Rapido e letale dardo nascosto nello scudo del soldato romano

L’esperto comandante di cavalleria e generale romano Diocle aveva sempre creduto nel dualismo di ogni cosa, come metodo finalizzato a garantire l’amministrazione del potere, eccetto che in un caso: quando sul campo di battaglia, al momento della carica, gli uomini dovevano trasformarsi in una cosa sola, unica e indivisa, dinnanzi all’implacabile richiamo della morte. Così a ridosso del fiume Margus, nell’estate del 285 d.C, revisionò per l’ultima volta le sue due legioni, formate dagli stessi uomini che negli ultimi decenni, sotto il suo comando, avevano saputo mantenere sotto il giogo della civilizzazione i popoli dell’Illyricum, storicamente divisi in regni eternamente prossimi alla ribellione. “Vi diranno che il legittimo imperatore fosse Numeriano, figlio di Germanicus Maximum, alias Marco Aurelio Caro. E vi diranno che sia stato ingiustamente usurpato. E questo è vero, come ben sapete: dal crudele suocero Arrio Apro suo avvelenatore, che io stesso ho passato a fil di spada, innanzi a testimoni consapevoli di un simile misfatto.” Qui i due comandanti dei Gioviani e gli Ercolani, le rispettive casate militari che avevano scelto di spalleggiare il principale pretendente della Dalmazia, lanciarono un breve grido di assenso. “Eppure in verità vi dico, il vero malfattore si trova innanzi a voi, oggi, in questa terra di Moesia: il suo nome è Marco Aurelio Carino, suo fratello minore e mandante dell’orribile assassinio. Sarà oggi, dunque, il giorno della nostra rivincita! Pere riportare Roma sulla giusta strada! Per liberare il popolo da una crudele tirannia!” Un grido di battaglia collettivo e disastricolato, a questo punto, superò naturalmente i suoi declami, portando Diocle a voltarsi allarmato verso la già nota posizione del nemico: le guardie pretoriane, accompagnate dalla guarnigione della vicina città di Viminacium, stavano avanzando verso la pianura, pronte ad ingaggiarli in campo aperto grazie alla superiorità numerica delle loro schiere: la guerra civile era iniziata. Bene, che avanzassero pure, pensò. Mentre faceva cenno ai suoi luogotenenti di prepararsi all’impatto, affrettandosi a trovar riparo dietro la prima linea. Ben presto, alla distanza di 25 metri circa, le schiere dei soldati avversari arrestarono la propria marcia, per operare in base ad un copione chiaramente definito e come un sol uomo, lanciare i letali pila all’indirizzo dei Gioviani. Giavellotti dalla punta acuminata, in grado di piantarsi negli scudi e rimanervi incastrati dentro, rendendoli così inservibili contro i le spade del nemico. Una, due serie di colpi, mentre le truppe dalmate dell’avanguardia, anch’esse prive di arcieri, rispondevano al fuoco. Giusto mentre i sopravvissuti si apprestavano a incrociare i gladi, tuttavia, l’uomo al centro di questa tempesta diede un ordine precedentemente concordato. Diocle, nel resto, aveva sempre creduto nel dualismo e in quel momento, i Gioviani in equipaggiamento pesante aprirono la loro formazione, lasciando andare avanti una truppa speciale di schermagliatori Ercolani. A 15 metri di distanza dal nemico, lungo l’intero estendersi del fronte di battaglia, essi piantarono a terra i ponderosi scudi, estraendone un oggetto quale, prima di quel momento, nessun romano aveva mai impugnato in guerra. Con un movimento attentamente calibrato, come un sol uomo, i martiobarbuli lasciarono la stretta delle loro mani, disegnando una parabola verso gli elmi di coloro che assaltavano le loro file…
Piccoli giavellotti, in un certo senso, ma anche proiettili da lancio, freccette giganti da giardino, letterali shuriken dell’Occidente antico. Spesso tralasciati dai gruppi di rievocazione dei nostri giorni, perché note ad oggi a causa di sole tre fonti letterarie, le armi anche note come plumbata (dal termine latino usato per le piume incaricate di guidarne il tragitto) avevano in effetti una lunga storia d’impiego in battaglia fin dall’epoca delle Poleis greche, i cui guerrieri erano soliti scagliarle tramite l’impiego di una fionda centrifuga manuale. Ma la versione destinata a ricomparire nella fase tarda dell’Impero romano, poco prima che il suo neo-governante salito al trono con il nome di Diocleziano decidesse di dividerlo in due parti, presentavano un importante perfezionamento: una testa appesantita grazie all’uso di copiose quantità di piombo…

La natura uncinata delle punte dei dardi romani, sia che si trattasse di giavellotti che semplice freccette a mano, era una funzionalità primaria dato l’uso previsto contro un nemico dotato di scudo. In questo modo, anche se parati, avrebbero continuato ad appesantire e rendere più lenti i movimenti di quest’ultimo in battaglia.

