Fu al confine inconoscibile tra il giorno e la notte, in un’epoca segnata sulle cronache dei Figli, che il sole diventò all’improvviso “malvagio”. Centinaia di migliaia di noi, persino milioni, recentemente fuoriusciti dal fatale bozzolo, e guidati dall’istinto del bruco-falena, che volavano sicuri verso l’alba, soltanto per andare incontro alla suprema purificazione dell’esistenza. Fuoco, fiamme ed una fine senza possibilità d’appello, pochi giorni prima che potessero sfruttare l’ombra di un enorme arbusto per nascondere le loro uova. Figli della giungla che dell’esser diventati volatili, non riuscirono mai a raccogliere i frutti. Andando incontro a quella magnifica fiamma, che chiamava insistentemente le loro ali. Dannazione dei lepidotteri; barbecue incostante; richiamo artificiale, nonché collaterale, anche per i nostri eterni nemici, gli uccelli. Poiché non c’è nulla che unisca le notturne specie contrapposte, quanto l’ansiosa ricerca della luce, anche a discapito dell’ultima scintilla di ragionevole sopravvivenza…
C’è molta devastazione nel meccanismo degli ecosistemi naturali, che deriva dalla pratica tristemente antropogenica del gas flaring o la bruciatura a cielo aperto di copiose quantità d’idrocarburi. Criticità particolarmente grave, ma se vogliamo al tempo stesso necessaria, nella prassi moderna e contemporanea della penetrazione a scopo estrattivo, che si espleta nella raccolta di petrolio e altri prodotti della decomposizione nascosti nelle più profonde viscere della Terra. Che contrariamente a una realtà ideale, non si presentano come una massa amorfa ed uniforme, ma in sacche sovrapposte dalla pressione largamente differente, il che tende a generare un’ampia serie di problemi di tanto in tanto. Particolarmente quando, all’estensione della colonna di trivellazione, lo spazio cavo all’interno di essa libera d’un tratto le sostanze accumulate durante l’opera, minacciando di sollevare dal suolo l’intero impianto tecnologico e tutti coloro che si trovano all’interno di esso. Ecco perché, come in ogni altro campo industriale, è previsto che simili installazioni vengano fornite di valvole di sfogo d’emergenza finalizzate alla liberazione delle quantità in eccesso, possibilmente nella maniera che viene considerata meno deleteria per il territorio ed il futuro dei nostri figli. In altri termini, bruciandola senz’alcun tipo di pregiudizio: un approccio che potrebbe sembrare contro-intuitivo, data l’enorme quantità di anidride carbonica liberata in conseguenza di un simile approccio nell’atmosfera terrestre, con conseguenze tutt’altro che inimmaginabili per il riscaldamento e l’effetto serra, benché ciò risulti del resto largamente migliore dell’ancor più grave alternativa. Per fare l’esempio a tal proposito del gas metano, il cui accumulo nel territorio porterebbe all’avvelenamento e successivo rischio d’incendio di quell’intera foresta che avevamo ricevuto il mandato implicito di preservare.
Ecco giungere in aiuto allora l’utile strumento, diventato popolare soprattutto nelle ultime due decadi, della cosiddetta flare boom o boma per analogia navale, evoluzione della stack o ciminiera, che piuttosto che produrre collateralmente una singola, gigantesca fiamma rivolta verso il cielo, divide il flusso degli idrocarburi in eccesso in un doppio arco a raggera, sopra e sotto, con l’accidentale effetto estetico di una decorazione post-apocalittica durante un concerto heavy-metal tenutosi sulle rive del fiume Flegetonte. Passaggio utile, nei fatti, a nebulizzare questo prodotto collaterale del processo, aumentando la rapidità d’emissione e riducendo al minimo i tempi per entrare in azione, ogni qualvolta si dovesse presentare una situazione di possibile pericolo incipiente. Un approccio convenzionalmente utile nei vascelli e le piattaforme petrolifere offshore, dove il rischio d’incendio a bordo risulterebbe particolarmente indesiderabile all’eventuale cambiamento del vento, ma che possiamo vedere perfettamente all’opera anche in questo ambito sperimentale russo, potenzialmente finalizzato a mettere alla prova il dispositivo o la bontà di un pozzo recentemente sottoposto a prospezione. Una visione a cui Lucifero in persona, chinerebbe in segno di rispetto il suo piccolo paio di corna caprine…

