Ciak, geco, azione: schegge fluorescenti sulle scure sabbie del Namib

Poche cose, nello stile di vita del videogiocatore su PC moderno, mantengono un valore più importante dell’illuminazione a LED degli accessori e i componenti del suo sistema. Bagliori variopinti, concordati tra tastiera, mouse e scheda video, per non parlare delle ventole e della memoria RAM. Mentre nei casi più estremi, strisce adesive di propagano sui muri e sulla scrivania, circondano gli spazi dedicati ad una simile attività. Nella più totale noncuranza del dispendio energetico ulteriore, considerata l’assoluta inutilità di una simile scenografia cangiante. Il che potrebbe configurarsi come l’esatto opposto del principio di natura, dove ogni azione dovrebbe nascere da un effettivo bisogno, ciascuna soluzione corrispondere a un problema. Se non fosse per la recente serie di scoperte relative alla capacità di riflettere la luce ultravioletta da parte di specie animali vertebrate, tra cui l’ornitorinco ed il wombat, senza che gli etologi riescano a trovare alcuna corrispondenza comportamentale nei diretti interessati. Creature catarifrangenti, nell’opinione di alcuni, unicamente per l’acquisizione di particolari proteine o altre sostanze nutritive, come effetto della loro dieta per lo più vegetariana. Persone come il Dr Mark D. Scherz dell’Istituto Zoologico di Monaco, soprattutto successivamente alla sua recente scoperta dell’innato e tenue lucore emesso dalla cresta dei camaleonti Calumma del Madagascar, grazie alla trasparenza della pelle in un preciso punto situato sopra la loro fronte. Ma le ossa degli esseri viventi, per loro natura, possiedono un innata tendenza a quel fenomeno, in maniera completamente all’opposto del soggetto unico della sua ultima ricerca. Il cui titolo programmatico, da cui l’articolo pubblicato lo scorso gennaio sulla rivista Scientific Reports assieme ai colleghi David Prötzel, Martin Heß, Martina Schwager e Frank Glaw, permette d’identificare facilmente come il geco dai piedi palmati Pachydactylus rangeim originario di uno dei luoghi più climaticamente inospitali della Terra: le coste, presso l’Africa Meridionale, del vasto ed arido deserto del Namib. Poiché c’è fluorescenza e vera Fluorescenza, intesa come imitazione pallida della classica luce dell’astro solare, ma pur sempre visibile da lunghe distanze nelle notturne tenebre di questo mondo. E la piccola creatura non più lunga di 13 cm, appariscente lo è senz’altro, al punto da portare a chiedersi come nessuno potesse aver notato la faccenda fino a quel particolare momento della storia scientifica recente: con un suo cerchio verde attorno agli occhi sporgenti, e una linea della stessa tonalità lungo il fianco del suo sinuoso corpo. Mentre il ventre e zone limitrofe risplendono di un più lieve blu intenso (430 vs 516 nm) non altrettanto evidente ma senz’altro significativo. Questo perché l’evoluzione sembrerebbe essersi affidata, per questo animale, ad un notevole “trucco” della fisica fotonica, potenziando la resa quantica della luce sul dorso del geco grazie a un riflesso indiretto delle controparti. Al punto da costituire quello che potremmo definire, con un solo possibile rivale (la Boana punctata) il singolo vertebrato non acquatico maggiormente luminoso di questa Terra. Perciò può dirsi realmente possibile, di fronte ad una tale presa di coscienza, continuare a credere di trovarsi innanzi ad una mera coincidenza di fattori, piuttosto che un tratto genetico fissato da effettive necessità del nostro piccolo amico? In merito a questo, lo studio scientifico rimanda formalmente l’analisi a future ricerche più approfondite. Il che non ha impedito ai suoi autori, d’altra parte, di stilare alcune ipotesi probabili sulla base della mera e semplice inferenza…

Il geco del Namib ha molti nemici nel suo ambiente naturale, ragion per cui preferisce normalmente muoversi nelle ore notturne. Ciononostante, le eccezioni alla regola possono capitare ed assieme ad esse, le opportunità per varie tipologie d’eventi nefasti.

