La storia dei ventuno elefanti che misero alla prova il principale ponte statunitense

Uno stress test costituisce, nell’ingegneria moderna, l’importante passaggio mediante il quale i risultati di un progetto vengono messi alla prova, nel peggior scenario immaginabile tra quelli che potrebbero verificarsi nel corso dei lunghi anni successivi d’impiego. Qualche volta, tale iniziativa viene messa in pratica più volte attraverso l’esecuzione dei lavori, al fine di essere sicuri di ciascun passaggio. Altre volte, ne viene previsto uno al termine, come precauzione ulteriore rispetto alla certezza di aver fatto un ottimo lavoro. E poi ci sono i casi in cui l’intera opera infrastrutturale è tanto solida e assolutamente resistente, da non richiedere alcun tipo di verifica nell’idea di chi ha portato a termine le operazioni, né quella dei committenti. Per cui manifestare pubblicamente la propria incertezza può essere soltanto controproducente, per la reputazione e le iniziative future di ogni parte coinvolta. Ma la mente umana, si sa, segue dei sentieri spesso imprevedibili e non è sempre possibile attribuire un’etichetta al corso degli eventi. Tanto che può essere del tutto lecito, aspettarsi l’inaspettato ed operare sulla base delle sue conseguenze: era il 24 maggio del 1883, quando due sindaci s’incontrarono al centro esatto della surreale striscia di cemento, situata 84 metri sopra le acque agitate dell’Hudson River. A nord-ovest c’era il primo cittadino della grande New York, polo nevralgico dell’economia e l’industria, faro nascente di un diverso, e più possente tipo d’America dei tempi odierni. Ed a sud-est quello di Brooklyn, all’epoca comune indipendente, non ancora inglobato all’interno di quella che sarebbe diventata celebre come la Grande Mela. E neanche un verme, presente all’appello! I due uomini, con fare drammatico e formale, si strinsero la mano, quindi presero a percorrere i chilometro ciascuno che li separava dalle proprie rispettive comunità di appartenenza. Fuochi d’artificio illuminarono l’evento, tra il giubilo e il tripudio di un’intero popolo in festa. L’atmosfera, sulle rive del fiume che non era un fiume (ma piuttosto… Una baia?) appariva di festa e celebrazione per il completamento di una delle più incredibili creazioni nella storia degli Stati Uniti e dell’uomo. Nessuna struttura nell’intera città risultava essere più alta delle torri del ponte di Brooklyn, fatta eccezione per la guglia della Chiesa della Trinità, nel pieno distretto finanziario di Manhattan. E forse anche per questo, era stato deciso che tali sovrastrutture adottassero un comparabile stile neogotico, che le avrebbero rese delle vere e proprie icone del primo secolo post-industrialista, costruite dalla famosa coppia d’ingegneri padre-figlio Washington e John A. Roebling, il primo immigrato tedesco deceduto in seguito ad un infortunio, ed il secondo ex-ufficiale della guerra civile poi sostituito dalla moglie Emily come capo-cantiere, dopo aver riportato i sintomi della malattia da decompressione per la discesa ripetuta nei cassoni a tenuta stagna utilizzati nella costruzione del ponte.
Quello che le separava nettamente dalla struttura ecclesiastica sopra citata, tuttavia, era il doversi conquistare faticosamente la fondamentale fede della gente. Un processo complicato e che avrebbe finito per costare, drammaticamente, la vita di ulteriori 12 persone, oltre alle 27 che si erano sacrificate nel corso della sua costruzione. Erano trascorsi soltanto sei giorni dal lieto evento d’inaugurazione, quando una donna finì malauguratamente per inciampare in uno scalino che si trovava ai margini della corsia pedonale verso il centro della piattaforma. Un’altra dei presenti, rimasta sorpresa, gridò improvvisamente, causando un allarme a catena in quel pomeriggio particolarmente affollato da utilizzatori e curiosi. E fu così che tra la gente, senza alcuna soluzione di continuità, iniziò a diffondersi al voce che il più ambizioso ponte sospeso della storia stesse per crollare, come in molti avevano per l’appunto previsto. Comprensibilmente scoppiò il panico tra i proto-newyorchesi, mentre tutti iniziavano a correre in ogni direzione, premendo i propri simili contro il parapetto, i piloni, le strutture di sostegno. Fu un letterale massacro, dovuto al sospetto fondamentalmente diffuso che realizzare l’impossibile non fosse, dopo tutto, possibile, e che il disastro si trovasse sempre dietro l’angolo, per chiunque avesse preso l’iniziativa di sfidare la natura.
E qui, in molti altri momenti storici, la questione sarebbe stata presto accantonata, come un evento storico del tutto inevitabile, che tutti avrebbero tentato per quanto possibile di dimenticare. Se non che a quell’epoca, ancor più di quelle successive, gli Stati Uniti rappresentavano la terra delle opportunità e le iniziative imprenditoriali più notevoli ed innovative. Come la notevole creazione di Phineas Taylor Barnum, al secolo P.T, il più celebre e facoltoso amministratore circense nella storia contemporanea di quel mondo. Il quale, leggendo la notizia sui giornali, scelse di fare la proverbiale offerta che non poteva essere rifiutata al NYCDOT (N.Y. Department of Transportation). Un sistema che potesse far disperdere istantaneamente ogni dubbio residuo nella mente e i cuori della gente, fugando il rischio di futuri incidenti simili durante l’utilizzo della grande opera dei Roebling mentre forniva ulteriore visibilità alla sua attività principale: l’organizzazione, ed esecuzione di una maestosa sfilata di pachidermi e altri animali. L’alfa e l’omega, di una delle storie più incredibili della città di New York…

