Un pescatore in tuta da sub si avventura tra i recessi di un’alta scogliera, andando in cerca del gustoso mitile dalla conchiglia nera. Una bracciata alla volta, un colpo di pinne dopo l’altro, la sua busta si riempie, in modo graduale, del tesoro dall’aspetto meno eccezionale degli abissi, che una volta cucinato non manca di provare le sue qualità gastronomiche di alto livello. Ma un conto, nell’analisi delle precise circostanze, può dirsi essere l’impresa di un singolo ed i suoi amici o parenti, finalizzate al consumo nell’occasione di una cena. Tutt’altra storia la raccolta intensiva, ad opera di quella vera e propria industria che, al giorno d’oggi, non può mancare di essere fondata sopra qualsiasi cosa. E intere regioni costiere, zone marittime dalla preziosa eredità biologica, sono state demolite alla ricerca del tributo beneamato, che lo stesso dio Nettuno viene costretto a pagare suo malgrado, in aggiunta ai danni già causati dall’inquinamento, la pesca a strascico, l’occasionale naufragio di una nave carica di… Così dove un tempo ce n’era uno, tendono a essere milioni. Il che non significa che le cose, se affrontate con la giusta chiave d’interpretazione, debbano per forza continuare a peggiorare. E lo strumento tecnologico, coadiuvato da una prassi frutto di complessi studi di fattibilità, non debba contribuire necessariamente al perpetrarsi di quel grande Male.
Il metodo per la coltivazione intensiva dei bivalvi dimostrato in questo video esplicativo del canale di approfondimento Eater non è in effetti particolarmente distintivo, ne del tutto esclusivo della Bangs Island Mussel Farm di Portland, Maine. Sebbene sia possibile affermare che la sua efficienza en masse, coadiuvata da condizioni ambientali proficue e grandi volumi di processazione, collaborino nel creare un risultato superiore alla somma delle singole parti costituenti. Mediante l’applicazione in ampia batteria di quel concetto che in Italia e in tutto il Mar Mediterraneo vanta la più vasta delle diffusioni, benché nessuno ricordi nei fatti chi sia stato il primo a metterlo in pratica con comprovato ritorno dell’investimento iniziale. Che non definirei, del resto, relativamente o necessariamente elevato: tutto inizia, d’altra parte, con la sospensione di un lungo filo. O per meglio dire corda, ma di un tipo particolarmente ruvido e dalla superficie ineguale, affinché i molluschi appartenenti a varie specie del genere Mytilis, ma negli Stati Uniti soprattutto i cosiddetti blue mussels of M. edulis, possano aggrapparvisi mediante l’utilizzo delle loro caratteristiche bisse o barbe, viticci facenti parte della dotazione evolutiva dell’animale. In natura utili a garantire il mantenimento di una posizione ragionevolmente protetta dai possibili predatori, ma che qui diventano lo strumento per restare sospesi in zone particolarmente nutrienti della colonna oceanica, permettendogli di crescere in maniera rapida e sicura. Ciò che colpisce fin da subito nella particolare interpretazione industriale qui proposta, tuttavia, è la copiosa quantità dei soggetti di una tale prassi. Ordinatamente messa in fila mediante l’utilizzo di quella che possiamo soltanto descrivere come una zattera sovradimensionata, composta dalle travi successive da cui pende il cupo raccolto dal rigido quanto frastagliato involucro protettivo. Previo mantenimento, s’intende, di uno stato ragionevolmente integro mediante l’impiego funzionale di una rete a tubo o “calza” esteriormente non dissimile da quella usata per il prosciutto o altri prodotti della terraferma, qui sentiero valido all’accesso di un diverso tipo di pietanza, (almeno) altrettanto beneamata.
Che le cozze siano un pasto per le occasioni particolari, da mangiare ogni tanto al ristorante o in cene con gli amici, costituisce d’altra parte una visione per lo più oggettiva. Laddove non c’è niente di maggiormente prolifico, rapido da processare e conseguentemente economico al momento dell’acquisto, di questi persistenti filtratori dell’acqua marina, auspicabilmente provenienti da una situazione ragionevolmente incontaminata e priva del gravoso peso dell’inquinamento. Il che risulta assai più facile da controllare, quando sono il frutto diretto di uno sforzo organizzativo creato per guadagnare…
La storia della cozza azzurra (di nome ma non di fatto) inizia quindi con lo stato larvale, alla misura infinitesimale di una frazione di millimetro, che intraprende il suo processo di maturazione ed aumento delle proporzioni sulla base della temperatura e lo stato salino dell’acqua. In questo modo le cozze dell’intero Nord-Ovest degli Stati Uniti, normalmente, possono essere tirate furi dalle vasche di coltivazione preventiva quando si raggiungono i 15-20 gradi circa di temperatura ambiente, coerentemente al periodo in cui cominciano a produrre la barba di posizionamento. Ed è allora che, mediante spedizioni attentamente pianificate, inizia la cosiddetta semina consistente nell’applicazione dei piccoli mitili sulla fune di sostegno, mentre coerentemente si effettua il raccolto maturato al termine del precedente periodo di preparazione. In assenza del quale, anche soltanto per un anno, l’intera filiera dell’industria dei mitili statunitensi dovrebbe essenzialmente ricominciare da capo! Segue in tal modo l’assicurazione di ciascun filo al pratico verricello di sollevamento fino al ponte della nave, dove ciascun gruppo comunitario di cozze verrà sottoposto ad attento scrutinio per determinare se siano davvero pronte alla processazione e successiva immissione sul mercato, sia locale che nazionale. Un passaggio particolarmente importante nel caso della Bangs Island Mussel, quando si considera come la loro comunicazione aziendale vanti di proporre un prodotto