St. Louis degli acquedotti stravaganti: cinque torri all’ombra del Gateway Arch

“Cittadini, avete dimenticato la storia di Noé? Tutti furono puniti, tranne lui. E adesso demolite questa dissacrante… Struttura, giacché Dio può essere raggiunto solamente con lo spirito, non certo scale a chiocciola e slanciati minareti!” Avrebbe potuto dire qualcuno all’indirizzo dell’architetto finnico-americano Eero Saarinen, prima che la sua opera maggiormente destinata a rimanere negli annali cominciasse a ritornare verso il suolo. Formando la più ragionevole e palese imitazione di un arcobaleno, costruito con l’acciaio inossidabile e per questo in grado di riflettere la luce solare. E soltanto una continuò ad essere la lingua parlata della gente, Egli permettendo, nel grande centro urbano definito Porta dell’Ovest, che da quel fatidico momento avrebbe dato forma fisica all’appellativo metaforico in questione. Ma oltre 70 anni prima di quel frangente, la più affollata tra le piane fluviali del Missouri, che prende il nome sugli atlanti di St. Louis, aveva già i suoi punti di riferimento, costruiti in senso verticale al fine presumibile di ergersi e attirare gli ammirati sguardi della gente, almeno finché non capitasse di avvicinarvisi (ove possibile) soltanto per udire un lieve suono gorgogliante che pare protendersi al cospetto dell’Infinito. Giungendo a rivelare l’effettiva natura, difficilmente sospettabile, di simili apparati: non dei monumenti commemorativi, né il monito del municipio a non costruire palazzi più alti del dovuto. Bensì parte imprescindibile, ed innegabilmente necessaria, dell’intero impianto idrico cittadino, destinato ad espandersi in maniera esponenziale con la fine del XIX secolo, mentre le industrie dei commerci e quella terziaria andavano a sostituirsi gradualmente alle antiche fonti di reddito dell’intera regione. Questo perché all’epoca, in un luogo tanto ricco di risorse idriche e contrariamente ad altre celebri città statunitensi, il problema principale non era tanto raggiungere i luoghi più alti mediante l’utilizzo di un’adeguata pressione. Bensì limitare questo implicito valore, evitando la vibrazione usurante dei tubi e il loro occasionale collasso, con conseguenti allagamenti di locali ed altri ambiti preferibilmente predisposti al fine di restare asciutti. Situazioni per risolvere le quali, all’epoca, menti fervide s’industriarono per decadi, fino all’elaborazione teorica della torre idrica di sfogo, una struttura tanto differente dalle odierne alternative tozze e bulbose, quanto efficace nel suo ormai desueto compito all’origine della creazione di partenza. Così nel giro di appena un paio di generazioni, oltre 700 simili strutture cominciarono a sorgere nei luoghi più affollati degli Stati Uniti, per poi essere gradualmente demoliti con l’ingresso dell’epoca contemporanea, e l’implementazione di metodologie più efficaci atte a risolvere la stessa tipologia di problemi. Tutte tranne l’effettivo 1%, di cui poco meno della metà si trova effettivamente ancora ad ergersi nella seconda metropoli dello stato, per una singola nonché palese ragione: la maniera in cui tali arnesi verticali riescono a spiccare tra la massa dei grigi edifici contemporanei, risalendo a un’epoca in cui la bellezza delle forme pareva essere la propria stessa ricompensa. Ed abili architetti, chiamati sulla scena al presentarsi dell’opportunità, crearono altrettante meraviglie degne di essere inserite, col trascorrere degli anni, nell’elenco dei luoghi storici degni di essere preservati nonostante il cambiamento significativo del proprio contesto. A partire dalla candida, svettante e quasi surreale “Grandiosa Colonna” (di “Grand Avenue” per l’appunto) che svolgendo la funzione accidentale d’imponente meridiana, segna il giro delle ore nella tranquilla e relativamente poco trafficata zona di College Hill…

Nessun giganteggiante architrave per questo elemento architettonico, apparentemente dedicato al sostegno della volta celeste stessa. Non che simili elementi manchino del tutto in altri luoghi, con proporzioni comprensibilmente meno preponderanti.

