Lo strano approccio all’apicoltura dell’alveare di plastica in bottiglia

Se un albero ronza nella foresta, ma nessuno riesce a sentirlo, produce lo stesso del miele? Se al tronco è stato avvitato un asse, attaccato al quale campeggia una certa quantità di giare trasparenti, le piccole ospiti all’interno riusciranno a lavorare altrettanto bene? Domande difficili nel particolare contesto partico di appartenenza, di un mestiere antico e proprio questo instradato lungo un preciso sentiero, deviare dal quale comporta fatica, sudore, disapprovazione. E sguardi severi da parte di sedicenti “esperti”, come quelli attirati dall’avvocato russo Max Egorov, alias Advoko MAKES. Costruttore appassionato di strutture boschive, nel tempo libero un celebrato maker di Internet nonché, per sua stessa ammissione, nulla più che un apicoltore dilettante. Ma c’è una funzione utile che trova terreno fertile nell’opera di chi non possiede preconcetti o ingombranti nozioni di seconda mano, pur essendo sufficientemente sicuro di se da voler offrire istruzioni per la messa in atto collettiva di una nuova idea. Con luci ed ombre, senz’alcun dubbio, ma è pur sempre questo il problema di qualsivoglia tipologia di attività umana, incluso il rapporto reciprocamente vantaggioso tra grossi mammiferi sapienti e gremiti assembramenti d’insetti eusociali: le api. Un paradosso esse stesse, poiché non è facile contestualizzare il concetto di multiple menti ed altrettanti corpi intrecciati all’interno di un singolo spazio ed in questo raccolte, nel perseguire congiunte lo stesso obiettivo di massima, che vorrebbe condurle ad imperitura prosperità. Sulla via del quale, il miele non è che un prodotto collaterale, tuttavia sufficiente a ridefinire il destino stesso dell’alveare e la sua collocazione precisa nella società. Come una sorta di “arredo” costoso e complesso da gestire, tra le più preziose proprietà di chi pratichi tale arte, e non soltanto a causa di quello che c’è all’interno. Ed è proprio questo, per l’appunto, il problema menzionato da Egorov in apertura, relativo al costo d’ingresso non propriamente accessibile di quel mestiere, che lui colloca arbitrariamente (e in maniera oggettivamente esagerata) attorno alla cifra dei 10.000 euro. “E se io vi dicessi che c’è un modo più semplice? Potenzialmente migliore, ma anche e soprattutto condizionato da un costo eccezionalmente ridotto. A tutti gli effetti, alla portata di chicchessia…” Quello mostrato e descritto negli oltre 30 minuti di un video già dimostratosi capace di accumulare oltre 10 milioni di visualizzazioni, oltre a un significativo numero di abbonati al canale Patreon dell’autore. Consistente in parole povere nell’adattamento di una serie di giare di plastica, del tipo comunemente impiegato per i distributori di acqua potabile, al fine di ospitare le piccole costruttrici della città di cera, e tutta la loro dolce ricchezza ambrata secondo modalità non profondamente dissimili di quello che potremmo convenzionalmente descrivere come alveare a forma di tronco. Ma con una modularità e soprattutto, praticità d’implementazione, che sembrano esulare dallo stratificato e complesso mondo dell’apicoltura umana…

Tra il dire e il fare, come si dice… Trovare bottiglie della dimensione sufficiente potrebbe non risultare semplice, così come implementare un corretto sistema di congiunzione tra i loro colli. Il che non ha impedito, d’altra parte, ai molti ammiratori del video originale di proporne una propria versione online.

