dei latticini. Dopo tutto, ogni giorno una mucca deve essere munta, indipendentemente dal fatto che ce ne sia l’esigenza. Giusto? Per non parlare del lago di vino o della montagna di grano e carne bovina…
Un demone sociale, selvaggio e incontrollabile, il cui comportamento non può essere imbrigliato. Inoltre, una volta che un surplus ha avuto modo di presentarsi, non è mai davvero possibile eliminarlo, poiché esso è la risultanza di un’effettivo cambiamento delle priorità produttive di un intero paese. Così persino adesso, a partire dal maggio del 2023, l’amministrazione Biden ha varato un piano per l’acquisto nei prossimi anni di un totale di 21 milioni di Kg di formaggio, nel tentativo di contrastare l’aumento selvaggio dei costi e conseguente svalutazione del potere d’acquisto. Una prospettiva che potrebbe, presto o tardi, riportare sulle tavole un vero classico delle generazioni ormai trascorse. Così come l’idea che un topo, tra i crateri della penombra lunare, potesse controllare l’andamento delle maree. In base alla quantità di cibo che fagocita, ovvero la sostanza stessa di cui è fatto l’astro principale delle nostre notti eminenti.