Il Pachydactylus rangei o geco delle sabbie del Namib costituisce quindi un tipico rappresentante della sua famiglia, già noto dal 1908 ad opera della descrizione del zoologo Lars Gabriel Andersson ed il suo primo catturatore, il geologo Paul Range. Creatura per lo più notturna, diffusa a fino 130 Km di distanza e 300 metri d’altitudine dalle coste del suo areale, costituisce a tutti gli effetti un predatore piuttosto efficiente, principalmente di grilli, vermi, larve di coleotteri ed altri insetti che riesce a trovare durante i suoi estesi ed attenti pattugliamenti. Sua caratteristica maggiormente degna di nota, al punto da trovare un posto nel nome scientifico, è il possesso di piedi palmati utili a correre agilmente senza sprofondare sulla fine sabbia del deserto, ma anche smuoverla con gran facilità ogni qualvolta si ritrova interessato a scavare, per nascondersi o proteggersi dal sole spietato dell’emisfero meridionale. Creatura quasi del tutto identica tra esemplari maschili e femminili, fatta eccezione per la coda leggermente più spessa nel caso dei primi, il geco è solito entrare nella sua stagione riproduttiva tra i mesi di aprile e maggio, mordendo la femmina ed intrappolandola, fino all’avvenuto trasferimento dei geni. Da cui scaturiranno due, o più raramente un singolo uovo, deposti in un sostrato umido di circa 30 gradi di temperatura, dove raggiungeranno l’ora della schiusa attorno all’ottava settimana, tra luglio ed ottobre. Specie per lo più solitaria il P. rangei risulta essere perciò anche marcatamente territoriale, rendendo potenzialmente difficile la gestione di esemplari in cattività, benché si tratti di creature piuttosto adattabili e resistenti anche fuori dal proprio ambiente naturale. Il loro senso principale, come spesso avviene per questa tipologia di rettili, è la vista molto sviluppata grazie ai grandi occhi dalle pupille verticali, privi di palpebre ma dotati di una scaglia trasparente protettiva chiamata “occhiale”, che necessita di essere pulita periodicamente grazie all’uso della lunga lingua del loro proprietario. Il che rientra perfettamente nell’interpretazione di Scherz e colleghi, secondo cui l’innata fluorescenza del geco potrebbe avere una funzione biologica estremamente precisa. Meccanismo luminoso, tra l’altro, prodotto tramite un approccio ancora non del tutto chiaro, concentrato in corrispondenza di particolari tratti di pelle caratterizzati dalla presenza di iridofori, cellule cromatiche normalmente usate come pigmentazione da parecchie tipologie d’animali. Ma ricchi, in questo caso specifico, di una certa quantità di guanina, uno dei nucleotidi del DNA ed RNA normalmente non fluorescente, il che si trova diametralmente all’opposto di quanto è stato osservato mediante l’impiego di una pratica lampada a ultravioletti, non dissimile dal tipo di luce prodotta nelle ore notturne dalla luna del nostro pianeta. Ciò che appare assolutamente programmatico ad ogni modo, almeno nel caso di questo piccolo dinosauro del deserto, è la collocazione laterale delle sue zone maggiormente luminose, favorendone al massimo la visibilità da parte dei propri stessi simili, mentre molto più difficile risulta essere l’eventuale identificazione dall’alto di possibili predatori, come l’alto sciacallo o il volante gufo notturno. Ma perché correre, allora, questo rischio? Gli studiosi hanno elaborato, come dicevamo, almeno un paio d’ipotesi, entrambe relative alla necessità dei gechi di trovarsi l’un l’altro durante le proprie peregrinazioni notturne. Forse per favorire la facilità nell’accoppiamento, piuttosto che una ragione assai più particolare ed inaspettata: pregresse osservazioni di questi animali hanno infatti rilevato l’abitudine assai caratteristica di acquisire preziosa umidità dalla condensazione sul corpo dei propri simili, provvedendo a leccarsi a vicenda quando si trovano l’uno di fronte all’altro per “caso”. Almeno che sia stato il mirabile lucore della speranza, a guidarli…

Il geco alle prese con ciò che gli riesce meglio può essere in effetti una creatura piuttosto terrificante. Se sei una larva o un verme del deserto. Per fortuna, la sua bocca è troppo piccola per riuscire a mordere anche soltanto un singolo dito umano.

Lucentezza fa bellezza, d’altra parte, e la bellezza è sempre stata un sinonimo di opportunità e potere. Come nella logica surrealista utilizzata in qualità di atipica connotazione magica negli Orki del franchise e gioco da tavolo Warhammer 40k, per cui il rosso corrisponde a velocità, il giallo aggiunge potenza di fuoco, il nero resistenza, il blu fortuna e così via a seguire… In una chiara perversione dei princìpi naturali, data l’assenza di una concatenazione logica tra causa ed effetto. Che tuttavia trova conferma nella parte più istintiva della mente umana, ispirandosi forse a particolari pratiche stregonesche o divinatorie dei tempi antichi, come la cristallomanzia. E non è per nulla insolito, in campo informatico, scherzare in merito ai presunti effetti delle diverse tonalità delle proprie luci al LED, identificando come la più desiderabile quella di colore verde, presumibilmente utile a ridurre i consumi e la temperatura dei propri componenti dalle prestazioni maggiori. Perché alla fine, come afferma il codice galattico ed anglofono di quelle ostili creature guerrafondaie, GREEN IZ DA BEST! (Poiché tutti gli Orki sono verdi, e cattivi). Ma che proprio una lucertola, tra le bollenti sabbie del Namib, s’illumini di quel particolare colore d’efficientamento estremo, non può essere soltanto una coincidenza! Poco più che un mero scherzo del suo rettile Destino…

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