Vestiti del tricolore i due gasometri di un’Italia in attesa

Corona-memories: come insetti intrappolati in una goccia d’ambra, i ricordi di quest’epoca priva di precedenti saranno immutabili reperti che le prossime generazioni incontreranno nelle loro passeggiate, siano queste letterali o metaforiche, attraverso i placidi racconti di coloro che l’hanno vissuta. Il senso di preoccupazione e l’incertezza, la logica dell’attenzione al proprio senso di sopravvivenza, quel timore che ancora striscia, sotto l’ombra di un pericolo incombentemente gramo. Eppure in quest’oceano di dolore, lo spettro evanescente della rinascita riesce a manifestarsi, attraverso gesti qualche volta significativi, certe altre memorabili ed in ogni caso frutto, indivisibile, di un desiderio di sfida contro il tragico destino. Che appartiene, più di ogni altra cosa, alle splendenti regioni dell’animo umano. Avete transitato di recente voi romani, tanto per fare un esempio rilevante, all’ombra del gazometro del quartiere Ostense? Oppure, quello fuori porta San Donato, presso l’oggi silente città di Bologna? Quasi certamente no: la legge, del resto, lo vieta temporaneamente in assenza di ottime e comprovate ragioni. Eppur dicono le voci, e altresì dimostrano le foto digitalizzate, che qualcosa di notevole stia succedendo in questi giorni: le due strutture che si ergono a memoria dei trascorsi di un paese dall’industria ingiustamente e storicamente sottovalutata appaiono d’un tratto trasformate, grazie all’uso di un sistema d’illuminazione estremamente suggestivo. Sotto un cielo per la prima volta privo delle polveri sottili, per la gioia di piccioni e gatti tristemente privi di persone che li nutrano per empatia animale, verde, bianco e rosso, di un’Italia che ricorda di essere se stessa, nel momento in cui necessità riesce a trasformarsi in un’imprescindibile virtù.
Una scelta interessante altresì datata, in entrambi i casi succitati, al 26 marzo in un’apparente comunione d’intenti e tempistiche per la gioia dei social media manager coinvolti, tra le poche figure professionali perfettamente abilitate a lavorare da casa, pronti a far da laboriosi portavoce di questo piccolo miracolo inatteso. Super-utenti che dalla pagina Facebook dei pompieri della capitale e quella della compagnia multiutility Hera dell’Emilia Romagna hanno iniziato, in contemporanea forse accidentale, il tam-tam mediatico mirato far sperimentare all’intero paese chiuso in casa questo attimo di sorpresa e svago, fondato sull’impiego creativo di sistemi d’illuminazione a LED, che possiamo facilmente immaginare come pre-esistenti nei due vecchi edifici parzialmente dismessi. Eppure non può esserci pensionamenti, in quegli oggetti sufficientemente imponenti da modificare lo skyline cittadino, eppur non tanto “brutti” da obbligarne i dirimpettai a richiederne a gran voce la demolizione. Tanto che per ogni città che ne possieda esempi, in qualche maniera, sono diventati un simbolo e ragione d’affezione, quasi l’eredità inutile, ma nondimeno apprezzata condotta fino a noi dalla placida consapevolezza degli Avi. Il che ci porta ad un quesito che altrettanto probabilmente, pochi tra gli appartenenti all’epoca degli smartphone senza pulsanti avranno avuto ragione o interesse a porsi: quella relativa a quale specifica esigenza, nei fatti, un gasometro o gazometro che dir si voglia fosse stato chiamato a risolvere, da coloro che per il vantaggio pubblico, avevano nelle passate generazioni dato disposizione di costruirli. Come fonti di una delle più importanti e imprescindibili risorse del mondo moderno, la luce notturna…

Già illuminato ad arte durante la notte bianca del 2006, il gazometro dell’Ostiense di Roma ribattezzato per l’occasione Luxometro è oggi un simbolo imprescindibile del quartiere. O persino “Colosseo industriale” il cui abbattimento, giustificato da ragioni d’utilità, apparirebbe senz’altro come un’imperdonabile eresia.

