Worcestershire: la misteriosa origine del più impronunciabile dei condimenti inglesi

Ai tempi dell’antica Roma, visioni divergenti coesistevano in merito ai presunti effetti delle interiora di pesce fatte fermentare in assenza d’aria. Il celebrato e a quanto pare delizioso garum, altresì detto liquamen, salsa già ampiamente usata dai Greci, dai Fenici, dai Bizantini e dagli Arabi, in una varietà di pietanza che non avrebbero tuttavia mai raggiunto la straordinaria varietà e successo di quelle cucinate nell’impero della Città Eterna. Con la carne, la verdura, altro pesce, nei soufflé e persino mescolata al vino o all’acqua (hydrogarum) visto l’obiettivo il fine di distribuirne ingenti quantità alla formidabile macchina da guerra delle sue legioni. Poiché si diceva che un simile ingrediente, quando assunto in modo regolare, potesse contribuire alla guarigione da una lunga serie di acuzie, tra cui dissenteria, costipazione, ulcere e morsi di cane, oltre a favorire la caduta di peli o la scomparsa di eruzioni cutanee indesiderate. Laddove almeno il grande filosofo Lucius Annaeus Seneca sembrava conservare un parere assai più critico, scrivendo nell’Epistola 95: “Non comprendete come il garum sociorum, quella costosa massa di pesce andato a male, comprometta lo stomaco con la sua salata putrefazione?” Una dichiarazione più simile a quella che potrebbe produrre l’interprete moderno dell’intera faccenda, o almeno così potremmo essere inclini a pensare. Se non fosse per il piccolo dettaglio che, nell’ampio catalogo dei paesi anglosassoni, un processo di preparazione molto simile viene tutt’ora preservato e messo in pratica attraverso la lettura dei moderni processi industriali. Grazie all’iniziativa, o almeno questa è la leggenda, di un particolare aristocratico inglese del XIX secolo, il politico della fazione dei Whig Lord Marcus Sandys, governatore dell’India bengalese.
O almeno questa è la storia ufficiale, utilizzata nell’anno 1837 della commercializzazione da parte della compagnia Lea & Perrins di Worcester (pronunciato come Gloucester, ovvero con l’elisione della sillaba “cer”: wʊstər) attivi come farmacisti in un’epoca in cui la medicina riusciva ancora ad essere il frutto di geniali intuizioni e strane iniziative personali. Progetti come quello messo in atto dagli eponimi John Wheeley L. and William Henry P, una volta conosciuto il loro committente di ritorno dall’Oriente, che almeno in apparenza presumeva di riuscire a riprodurre un qualche tipo di misterioso condimento assaggiato e tanto apprezzato presso il territorio del Subcontinente. Una strabiliante commistione di aringhe, sale, zucchero, melassa, scalogno, aglio, due tipi d’aceto e naturalmente una speciale miscela di “spezie segrete”, verso la realizzazione di un qualcosa che i due scienziati non tardarono a trovare, racconta l’aneddoto, assolutamente disgustoso, al limite estremo dell’incommestibilità. Ma poiché le vie del fato sono spesso imprevedibili, caso volle che i farmacisti non avessero la voglia o il desiderio di gettare subito la “salsa”, finendo piuttosto per tenere l’orribile miscela dentro un ripostiglio per un periodo di mesi, se non addirittura anni. Periodo trascorso il quale, con eccezionale sprezzo del pericolo o una profonda dedizione alla scienza, i due temerari decisero non solo di aprire il barattolo, e di annusane il contenuto, ma persino d’introdurlo all’interno delle proprie caverne fagocitatrici. E fu allora che il corso della cucina britannica prese una delle pieghe più bizzarre e inaspettate della sua storia…

Nell’originale fabbrica di Worcester, oggi proprietà di Heinz dopo essere passata di mano tra HP Foods, Imperial Tobacco e Danone, la salsa viene fatta fermentare per un periodo di fino a tre anni. Altrimenti, possiamo facilmente immaginarlo, non sarebbe di sicuro la stessa cosa.