Il ponte di Brooklyn rappresentò all’epoca un vero miracolo della tecnica applicata alla soluzione di un problema pratico: fare a meno di tutto quello che costituiva, normalmente, le sicurezze e ridondanze di una simile creazione infrastrutturale. Qualche dubbio di chi ebbe modo di vederlo completato, a conti fatti, può essere compreso persino ad oltre un secolo di distanza.

L’idea era in effetti alquanto scaltra, come molte delle altre provenienti da questo personaggio spesso discusso, il primo impresario circense a possedere e utilizzare per spostarsi un treno di sua esclusiva proprietà. Poiché vigeva l’idea diffusa che gli elefanti, creature notoriamente dotate di una notevole prudenza, fossero istintivamente in grado di percepire vibrazioni irregolari nel terreno sopra cui appoggiavano le loro imponenti zampe. Così che, mai e poi mai avrebbero potuto attraversare un ponte instabile, mettendo a rischio la sopravvivenza futura del branco. Aggiungete a questo l’immagine chiaramente rassicurante, di un peso tanto significativo accompagnato con successo da un lato all’altro della baia, per aver chiara l’immagine capace di annullare qualsivoglia dubbio residuo sulla solidità del nuovo ponte. Ci volle, tuttavia, un intero anno perché fosse possibile organizzare l’evento, fino al 17 maggio del 1884. Quando innanzi ad una folla di newyorchesi increduli, forse la maggiore da quando l’attraversamento era stato inaugurato, assistette con i propri occhi all’incredibile contingenza della lunga fila di animali sovradimensionati che salivano le alte rampe d’accesso per permettere il passaggio delle navi sottostanti, seguiti da un ulteriore stuolo di 7 cammelli e 10 dromedari, nonché l’imprescindibile seguito di acrobati, trampolieri e clown. Alla testa della processione, niente meno che Jumbo in persona, senza dubbio il più famoso elefante africano (Loxodonta a.) nella storia d’America, che P.T. Barnum era riuscito a comprare dallo zoo di Londra tra le proteste degli abitanti all’altro lato dell’Atlantico, nonché una petizione dei bambini accolta (troppo tardi) dalla regina Vittoria in persona. Così che la bestia particolarmente ponderosa vista l’altezza di 3,23 metri, comprata a un prezzo esorbitante nonostante i suoi ben noti furori notturni dovuti al mal di denti, era stata trasportata per nave fino alle coste statunitensi, finendo per diventare in breve tempo una delle star di quello che si auto-definiva “Il più grande spettacolo della Terra”. Ma Jumbo, nell’immaginario pubblico, diventò ben presto molto più di questo, finendo per ricevere una celebrità e visibilità spropositate, anche dato il ruolo niente meno che primario riservatogli sui volantini, manifesti e il merchandising a lui dedicato che accompagnava ogni esposizione del grande tendone di Barnum.
Non è incredibile, più di ogni altra cosa, che nessuno abbia pensato all’epoca di scattare una fotografia? Accorgimento non poi tanto semplice, con la tecnologia di allora. Così la gente vide con i propri occhi e i giornali riportarono la notizia, mentre gli ultimi dubbi residui svanivano con la rapidità di neve al sole… Se pure fossero ancora esistiti. Il ponte di Brooklyn, all’epoca suddiviso in corsia centrale pedonale, affiancata da due passaggi per il tram cittadino e un’ulteriore paio situato all’esterno e dedicato alle carrozze con traino animale, si era infatti già dimostrato un’importante arteria nevralgica per l’organizzazione logistica della crescente megalopoli. Diversamente da quanto avviene al giorno d’oggi, inoltre, esso era stato costruito senza badare assolutamente alle spese, con un grado di ridondanza che doveva risultare pari a otto volte la capacità di carico richiesta nel progetto di partenza (successivamente ridotta a quattro volte superiore causa l’impiego di cavi meno resistenti del previsto). Con il risultato di poter giungere a sostenere, idealmente, fino 18.700 tonnellate, pari a un gran totale 2.500 elefanti. Ma un conto, si sa, è riuscire dominare le distese irraggiungibili della teoria privata di apparenze situazionali. Tutt’altra storia poter mostrare l’effettivo funzionamento di un qualcosa a tutti coloro che insistevano a dubitare dei migliori presupposti ed intenzioni di partenza.

