L’arco musicale con bottiglia usato per accendere la torcia del rock & roll

A volte l’innovazione nasce da dinamiche sociali inevitabili, attraverso la marcia inarrestabile del progresso umano. Certe altre, si costituisce il geniale lascito dei singoli, più volte riscoperto, finché un qualcosa di utile diventa placida visione del nostro quotidiano. Kwaku ed Awasi, di rispettivamente 9 e 11 anni, avevano finalmente ultimato lo strumento che avrebbe trasformato il pomeriggio della loro intera generazione presso il villaggio del fiume Oti. L’oggetto era in parti eguali un’applicazione della cultura tradizionale del loro popolo e l’impiego di oggettistica straniera, seguendo l’onda di un sincretismo che soltanto i bambini avrebbero potuto cavalcare: un’asse di legno, appoggiata sul terreno, con due chiodi piantati in corrispondenza delle estremità e al centro una bottiglia di vetro, al posto della zucca un tempo usata dai popoli del Ghana. Loro non potevano sapere, in quel momento, l’importanza di quanto avevano creato, le complesse ramificazioni che avrebbero germogliato a partire da quello che avrebbe dovuto essere, in buona sostanza, un semplice giocattolo sonoro. Così Kwaku, seduto da un lato, percuoteva il cordino teso tra i chiodi, mentre Awasi si occupava di bloccarlo con la lama di un coltello, a diversi punti della sua lunghezza, ottenendo variazioni di frequenza e quindi un differente suono. Mentre uno dei loro amici e compagni di giochi, usando la musica come suggerimento, andava in cerca del premio precedentemente nascosto, un ramoscello con dolci frutti del sisibi. E il gioco avrebbe continuato, giorno dopo giorno, senza il minimo pensiero al mondo. Almeno finché le navi dei mercanti non fossero arrivate dalla terra al di là del mare. Per comprare quanto non avrebbe dovuto avere un prezzo, ovvero la vita stessa delle persone…
Saliente spunto d’interpretazione in merito allo schiavismo delle piantagioni nordamericane, tra il XVIII e il XIX secolo, resta la maniera in cui mentre l’uomo bianco sfruttava la sofferenza dei suoi fratelli e sorelle africane, la stessa cultura cosiddetta “superiore” veniva influenzata in maniera profonda dalle conoscenze e l’arte proveniente dall’altro capo dell’oceano. Non con gli scritti, la filosofia o le opere tangibili di gente cui era stato tolto il diritto ad esprimersi e ricevere un’educazione, bensì tramite quella particolare forma d’arte che per sua natura non può essere fermata o imprigionata. A meno di bloccare i timpani usando i palmi delle proprie mani. E la musica crebbe, trovando terreno ancor più fertile di quello usato nella piantagioni, mentre i metodi creati all’altro capo del pianeta venivano alterati per integrare i gusti, l’esperienza e i sentimenti che potevano venire solo da svariati secoli di schiavitù. Perché creare un’armonia mediante vibrazioni non richiede, per sua implicita natura, l’opera complessa di un liutaio o altro costruttore di strumenti, armato dei migliori attrezzi e materiali, potendo accontentarsi in certi casi del bisogno, l’intraprendenza e il desiderio. Presenti in quantità senz’altro ingente nell’idea fondamentale alla base di questo strumento, il cui nome archetipico in slang statunitense risulta essere diddley bow. Benché un etnomusicologo particolarmente puntiglioso potrebbe preferirgli la definizione di “cetra monocorde fatta-in-casa”, magari creata seguendo i semplici passaggi famosamente mostrati dal chitarrista Jack White all’inizio del film documentario It Might Get Loud, spiegati anche per il pubblico di Internet dal qui mostrato Edward Phillips, musicista ed inventore di YouTube. La perfetta riduzione di quello che dovrebbe essere la creatività musicale, in assenza di preconcetti ereditati o cognizioni frutto di un lungo processo d’apprendimento formale…

L’arco musicale, come concetto, ha radici profonde nella cultura di molti popoli africani, che usavano tale strumento durante le proprie danze e celebrazioni, oppure come ausilio al racconto delle antiche storie. Tradizionalmente, la cassa di risonanza per l’apparato veniva ricavata da un frutto cavo o doveva essere direttamente la bocca semi-aperta del suonatore.