Il problema del gas flaring, con tutto il suo comparto d’imprescindibili conseguenze operative sulla natura e gli animali che la popolano, è che nessun tipo di legge o regolamento può rivelarsi efficace nel riuscire a limitarne la diffusione. Semplicemente perché l’ipotesi di un’industria estrattiva che dovesse tentare a tutti i costi di farne a meno risulta essere di gran lunga peggiore; esso è un processo inerente, e largamente inevitabile, del desiderio stesso di raggiungere il tesoro all’altro capo del profondo foro. Fin oltre gli strati superiori della crosta e nelle occulte profondità dove la stessa fiamma potenziale, da secoli lunghissimi, attendeva di essere risvegliata. Il tipico sistema posto al termine della valvola di sfogo si presenta quindi con uno o più serbatoi d’immagazzinamento, al fine di fornire un certo margine operativo, benché durante al procedere entro sacche d’alta pressione durante l’espletamento della trivellazione non ci voglia poi molto affinché riescano a riempirsi tutti nel giro di pochi minuti. Evento a seguito del quale, la sostanza combustibile mista all’acqua fangosa usata per far girare la testa di scavo viene ridirezionata entro un apposito recipiente di abbattimento, dove la maggior parte del contenuto gassoso, separato dai liquidi, viene inviato nella condotta o ciminiera per il processo flaring, a seconda dei casi. Apparato dotato, durante l’intero processo operativo, di una piccola fiamma pilota per ridurre ulteriormente i tempi d’intervento, con conseguente aumento esponenziale del livello di sicurezza operativa durante l’intero estendersi del progetto di scavo. Ora in un mondo ideale, tale preziosa sostanza dovrebbe essere incamerata o in qualche modo processata per l’utilizzo in ambito commerciale, riducendo progressivamente la quantità di anidride carbonica prodotta come conseguenza imprescindibile del fiore di fuoco. Ma tale via non risulta spesso praticabile, ed anzi porterebbe ad un’aumento significativo dei costi operativi, particolarmente durante le operazioni esplorative o in località prive dell’infrastruttura adeguata. Particolarmente noto, a questo proposito, risulta il caso nazionale della Nigeria, paese che possiede una fiorente industria del petrolio ma non ha ancora sviluppato, allo stato attuale delle cose, una metodologia locale per la processazione e successiva commercializzazione del gas naturale. E che poiché le due sostanze si trovano spesso all’interno dello stesso giacimento, risulta essere uno dei principali produttori di CO2 all’interno dell’intero contesto africano, contribuendo in maniera tutt’altro che trascurabile all’attuale processo entropico della nostra poco previdente generazione. Oltre a ciò va inoltre considerato come un processo di flaring condotto in maniera meno che perfetta (e la perfezione, si sa, risulta essere piuttosto rara) conduca spesso alla liberazione accidentale nell’atmosfera di almeno una parte delle sostanze contenute all’interno del giacimento. Il che tende ad avere conseguenze, per l’ambiente, ancor più significative e durature.
L’importanza di un’appropriata valvola di sfogo non può essere certamente sopravalutata. Anche visto l’esempio storico maggiormente grave e terrificante della sua impropria applicazione, che può esser fatto risalire al disastro di Bhopal in Madhya Pradesh, India, quando nel dicembre del 1984 un’impianto di pesticidi vide l’esplosione improvvisa dei suoi serbatoi di stoccaggio, causando il tragico avvelenamento e la conseguente morte di oltre 3.700 persone di un villaggio vicino, oltre a conseguenze anche durature per la salute di una quantità stimata attorno alle 500.000 persone. Una delle più tangibili ragioni per cui almeno una ciminiera fiammeggiante, per quanto lesiva nell’immediato dal punto di vista ambientalista e funzionale, viene oggi considerata necessaria nella maggior parte degli impianti che gestiscano un qualsivoglia tipo di sostanza volatile, ivi inclusa l’estrazione degli idrocarburi. Che poi un tale processo implichi la creazione di uno spettacolo sottilmente inquietante come quello della flare boom, è una mera conseguenza collaterale non del tutto invisa agli osservatori, siano questi della tipologia vertebrata o piccoli artropodi in cerca di luce chiarificatrice, sia pur questo l’ultimo gesto compiuto nel regno lepidottero dei viventi.

Ogni considerazione di tipo ambientalista in materia di gas flaring non può in ultima analisi prescindere dal fatto che, qualora le sostanze coinvolte fossero riuscite ad andare incontro a un effettivo utilizzo all’intero di centrali elettriche o altri clienti della compagnia estrattiva, esse avrebbero senza dubbio prodotto quantità di CO2 largamente superiori. E che l’umana società capitalista, fondata sulla ricerca di un margine di profitto in qualunque ambito operativo, non potrà semplicemente considerare una metodologia alternativa per sopravvivere, finché la “via più facile” non sarà diventata del tutto impercorribile per l’esaurirsi dei giacimenti accessibili senza costi o difficoltà eccessive. Così che da un certo punto di vista, questo approccio che porta a non preoccuparsi del domani sta accelerando la nostra marcia inarrestabile verso di esso, quando l’energia sostenibile, eolica, idrica, solare saranno gli ultimi appigli rimasti, per un’umanità agli sgoccioli, presso le implicazioni pratiche della vita moderna e industrializzata. Ed allora si vedrà, davvero, quanti approcci funzionali alla salvezza siamo riusciti ad accumulare nei lunghi secoli di lavoro! O se lo stesso destino dei bruchi diventati falena, tanto tragicamente affascinati dal fiore di fuoco, non sia destinato a coinvolgere anche tutti coloro che, in maniera più meno diretta, quell’astro esiziale avevano contribuito a crearlo.