L’efficace strategia di caccia che avvicina le balene a un antico mostro norreno

Si narra nella leggenda di San Brendano, uno degli originali apostoli del Cristianesimo presso l’isola d’Irlanda, dei suoi favolosi viaggi e i paesi, il luoghi e i popoli che ebbe modo di conoscere navigando ai quattro angoli dei sette mari alla ricerca della terra dell’Eden, identificata in lingua gaelica con il termine di Tír na nÓg. In uno degli episodi più spesso ripetuti, facente parte della principale opera in prosa latina sull’argomento con datazione a partire dal X secolo, la sua imbarcazione giunse quindi presso un bizzarro atollo ricoperto d’erba ma del tutto privo d’alberi, dove egli avrebbe deciso di far riposare gli uomini della spedizione. E poiché era il giorno di Pasqua, iniziò a celebrare la messa in base ai gesti da lui stesso tramandati, giungendo fino al punto in cui la prassi prevedeva l’innalzamento di un croce, che il suo aiutante piantò con forza nel terreno di quella che pareva essere la spiaggia del loro approdo. Se non che in quel fatale momento, la terra stessa iniziò a tremare: poiché quello che era stato immobile sotto i loro piedi, era in realtà il gigantesco pesce Zaratan, che i greci chiamavano Aspilochedone (“Serpente-targaruga”) il quale spaventandosi per l’improvviso dolore, aveva iniziato a nuotare. E di lì a poco avrebbe provveduto a immergersi, condannando l’intero consorzio dei suoi accidentali visitatori…
Passano i secoli, mutano le storie. Compresa quella di una creatura riconducibile all’originale testo del III o IV secolo Physiologus, in cui gli si attribuiva l’insolita capacità di emettere un profumo in qualche modo accattivante dalle proprie fauci, con l’obiettivo di attirare le proprie vittime designate. Eppure spesso restano degli elementi in qualche modo ricorrenti, valide costanti o pratici sentieri per l’immaginazione. Così che attorno al 1250, il testo didascalico del Konungs skuggsjá (“Specchio del Re”) avrebbe riservato un capitolo alla descrizione del più grande ed incredibile pesce dell’oceano, mai catturato ne trovato morto sulle spiagge, le cui dimensioni superavano quelle di qualsiasi balena, il cui nome ai suoi tempi era diventato Hafgufa. E del modo in cui tale gigante era solito procacciarsi il cibo, lasciando emergere parte del suo corpo sopra il pelo dell’acqua, con la bocca spalancata. Provvedendo a rigurgitare con un rutto fragoroso prede precedenti e parzialmente masticate, così da attirare i pesci assieme agli uccelli ad una sorta di terribile banchetto. Per poi provvedere, come se nulla fosse, a chiudere di nuovo le mascelle con tutto l’intero contenuto d’occasione, recuperando in tale modo il suo significativo investimento di energie. Un efficace e per certi versi credibile comportamento, che un nuovo studio condotto da John McCarthy, Erin Sebo e Matthew Firth della Flinders University di Adelaide, Australia, sarebbero riusciti con un articolo sul finire di questo febbraio a ricondurre al recente successo su Internet di una serie di video virali sulla tecnica acclarata del trap feeding, un approccio esclusivo delle rorqual (fam. Balaenopteridae) all’esecuzione di formidabili battute di caccia. La strategia di questi grandi carnivori, per l’appunto, letteralmente all’opposto di quella per cui sembravano essersi evoluti, precedentemente espressa in rapide picchiate alla massima velocità consentita dalla loro massa imponente, durante cui provvedere al pratico risucchio di ogni cosa presente sul loro tragitto sotto la superficie marina. Laddove gli esemplari in questione, ripresi per la prima volta presso il golfo di Thailandia e presso l’isola di Vancouver, parevano piuttosto preferire una più passiva strategia del tutto simile a quella dell’Hafgufa…

La strategia del trap feeding funziona perché sfrutta il comportamento istintivo delle aringhe o altri piccoli pesci, che vedendo un’incombente massa oscura pensano possa trattarsi degli scogli ove apprestarsi a trovare riparo. Finendo invece, loro malgrado, per tuffarsi nella bocca aperta della balena.