La salsa prese quindi il nome completo di Worcestershire (WUUS-tər-shər) dal nome dell’intera contea facente riferimento al suo capoluogo d’origine nella zona delle Midlands Occidentali. Da cui non ci mise molto a diffondersi nell’intero paese, per il suo gusto inconfondibile e un valore aggiunto di natura certamente significativa: la sua estrema non deperibilità, grazie alla generosa quantità di sostanze in grado di prevenirne il degrado, tra cui il sale e l’aceto. Nonché il fatto che il pesce contenuto all’interno, come sua prerogativa basilare, sia già stato fatto fermentare, prevenendone ulteriori e molto più indesiderabili trasformazioni. Proprio per questo, la salsa di Worcester diventò un fondamentale caposaldo delle dispense marittime, diventando imprescindibilmente associata all’insolito confezionamento all’interno di un sacco di carta capace di attutirne gli urti, occasionalmente ancora utilizzato in epoca odierna. Già copiata e riprodotta abusivamente a partire dal 1840, ad opera dei farmacisti rivali di Lea & Perrins, Twinberrow & Evans (“con il patrocinio di Sua Maestà”) la salsa avrebbe quindi visto scadere il proprio brevetto entro un periodo di 20 anni, portando ad un’estrema diffusione nell’intero territorio britannico di stabilimenti specializzati nella sua produzione, tali da aumentarne esponenzialmente la popolarità. Poiché, in maniera forse sorprendente per chi non l’avesse mai assaggiata, sembra proprio che un simile processo produttivo, soprattutto con gli accorgimenti dei tempi moderni, possa produrre una sostanza dal sapore altamente caratteristico ed al tempo stesso appetitoso, spesso accomunato al concetto tipicamente giapponese del gusto umami, glutinoso, corposo e nutriente, un significativo cambio di registro rispetto alla notoriamente poco saporita cucina inglese. Della ricetta originaria risalente al XIX secolo, dunque, rimangono buona parte degli ingredienti fin qui citati, fatta eccezione per lo scalogno sostituito con cipolle e la corrente aggiunta di generose quantità di estratto di tamarindo, frutto leguminoso originario originario dell’Africa e dell’India. Mentre varianti regionali come quella statunitense prevedono variazioni anche significative degli ingredienti, tra cui una quantità tripla di zucchero oltre all’utilizzo dell’aceto distillato piuttosto che quello di malto. Lasciando d’altra parte molto libero l’impiego dell’eclettico condimento, liberamente cosparso su un’estrema quantità di primi e secondi, inclusi tortini, zuppe vegetariane e addirittura la pasta. Benché data la presenza di pesce, l’ingrediente resti formalmente inaccessibile ai vegani e non possa essere messo sulla carne dagli ebrei, data la natura non kosher della mescolanza tra queste due tipologie di cibi. Altrettanto difficile a suo modo continua ad essere, d’altronde, l’accettazione da parte dei cultori di una delle discipline culinarie più severe al mondo, quella dei remoti discendenti dell’antico impero controllore del Mediterraneo…

Forse il più divertente spezzone dedicato alla difficile pronuncia del nome è quello realizzato dall’italo-americano del New Jersey, Pasquale Sciarappa che dopo aver fallito varie volte nella sua missione, sceglie alla fine di “leggere l’etichetta all’italiana”. Con risultati totalmente inaspettati.

Che cosa direbbe, dunque, un contemporaneo di Seneca o di Cicerone all’assaggio dell’attuale interpretazione di quello che costituiva il fondamento di alcune delle pietanze più apprezzate nel suo mondo antico? A parte “Euge, quod bonum!” prima di cadere nell’inevitabile stato di perplessità dinnanzi alla bottiglia in vetro trasparente, la carta della confezione, l’etichetta almeno in apparenza realizzata dal più preciso degli artisti calligrafici mai conosciuto al di fuori del regno divino consultato dagli auguri. Una straordinaria commistione di fattori anacronistici, così come risulta essere di pari passi il garum stesso, all’epoca delle automobili e degli aeroplani. Ma forse non dovremmo concentrarci troppo su una simile faccenda, dinnanzi ad una di quelle pietanze che più ci fermiamo ad analizzare, tanto meno appare appetitosa vista l’effettiva provenienza e natura dei suoi ingredienti. Che sia soltanto il gusto, a parlare.

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