dalle dimensioni maggiorate rispetto alla media delle M. edulis, risultando in conseguenza di ciò un fornitore preferito da una grande fascia del relativo mercato di appartenenza. Ed è quindi questo il punto in cui Dan Geneen, il conduttore del programma inviato per narrarci l’importanza di un simile processo, d’accordo con il suo accompagnatore e guida tecnica di un simile frangente sceglie all’improvviso di tirarsi giù la mascherina, procedendo al consumo al crudo della cozza appena tirata fuori dal suo duro involucro di carbonato di calcio (operazione tutt’altro che facile, senza la preventiva cottura finalizzata a farla aprire). Una manovra che può essere considerata a seconda dei punti di vista da veri gourmand o imprudente per definizione, risultando effettivamente possibile soltanto grazie alla piena fiducia nei confronti dei metodi operativi di una così rinomata mussel farm. Terminato il processo di selezione inizia quindi quello del trasporto, mentre le cozze prelevate vengono inserite all’interno di appositi sacchi, per il successivo scaricamento dall’imbarcazione presso lo stabilimento dell’azienda nel porto dell’antistante e gremita cittadina sulla costa del Maine. Ed è palese come, considerati i significativi volumi prodotti dal metodo della coltivazione qui mostrata, si tratti di un lavoro estremamente complesso e dispendioso in termini di energia, benché valido a contribuire con una risorsa di prima classe al benessere dell’economia locale. Segue rimozione di almeno una parte della barba, saldamente annodata con le fibre della corda di sospensione, mediante l’impiego di un’apposita macchina di processazione, che fa passare le cozze tra una serie di spazzole agitate meccanicamente a tale scopo. Prima che i mitili nerastri, preventivamente controllati ancora una volta mediante l’utilizzo di un griglia dalle spaziature distanziate ad arte, vengano fatti salire fino all’impianto d’impacchettatura e confezionamento, per la successiva distribuzione nei supermercati e ristoranti. Ed è qui che il direttore dell’impresa Jon Gorman, operativo da oltre 15 anni nel settore presso la redditizia baia di Casco, racconta di quando agli inizi la sua impresa non disponesse di macchinari avanzati e un vero e proprio nastro trasportatore, richiedendo conseguentemente l’utilizzo di copioso olio di gomito e faticose vanghe, al fine di spostare le cozze da una postazione all’altra della loro preparazione finalizzata alla vendita immediatamente successiva. Ma è anche naturale che all’epoca, prima dell’invenzione del sistema della zattera di sospensione, gli stessi volumi soggetti a un simile procedimento fossero inerentemente minori e meno utili a colmare il fabbisogno delle tavole americane, che del resto preferivano favorire l’importazione di prodotti dalla provenienza estera, soprattutto canadese ed europea. Il primo studio per gli effetti ambientali della coltivazione intensiva di cozze in Nord America risale infatti soltanto al luglio del 2020, mediante l’opera di approfondimento compiuta da scienziati del Centro per la Pesca facente parte del Milford Laboratory nel Connecticut, lo stato geograficamente situato tra Boston e New York. Tale da determinare come, del deficit di 14 miliardi di dollari investito nell’importazione di cibo marittimo maturato annualmente dagli Stati Uniti, 102 milioni siano determinati dalle sole cozze, appartenenti ai tre pilastri delle varietà commerciali fresche, preparate o surgelate. Lasciando conseguentemente a Mizuta e Wikfors, autori dello studio, spazio per suggerire possibili passi da compiere al fine d’incrementare la resa dell’industria nazionale di settore, mediante l’adozione istituzionalizzata di un sistema sostenibile, non diverso da quello già messo in atto dalla Bangs Island. Purché non sia il progressivo mutamento dello stato dei fatti in essere, a metterci lo zampino.
Biologicamente propense all’accumulo chimico di tutto quello che le circonda, le cozze risultano infatti non soltanto soggette all’inquinamento ma in maniera meno diretta anche agli effetti più immediati del mutamento climatico. Secondo quanto chiarito anche nello studio del 2020, dove si parla degli effetti nefasti causati dal pregresso verificarsi di eventi HAB (proliferazione di alghe nocive) che si sono rivelati capaci di causare gravi danni agli allevamenti di tutta la costa nei pregressi anni 2006 e 2017 tra i periodi di aprile ed ottobre, proprio quelli in cui normalmente viene effettuata la raccolta dei mitili coltivati in allevamento. Senza nessuna garanzia, nei fatti, che qualcosa di simile possa verificarsi ancora e fin troppo presto, agendo come veicolo biotossico capace di compromettere significativamente l’utilizzabilità del prodotto finale. Ad ulteriore accrescimento, coerentemente a un tale pericolo, dell’utilità delle fattorie intensive, la cui opera può essere più facilmente sottoposta ad utili processi di scrutinio e controllo, prevenendo spiacevoli episodi di avvelenamento collettivo.
Perché forse il fascino dei mitili, sulle nostre tavole così come nelle aspettative di chi è solito farne una consumazione meno che occasionale, è da ricercarsi anche nel basso rischio percentuale, che nasce dall’approccio alla consumazione di esemplari che non si siano riusciti ad aprirsi adeguatamente durante la cottura. Lasciando intendere, secondo la sapienza popolare, di esser morti già da troppo tempo e riservare perciò conseguenze sgradevoli al proprio eventuale fagocitatore. Distratto si, ma anche estatico per l’occasione di poter avere un tale cibo raro nella propria dieta pressoché quotidiana. Un pregio in grado di discendere unicamente dall’ingegno dell’industria moderna. E le logiche operative dell’economia di scala.