Se ora vi chiedessi, nella vostra opinione, dove possa trovarsi il singolo elemento strutturale con il capitello dei Corinzi più elevato del mondo, dubito che avreste la risposta pronta. Simili discorsi di natura matematico-comparativa, tendenzialmente, appartengono alla circostanza anglosassone degli amici che discutono nei pub, possibilmente sfogliando il tradizionale almanacco delle birrerie Guinness, oggi diventato non a caso un sinonimo globale del concetto di record verificabili ed attentamente documentati. Credo che molti tenderebbero a pensare a luoghi come l’antica Costantinopoli, Alessandria d’Egitto o il Partenone di Atene, piuttosto che il tempio di Marte Ultore nel foro Augusteo dell’eterna città di Roma. Quale necessità potrebbe esserci effettivamente, nel mondo moderno, per strutture più grandi, laddove il concetto stesso dell’architettura è giunto a trarre beneficio da un tipo di soluzioni molto più versatili ed in fin dei conti, meno dispendiose da implementare? La risposta, come spesso capita, è collegata a una ricerca di tipo estetico ed in modo particolare quella dell’architetto George I. Barnett, che venne invitato nel 1871 a dare il suo contributo al problema sopra descritto, elaborando un tipo di rivestimento termicamente protettivo nei confronti di un tubo metallico da far salire in senso verticale per 45 metri partendo dall’acquedotto cittadino nel sottosuolo. Dal che l’iniziativa, immediatamente apprezzata dal pubblico, di trasformare la necessità in virtù, giungendo a donare un che di neoclassico al decoro fisico del quartiere, capace di condurre al notevole, quanto insolito punto di riferimento. Che fu il primo ma per niente l’ultimo esempio di una serie, capace di trovare il suo secondo campione in ordine di tempo nella cosiddetta torre rossa di Bissell Street, opera stavolta di William S. Eames, con i suoi 63 metri di mattoni rossi ultimati nel 1887, nonché un aspetto vagamente riconducibile al Rinascimento italiano, continuando una serie tematica che in un modo o nell’altro, parrebbe essere stata in grado d’influenzare l’intera questione. Oggetto che tra tutti, forse per la sua collocazione meno centrale e popolare tra i turisti, fu più volte minacciato di demolizione al termine della sua vita utile, finché negli anni ’60 dello scorso secolo non fu fatto notare come un complessivo ed efficace restauro sarebbe costato anche meno, giustificando la sua sopravvivenza gli occhi del tipico pragmatismo degli americani. Destino invece non ancora teorizzato per la più recente ed altrettanto solida torre di Russel Avenue mostrata in apertura, topograficamente prossima alla Grandiosa Colonna di cui sopra, risalente al 1899 grazie all’opera dell’architetto Harvey Ellis, con possibili influssi moreschi dovuti alla presenza di una cupola direttamente ispirata a quella di un minareto. Delle strutture fin qui citate senz’altro l’unica a costiture una vera e propria attrazione locale, con la possibilità ancora oggi di salire i 198 scalini fino ai suoi 55 metri d’altezza, per acquisire una memorabile vista a 360 gradi dell’intera zona di St. Louis, incluso l’arco sfolgorante che la rappresenta sui sussidiari di ogni parte del mondo. Al che sorge la spontanea domanda, avendo citato l’interezza delle alternative pseudo-celebri ragionevolmente associabili a quel celebre monumento, di quali siano le le rimanenti due strutture della nostra ideale cinquina o poker di elementi. Una riposta per chiarire la quale, occorrerà risalire di qualche chilometro lungo il corso del possente Mississippi, fino a un ponte storico chiamato, niente affatto casualmente, il “Chain of Rocks Bridge”…

La torre 2, più grande ed in passato concepita al fine di ospitare dei lavoratori per 24 ore al giorno, sette giorni la settimana, è oggi la più difficilmente accessibile, per l’avvenuta demolizione della diga utilizzata un tempo come pratico camminamento fino alla porta principale.

Rocce, scogli o cose fuori dal contesto, come due notevoli castelli romaneschi, almeno in apparenza fuoriusciti da un catalogo di luoghi visitabili entro i confini della vecchia Europa. Pur essendo, rispettivamente, la creazione dello stesso William S. Eames nel 1894 e dello studio Roth & Study nel 1915, con la stessa pratica e palese funzionalità: agevolare il flusso delle acque fluviali all’interno del sistema degli acquedotti cittadini, fino al vicino impianto di smistamento e depurazione delle acque, che oggi può contare su sistemi di natura simile benché moderna. Ancorché si narri, a quanto pare, che le vecchie torri vengano ancora talvolta utilizzate, nei periodi in cui il consumo idrico di St. Louis tende a salire sopra la media, una questione in grado di mettere alla prova le infrastrutture ma non certo le inesauribili risorse dei questa città.
Quasi una Venezia in fieri, se l’ideale flusso dei canali avesse modo di salire in senso verticale, trovandosi distribuito tra le nubi ed i pensieri grazie alla potenza metaforica di un potenziale regno fatato. Così come per lungo tempo, ai bambini che passavano sul ponte, fu narrato dei misteriosi “elfi” (in realtà dei semplici supervisori con l’uniforme) che vivevano all’interno dei castelli in mezzo alla foschia, svolgendo la funzione per cui avevano deciso di palesarsi sulla Terra. L’opportunità di dare un apporto meritevole al mondo molto umano della tecnologia applicata. In cui la logica può ancora essere subordinata, qualche volta, alle ragioni universali dell’estetica e l’apparenza.

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