Il diddley bow dunque, che potrebbe o meno avere una relazione onomastica con l’importante musicista blues americano Bo Diddley (al secolo Ellas Otha Bates) è riportato aver fatto la sua comparsa nel meridione degli Stati Uniti attorno agli anni ’30 dello scorso secolo, quando per la prima volta venne formalmente registrata la sua esistenza lungo le rive del Mississipi e in quella sublime matassa di misticismo e misteri in cui aveva finito per trasformarsi la grande città di New Orleans. Assai probabilmente, tuttavia, era sempre esistito, come oggetto di poco conto usato dai musicisti principianti o bambini, che ne facevano un semplice passatempo per divertirsi in comunità. Per comprendere l’origine del suo nome, un diretto riferimento alla principale arma a distanza dell’antichità tecnologica, occorrerà conseguentemente ridurlo ai minimi termini di una corda tesa tra due estremi, originariamente costituiti dall’intaglio di un ramo ricurvo, indubbiamente affine allo strumento di caccia usato dai popoli dell’Africa occidentale. Finché venendo a contatto con la forma del più rappresentativo recipiente in vetro frutto dell’epoca industriale, ai suoi costruttori non venne collettivamente in mente d’impiegare la bottiglia con la doppia funzione di cassa di risonanza e ponte sotto una corda metallica generalmente prelevata da una vecchia scopa, giungendo all’idea che avrebbe costituito il fondamento essenziale di un così semplice apparato. A quanto viene riportato, tuttavia, i primi diddley bow americani erano sensibilmente più grandi, sfruttando come base d’appoggio le pareti stesse delle case o baracche usate per custodire gli schiavi. Nonostante le condizioni spesso assai spiacevoli della loro esistenza, tuttavia, spesso tali forme d’intrattenimento venivano lasciate correre, poiché giudicate utili a mantenere alto il morale. Oppure, chi può dirlo, si trattava di un’imprescindibile dimostrazione di rispetto verso chi nonostante tutto, continuava a portare la bellezza nel mondo.
Con la tardiva liberazione degli schiavi ad opera di Abraham Lincoln nel 1863 e la successiva implementazione del 13° emendamento, la versione per così dire urbana dell’antico arco musicale iniziò progressivamente ad essere rimpiazzata da apparati maggiormente sofisticati, come la cigar box guitar (chitarra ricavata da una scatola di sigari – vedi precedente articolo) o creazioni realizzate ad hoc, benché i cordofoni continuassero a costituire la principale risorsa dei primi musicisti del blues e la sua successiva evoluzione, il jazz, causa l’immediatezza nel trasporto e relativa economia di costruzione. Mentre le note scaturite da quell’epoca oscura venivano gradualmente sostituite da armonie più spensierate ed accessibili, quindi, una diversa cultura priva di confini formali nacque dall’incontro tra mondi in apparenza inconciliabili, mentre i musicisti “bianchi” incorporavano, rendendo in questo modo omaggio, i ritmi primordiali scaturiti dal diddley bow. Importanti, in questa fase, furono figure monumentali come quella del già citato Bo Diddley, probabile ispiratore diretto di Elvis Presley, ma anche cantòri dalla fama lievemente meno estesa quali Lonnie Pitchford (1955 – 1998) autore originario di Lexington destinato a restare tanto legato a questo semplice strumento da chiedere che ne fosse incorporata una versione, pienamente funzionante, sulla lapide della sua tomba, lungo le rive del fecondo Mississipi. In epoca più recente, dal lato caucasico della faccenda, merita senz’altro di essere citato il musicista country, blues e folk Seasick Steve, il cui impiego di strumenti fai-da-te è diventato una parte importante del suo iter creativo, come esemplificato da una lunga e brillante carriera con molti concerti e dischi venduti all’attivo. E un futuro, indubbiamente, destinato a perpetuare una simile sinfonia…

In questa famosa registrazione del folklorista Cheryl Johnson, Lonnie Pritchford mostra quanto possa essere realizzato mediante l’impiego di una singola corda. Chi ha detto che ritmo e intonazione possono venire solamente da costosi e complessi attrezzi?

Il fatto che la musica sia una delle forme d’arte più raffinate e stratificate della cultura umana è un fatto largamente acquisito dal senso comune. Mentre paradossalmente, sono in molti a dimenticare come tutto questo possa essere ridotto, senza alcuna perdita di contenuti, al concetto di un puro e semplice divertimento. Il gioco da bambini, di un qualcosa messo assieme alla bene e meglio, ricorrendo le ali di quel drago che è il più naturale, e al tempo stesso irrinunciabile, dei sentimenti.
Da tale punto di vista, la costruzione autogestita di un diddley bow diventa ben più che un semplice progetto per passare un lungo pomeriggio estivo. Ricordatevi soltanto, doveste scegliere d’intraprendere una tale strada, che tale proposito comporta la tensione a livelli estremi di un filo dalla provenienza non propriamente chiara. Il giusto grado di prudenza è consigliabile; come del resto avviene ogni qualvolta si maneggiano chiodi e martello, vedi la sfortuna di Edward Phillips, che si schiaccia generosamente il dito nel corso del tutorial. Perché non debba capitare a noi.

Versione sovradimensionata del diddley bow può essere individuata nel washbowl bass, sostanzialmente nient’altro che un palo con la corda piantato sul fondo di una ciotola rovesciata, altrettanto importante nelle prime, rudimentali orchestre del blues.

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