“Osservate con quale facilità posso tagliare, congiungere ed allungare il mio sistema, mediante l’impiego di forbici ed altri attrezzi domestici. Davvero le giare (o bottiglioni) di plastica sono una materia prima di grande qualità, che dovrebbe trovare impiego in ogni ambito del fai da te.” Afferma Egorov/Advoko, mentre si prodiga nel dimostrare l’effettiva costruzione di uno dei suoi alveari, costituito da recipienti di una certa dimensione minima, rigorosamente attaccati in sequenza l’uno all’altro. Questo perché il proprietario di api dovrebbe idealmente, costui ci spiega, mantenere sempre proficuo il rapporto tra quantità d’insetti e spazio a disposizione, pena la produzione progressivamente più piccola di celle e conseguente deperimento delle nuove generazioni alate. Una sorta di processo entropico, nella sua personale interpretazione della faccenda, a cui risulta soggetto qualsiasi tipo di alveare selvatico, ma che non dovrebbe necessariamente coinvolgere quelli amministrati artificialmente. Ciò grazie all’accorgimento più interessante alla base di questa ingegnosa prassi operativa, consistente nell’allungamento progressivo della catena di bottiglie a partire dalla coppia di partenza, con foro di uscita sottostante, ma un divisore a griglia invalicabile per la regina (di dimensioni più grandi) tale da costringere lo sciame a concentrarsi primariamente nella giara inferiore. Mentre la creazione delle cellette riproduttive con il loro prezioso carico di miele avverrà di contro, in una progressione logica tipica del modus apiario, nel punto più protetto e distante dall’ingresso, ovvero la bottiglia superiore dell’alveare. Al che una volta riempita quest’ultima, tutto quello che il proprietario dovrà fare è aggiungere un’ulteriore giara sottostante, affinché la regina possa migrarvi con tutto il suo seguito. Rimuovere la bottiglia “completa” e permettere alle api il continuativo utilizzo del vecchio favo, destinato ben presto a diventare il nuovo magazzino. E così via, ad infinitum… (qualcosa di simile, ci spiega il creativo, quanto fatto anticamente dagli apicoltori dell’antica Mesopotamia ed Egitto, mediante l’impiego di contenitori cilindrici o anfore trasportabili).
Ora il concetto di un alveare virtualmente immortale non può che apparire intrigante, soprattutto senza doversi dotare preventivamente di un costoso e sofisticato set Langstroth, del tipo convenzionalmente associato a questa categoria d’utopie. Soprattutto quando si prende nota dei numerosi vantaggi ed accorgimenti elencati dall’autore: un’inerente semplicità nel sorvegliare attraverso l’involucro trasparente le api, la naturale discesa verso il basso della condensa ed eventuale muffa, fattori comunque presenti negli alveari a sviluppo verticale costruiti naturalmente all’interno del cavo degli alberi. Per non parlare del modo in cui la realizzazione di una quantità variabile di prese d’aria, ciascuna rigorosamente sigillata mediante l’impiego di un tappo traforato ad hoc, possa contrastare il problema pratico della ventilazione in maniera assolutamente funzionale. Il che non può prescindere, d’altra parte, dalla lunga serie di obiezioni già mosse dai puristi di questo settore, sulla configurazione troppo lontana dall’ortodossia e per questo, idealmente, profondamente lesiva alla salute e serenità delle proprie involontarie occupanti. Tra i problemi più significativi, dunque, la presunta impossibilità d’utilizzare il sistema in luoghi dal clima caldo (benché Egorov sembri aver impiegato con successo in estate un lenzuolo d’isolamento termico in carta riflettente) nonché il possibile rilascio di sostanze nocive da parte della plastica PET della bottiglia, per l’effetto dei raggi solari o comunque un impiego tanto distante da quello per cui era stata progettata. Va inoltre tenuta in considerazione l’impossibilità di prelevare campioni di miele o larve in corso d’opera, un passaggio in teoria necessario per contrastare l’insorgere di varie malattie nell’alveare, potenzialmente trasmesse anche a quelli dei propri immediati vicini. Il che, nei fatti, renderebbe formalmente illegale questo approccio secondo la legislazione statunitense e quella di diversi altri paesi. Non che la sua particolare modalità d’implementazione lo renda particolarmente soggetto ad ispezioni di tipo governativo, soprattutto considerata la quantità di miele non propriamente ingente che può fuoriuscire da una di queste bottiglie…

Questa ipotetica applicazione statunitense del progetto di Advoko mostra un significativo vantaggio, nell’impiego di una sorta di armadietto chiudibile piuttosto che l’imbullonamento al tronco incolpevole degli alberi. Il che inficia, almeno in parte, la qualità “guerrigliera” dell’idea russa, così presentata anche al fine di sfuggire al controllo possibile delle autorità.

L’idea di Egorov è quindi notevole, proprio perché nasce da un capovolgimento del paradigma di partenza. Chi ha detto che le api debbano per forza essere ospitate in un certo modo, cristallizzato invariabilmente all’interno della letteratura? Benché alcuni dei presupposti siano discutibili, come l’idea che l’apicoltura autogestita debba essere alla portata di tutti, nell’interesse di combattere l’impiego dei pesticidi utilizzati contro il parassita Varroa destructor, in realtà approvati e testati con successo per la mancanza di effetti ai danni degli umani. Mentre noi non dovremmo preoccuparci, a quanto pare, delle emanazioni chimiche della plastica dovute all’impiego di materiali non conformi. Degna di suscitare più di qualche dubbio anche l’idea che tutto ciò debba essere “facile”, “accessibile” persino “alla portata di tutti” costituendo una via d’accesso al miele tale da comportare la minor quantità di lavoro possibile. Il che è contrario al credo di qualsiasi vero apicoltore, che crede nella collaborazione tra uomo ed ape, volendo ricompensare l’opera degli insetti tutelando e favorendo il loro sviluppo il più possibile privo d’incidenti. Ma questa è forse una declinazione inevitabile dell’approccio moderno ad ogni circostanza apiaria, come anche esemplificato dal successo dell’alveare “automatico” con rubinetto della Flow, capace di estrarre il miele grazie alle celle apribili, senza nessun tipo di contatto diretto tra insetti ed uomo. In un mondo in cui ciascuno si trova ad assolvere al ruolo determinato da altri, non importa quale possa essere la propria discendenza evolutiva; ed è in questo, almeno idealmente, che dovrebbe tornarci utile la creatività. Il che non significa, d’altronde, che debba essere altrettanto benefica nei confronti delle api.

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