In una curiosa iniziativa artistica, lo scultore Joe Reginella ha creato nel 2017 una scultura commemorativa della “Grande mandria in fuga degli elefanti” che nel 29 Ottobre del 1929 avrebbe causato molte vittime giungendo a costituire “il più grande disastro coinvolgente mammiferi nella storia americana”. Un astuto riferimento, in realtà, al famoso martedì nero cui fece seguito il crollo delle borse finanziarie newyorchesi.

L’idea che il ponte e gli elefanti siano strettamente interconnessi ad un livello imprescindibile sarebbe rimasta, dunque, nell’immaginario collettivo, come più recentemente esemplificato dal famoso libro per bambini Twenty-One Elephants and Still Standing (21 elefanti e resiste ancora) di April Jones Prince, in cui il famoso aneddoto viene raccontato in termini paragonabili alla celebre storia di Dumbo, l’elefantino disneyano che secondo molti, avrebbe potuto rappresentare il figlio dello storico e quasi omonimo pachiderma di P.T. Barnum. La cui storia personale dopo il punto più alto mai raggiunto, anche letteralmente, al centro di una delle più importanti infrastrutture di tutta l’America, avrebbe avuto un epilogo anch’esso tragico e imprevedibilmente privo di gloria. Quando il 15 settembre del 1885, mentre si trovava in Canada col suo circo, fu travolto a tarda sera da un treno che manovrava in stazione. Secondo alcuni testimoni, mentre si gettava eroicamente innanzi, per salvare un suo simile che stava per fare la stessa fine! Superato assai presto il lutto per la perdita, il suo geniale padrone si affrettò perciò a farlo impagliare, donando parti del suo corpo a varie istituzioni ed università americane. Lunghi articoli vennero scritti sul contenuto dello stomaco del pachiderma, in cui vennero trovate tra le altre cose bulloni, monetine ed un fischietto della polizia. E nessuno avrebbe mai potuto dire, neppure in quel frangente, che il vecchio P.T. si era lasciato scappare un’occasione di acquisire ulteriore visibilità e potenziali vantaggi futuri. Perché forse proprio questo, in ultima analisi, era il piglio inevitabile del sogno americano. A patto di essere umani, ovvero rigorosamente privi di zanne e di proboscide. O in qualsivoglia modo alternativo disallineati, dal grande corso della monolitica e cosiddetta collettività civile.

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