In un’ambiente futuribile oltre ogni cognizione pregressa, i lavoranti del turno di notte manovrano il telaio dell’opificio. Avvolti dalle tenebre di una notte senza Luna eppure al tempo stesso, lambiti dalla luce diurna di un Sole tascabile, suddiviso in una serie di punti fatidici disposti all’interno dell’edificio. Per le strade, persone camminano senza paura sotto un placido lucòre, in prossimità di vicoli dove all’ora del tramonto, il senso della vista smette semplicemente di funzionare. Scene di un’esistenza drammaticamente contemporanea che potremmo far risalire, nei fatti, fino alla prima metà del XIX secolo, quando in tutte le principali città europee aveva preso a diffondersi, sull’esempio londinese, un nuovo approccio straordinariamente efficiente all’illuminazione notturna. Basato sull’uso del cosiddetto gas cittadino (town gas) creato a partire dalla combustione in appositi serbatoi privi d’aria del coke, anche detto residuo solido carbonoso di litantrace, al fine di creare quell’ammasso di gas combustibili che venivano successivamente veicolati, grazie all’espansione naturale, verso i diversi punti luce considerati desiderabili di caso in caso. Una prassi messa in opera in quel di Bologna tramite l’impiego delle un tempo celebri officine della Compagnia Ginevrina inaugurate originariamente nel 1862, mentre a Roma la produzione urbana locale si sarebbe realizzata a pieno titolo soltanto nel 1910 con i cacofonici cantieri di San Paolo costruiti sulle rive del biondo Tevere, come ampliamento funzionale della prima fabbrica fatta costruire in prossimità del Circo Massimo da papa Pio IX (1846-1878). Luoghi in cui le condizioni di lavoro e di salute degli operai venivano purtroppo subordinate al bisogno di far fronte a una produzione sempre maggiore, soprattutto dal momento in cui il prodotto finale iniziò a trovare l’utilizzo anche per la cucina ed il riscaldamento delle case.
Ecco dunque, l’idea rivoluzionaria e per l’epoca risolutiva del gasometro: idea teorizzata, per la prima volta dall’inglese William Murdoch nel 1782, sulla base di uno strumento scientifico utilizzato in precedenza dal chimico ghigliottinato durante la rivoluzione francese Antoine Lavoisier (1743-1794). Nient’altro che una vaschetta pneumatica di forma verticale, sostanzialmente, basata sull’immagazzinamento di sostanze gassose grazie all’impiego di un sigillo d’acqua nella parte inferiore, utile a misurare attentamente le qualità necessarie per l’approfondimento della nascente scienza della chimica della materia. Riempiendo la quale, gradualmente, uno stantuffo sarebbe salito verso l’alto permettendo di mantenere una pressione uniforme. E sarebbe stato possibile apprezzare gli stessi princìpi di funzionamento attraverso l’intera prima generazione degli edifici ben più grandi recanti lo stesso nome, il cui tetto mobile a campana veniva normalmente appesantito o alleggerito a seconda della quantità di combustibile contenuto al suo interno. L’idea geniale, infatti, era di utilizzare tali apparati non al fine di conservare il gas per lunghi periodi, bensì stoccarne quantità significative all’interno durante la produzione diurna, affinché la sera e la notte il soffitto tornasse a scendere quando il consumo tornava ad aumentare drasticamente dopo l’ora del tramonto. Il gasometro di Bologna, a tal fine, entrò in funzione nel 1930 mentre quello di Roma, più grande ed affiancato da due fratelli minori, sarebbe stato costruito dalla società genovese Ansaldo tra il 1935 e il 1937. Rispettivamente 50 ed 87 metri orientati alla stessa finalità benché basati su metodologie di funzionamento molto diverse: il gas holder (come preferiscono tutt’ora chiamarli gli anglofoni per correttezza, visto che non “misura” nulla) della Città Eterna era infatti di un tipo dotato di sacca di gomma estensibile grazie alla forza pneumatica, che ne avrebbe causato la crescita progressiva durante il riempimento, all’interno della struttura metallica che possiamo vedere tutt’ora. Mentre quello bolognese, basato sul brevetto tedesco del 1915 della compagnia MAN (Maschinenfabrik Augsburg-Nürnberg AG) era di tipo rigido dotato di un pistone sollevabile all’interno della struttura stessa. Entrambi corpi sufficientemente elevati, del resto, ad ospitare l’impianto d’illuminazione che qualche attimo di riscossa patriottica sta tentando di restituire, grazie allo strumento fotografico, a vantaggio di coloro che non possono e non potranno tanto presto varcare l’uscio della loro stessa casa.

Il gazometro bolognese, integralmente restaurato dalla compagnia Hera, costituisce anch’esso un importante memoria architettonica della città, come esemplificato dall’importante mostra fotografica a lui dedicata da Carlo Valsecchi nel marzo del 2019, presso la Pinacoteca Nazionale della città.

Testimonianze residue di un’epoca in cui la pressione raggiungibile dal gas di città non superava di molto di quella ambientale, precorrendo l’immagazzinamento veicolato con le metodologie odierne, fondate sulla pressione aumentata all’interno dei tubi stessi, i gasometri furono per un lungo periodo strumento essenziale del vivere civile urbanizzato.
Così mentre negli Stati Uniti era la prassi che ogni abitazione fosse pericolosamente dotata del suo polmone estensibile, capace di assolvere all’immagazzinamento diurno delle risorse necessarie alla singola famiglia, nelle grandi capitali europee l’approccio migliore fu giudicato quello di nazionalizzare, ed in qualche modo rendere immortali, gasometri alti quanto un accenno ante-litteram di strani grattacieli.
Ragion per cui appare tanto più memorabile e pregna, la duplice iniziativa contemporanea di rendere patriottici questi monumenti desueti a Roma e Bologna, attraverso un processo di riscoperta del nostro inno, orgoglio patrio e bandiera, che tanto ricorda l’epoca trascorsa dei grandi conflitti mondiali quando essi ci risultarono, per ragioni diverse, proficui. Poiché anche oggi, più che mai in precedenza, è una guerra quella che abbiamo attorno… Contro un nemico scaturito dall’inferno delle macchine biologiche prive di una mente, la cui natura invisibile, per la fortuna di tutti, non potrà eternamente sfuggire allo spirito indefesso della scienza e tecnologia umane.

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