Cos’è del resto un proiettile, se non l’aggregazione di un particolare materiale, concepito al fine di arrecare il maggior danno nel suo specifico contesto di utilizzo? Così come l’uranio impoverito, usato per le munizioni ad alto grado di penetrazione dei carri armati moderni, sono concepite per varcarne l’armatura, quindi esplodere in un mare di schegge letali, il dardo noto come barba di Marte (questa la traduzione letterale del termine martiobarbulum) non doveva rimanere totalmente integro. Bensì impattando contro gli scudi già lesionati dai pilum, le armature e sfortunatamente anche i cavalli delle schiere nemiche, piegarsi o addirittura spezzarsi, massimizzando il danno e diventando impossibile da togliere prima dell’imminente impatto all’arma bianca. Il più lungo e dettagliato frammento di cui disponiamo in materia, scritto dal personaggio di origine e datazione incerta Vegezio (probabilmente un ex-soldato colto vissuto attorno al IV secolo) come parte del suo De Re Militari guarda indietro a tale attrezzatura bellica come la preferita dell’imperatore Diocleziano (r. 284-305) e il suo vice come Cesare e futuro successore Massimiano (r. 286 -305) poco dopo la fondazione da parte del primo della tetrarchia, tramite la quale avvenne l’essenziale divisione tra gli Imperi d’Occidente ed Oriente. Ivi contenuta è quindi la precisa descrizione secondo cui le loro legioni lealiste, utilizzate per governare da Nicomedia e lontano dall’influenza nefasta dell’imprevedibile guardia pretoriana, fossero solite portare all’interno dello scudo la quantità precisa di cinque dardi all’interno dei grandi scudi, da scagliare all’indirizzo del nemico in vari momenti della battaglia. Che potevano includere, a quanto ci è dato comprendere, distanze anche superiori a quelle dei più largamente utilizzati pila (sing. pilum) dato il minor peso del proiettile, benché un impiego ravvicinato ed a sorpresa come quello sopra descritto potesse avere effetti devastanti, particolarmente contro avversari impreparati a fronteggiarne gli effetti immediati. Successivamente al lancio, quindi, i martiobarbuli che avevano mancato il bersaglio sarebbero rimasti conficcati a terra, continuando a costituire un ostacolo potenziale per i movimenti dello schieramento avverso. Origine probabile del secondo e più avanzato tipo di queste armi, descritto nuovamente nel trattato anonimo del IV secolo De Rebus Bellicis, con il nome specifico di plumbata tribolata, riferito alle acuminate punte poste tutto attorno al contrappeso di piombo e e fin dietro alla punta penetrante, concettualmente non così dissimile dai temuti makibishi, proiettili specifici che sarebbero stati impiegati, molti secoli dopo, dai ninja del distante Giappone. Cognizioni per lo più empiriche, in mancanza di ulteriori resoconti storici, tuttavia corroborate da una lunga serie di ritrovamenti archeologici soprattutto a partire dalla metà degli anni ’90, nell’intero territorio dell’Europa centrale ed orientale. Questo tipo di armi, d’altra parte, composte interamente in metallo eccetto la piuma, risultano inerentemente adatte a superare intatte il trascorrere dei secoli, lasciando ben pochi dubbi sul loro utilizzo passato.

Costruire antiche freccette da guerra? Perché no: negli anni ’70, una linea di giocattoli sportivi noti come freccette da giardino ebbe un successo notevole in tutti gli Stati Uniti, finché leggi specifiche non dovettero essere varate per proibirne l’uso capace di portare a ferimenti eccessivamente gravi.

La terza ed ultima citazione letteraria giunta fino a noi delle plumbata risale invece al tardo VI secolo e compare nel trattato militare Strategicon, dell’imperatore bizantino Flavio Maurizio Tiberio. Egli, ormai distante dall’antica egemonia romana quasi quanto i suoi predecessori della Cappadocia, si riferì all’arma con il nome grecizzato martzobarboulon, benché fosse ancora a conoscenza della sua efficacia notevole in battaglia. L’Impero ormai da tempo, suddiviso in due metà a loro volta comandate da un Augusto e un Cesare (l’imperatore ed il suo vice) combatteva contro i barbari alle mura e quella corruzione interna che ne avrebbero, infine, disgregato le fondamenta.
Eppure ogni singola cosa, in quella fatidica battaglia del fiume Margus, potrebbe esser stata decisa dall’iniziativa di un singolo uomo. In altri termini, sarebbe valido affermare che la storia fosse destinata a dipanarsi con la traiettoria di un dardo scagliato all’indirizzo di bersagli lontani. Nelle alterne possibilità di un centro perfetto, oppur destinato a scomparire sotto l’orizzonte degli eventi futuri.

Lascia un commento