Creatura effettivamente citata e raffigurata più volte nei bestiari medievali, oltre a comparire come motivo decorativo ai margini di molte mappe coéve, il titanico pesce definito talvolta come il padre di tutti i mostri marini poteva dunque considerarsi come una presenza costante nei racconti dei marinai, risultando al tempo stesso basato su effettive osservazioni di specie animali ancora oggi esistenti. In un’altra celebre saga del XIII secolo, incentrata sulle vicende vissute dall’eroe irlandese Oddr l’arciere, l’ancestrale Aspilochedone ricompare nuovamente con l’appellativo di Lyngbakr, attribuito a una creatura esteriormente simile a una balena ma tanto vasta da sembrare un’isola, solita sostare in posizione statica con soltanto il naso e la mandibola ad emergere dalle acque dei mari del Nord. Formando l’approssimazione ragionevole di un paio di scogli, in mezzo ai quali il protagonista della vicenda avrebbe finito per passare nel corso dei propri viaggi verso i confini della Groenlandia. E di certo sarebbe servito un elevato grado di coraggio, come quello dimostrato dall’eroe titolare, per poter rischiare l’ira di un essere tanto imponente e maestoso noto per la malsana abitudine di rovesciare le navi, di cui oggi non abbiamo altre documentazioni né alcuna persistente memoria. Benché sia perfettamente possibile, e persino probabile nell’opinione degli autori dello studio australiano, che l’intera vicenda sia null’altro che un fraintendimento di talune specie di rorqual intente a praticare il trap feeding, secondo i crismi operativi recentemente entrati, grazie al successo mediatico digitale, nella cognizioni scientifiche del più lento e cadenzato mondo dell’Accademia. Il che permette l’elaborazione di un contesto d’analisi del tutto differente, forse smentendo la popolare ipotesi secondo cui la tecnica di caccia dimostrata nei suddetti video potesse essere un’abitudine recente motivata dal mutamento climatico e l’assenza di prede, possibilmente tramandata all’interno di specifiche popolazioni di megattere e balenottere di Bryde. Ma piuttosto un comportamento istintivo posseduto da una certa quantità di questi esseri, con datazione attribuibile ad oltre un millennio prima dell’epoca odierna. Il che, pur contribuendo a chiarire ulteriormente le possibili implicazioni dell’intera faccenda, non dovrebbe in linea di principio deviare l’attenzione dalla difficile posizione ecologica di queste creature, oggi soggette a pressioni ambientali e di contesto mai vissute prima dell’epoca corrente. Avendo letteralmente scambiato, nell’ideale suddivisione tra mostri e vittime della loro spietatezza, i rapporti tra i giganteschi cetacei e la prolifica genìa degli umani.

Molte rappresentazioni tradizionali, sia testuali che grafiche della Hafgufa potrebbero essere ricondotte alla parte emersa di una balenottera alle prese con questo approccio statico alla predazione. Donando un nuovo approccio all’analisi, potenzialmente utile per l’elaborazione di ulteriori riflessioni sull’argomento.

Siamo dunque al punto, oggi, in cui la cognizione del senso comune, resa persistente tramite i molteplici canali dell’intrattenimento, può condurre a nuovi spunti d’analisi funzionali all’acquisizione di dati rilevanti. Per quanto, in forza delle implicazioni inevitabili di un tale approccio, necessariamente mai conformi a una scientifica e inconfutabile certezza delle proprie fonti. Così il leggendario Hafgufa/Aspilochedone, tra il XV e il XVII secolo, fu trasformato nel repertorio leggendario dei marinai nella temutissima presenza del Kraken, la cui conformazione si configurò da subito come più simile a quella di una piovra o calamaro gigante. Senza più nessuna traccia dell’originale metodo di caccia, che d’altra parte sarebbe stato del tutto superfluo, visto il possesso dei molteplici tentacoli pronti a ghermire ogni sorta di potenziale vittima, incluse le malcapitate navi.
Tutt’altro contegno rispetto a quello mostrato dall’inusitato pesce di San Brendano, che il mitico navigatore avrebbe provveduto al culmine della crisi a placare con una fervente preghiera. Ricordando in questo modo agli accompagnatori del suo viaggio l’infinita gloria del Signore. Ed il potere che l’amore reciproco per ogni suo essere poteva dimostrare, nel condurre nuovamente gli abitanti del Creato ad un’auspicabile situazione di quiete. Qualcosa d’inerentemente applicabile, tramite sentieri alternativi, anche nell’epoca del metodo scientifico e le plurime criticità nel campo della conservazione animale. A patto che una logica di responsabilità individuale riesca finalmente a superare, di nuovo, le ragioni imprescindibili del profitto più o meno immediato. Un’obiettivo non per forza o in alcun modo facile da perseguire…

Vedi anche:
– Studio della Flingers University pubblicato sulla rivista Marine Mammals Science
– Il mio precedente articolo sui video virali del 2021

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