Lo spettacolo pakistano degli tsunami generati a comando

Qualcosa d’enorme sta prendendo forma nel distretto di Pakhtunkhwa, 105 Km a nord-ovest di Islamabad. Nel più assoluto entroterra? L’onda anomala: uno dei più terribili eventi “naturali”. La crescita esponenziale dell’energia implicata dal moto oceanico, a causa di una forza introdotta all’interno di quel sistema, generalmente proveniente dalle viscere stesse del pianeta Terra. Un pugno d’acqua che può abbattersi sulla costa, distruggendo ogni cosa che abbia la grave sfortuna di trovarsi sul suo cammino. Quando l’acqua del mare inizia a ritirarsi oltre la linea del bagnasciuga, segno dell’inizio imminente della fine, nessuna persona informata rimane nei dintorni, ben sapendo che anche pochi metri di elevazione, in determinati casi, possono fare la differenza tra la vita e la morte. E allora che cos’è questo? Svariate decine di persone dietro un parapetto alto si e no mezzo metro, che osservano, commentano e scattano foto a svariate tonnellate d’acqua, spinta innanzi lungo il pendio per l’effetto dell’implacabile forza di gravità. E sembrerebbe di trovarsi dinnanzi a una cascata, se non fosse che nessun flusso naturale, nel corso della storia geologica pregressa, ha mai potuto scorrere per un periodo prolungato con questa potenza, senza che il pendio stesso ne venisse eroso nel giro di poche settimane. Ma il flusso di una simile scena, questo è un fattore fondamentale, non trova espressione continua dinnanzi alle telecamere dei curiosi. Esso inizia all’improvviso, successivamente all’estendersi di una stagione delle piogge. Quindi cessa, con lo stesso tenore repentino, lasciando soltanto il ricordo di una così impressionante deflagrazione. Quasi come se qualcuno tirasse a se una leva. Quasi.
E in effetti non saprei dirvi, se il sistema di controllo della diga di Tarbela larga 2,7 Km sul fiume Indo (maggiore impianto idroelettrico al mondo ed una delle strutture più grandi mai costruite dall’uomo) sia una leva, un pulsante oppure un comando inviato digitalmente, mediante il click del mouse collegato a un potente computer. Mentre sappiamo fin troppo bene, grazie ai rapporti ufficiali inviati alla Banca Mondiale che ne finanziò la costruzione a partire dal 1968, che il suo bacino artificiale di 13,96 chilometri cubici è soggetto ad un riempimento e una non-permeabilità tali che ogni anno, circa il 70% dell’acqua in eccesso deve essere scaricata, nell’unico modo possibile per un simile meccanismo: mediante l’apertura degli stramazzi, o canali ausiliari di sfogo. Vie di fuga per l’acqua paragonabili ai tunnel sotterranei, attraverso cui essa viene comunemente instradata per alimentare le fondamentali turbine, capaci di produrre, all’ultima stima, la quantità notevole di 3.478 MW d’elettricità. Dei quali, alle origini del progetto ne erano stati previsti tre, in aggiunta a ulteriori due impiegati allo scopo d’irrigare i campi della regione. Se non che apparve chiaro, entro pochi anni, che l’apporto idrico generato dai ghiacciai dell’Himalaya nei confronti di questa struttura era semplicemente eccessivo, perché un simile piano bastasse a trarne il massimo beneficio. Ed è questa la ragione per cui, a partire già dal 1970, sono stati iniziati una serie di progetti di ampliamento ed installazione di ulteriori turbine, culminanti nella riconversione del quarto tunnel con finalità idroelettriche ultimato nel 2015, un destino che coinvolgerà anche il quinto ed ultimo negli anni immediatamente a venire. Se mai c’è stata una dimostrazione dei tempi che corrono… L’abbandono pressoché completo dell’antico sistema di auto-sostentamento dei popoli, l’agricoltura, a vantaggio di una più proficua nonché redditizia generazione di una corrente d’atomi, usata per far funzionare televisori e lavastoviglie! Eppur se si osserva l’intera questione con occhio clinico, è impossibile non notarlo: ciascuno tsunami artificialmente indotto nel distretto di Pakhtunkhwa, costituisce uno spreco…

Da questo video promozionale coévo, è possibile desumere l’importante ruolo avuto dai progettisti e le maestranze italiane nella costruzione della diga, tutt’ora considerata in determinati ambienti, sia nostri che pakistani, un importante punto d’orgoglio nazionale.

Detto questo, non è certo mia intenzione affermare che la diga di Tarbela sia stata progettata male. Essa costituiva, e costituisce tutt’ora, nei fatti la migliore installazione che fosse possibile a seguito del Trattato per il Bacino dell’Indo, importante accordo internazionale tra India e Pakistan, che regolamentava lo sfruttamento delle risorse idriche condivise tra questi due contrapposti paesi. Il quale prevedeva, in maniera tutt’altro che scontata, di compensare lo sfruttamento dei fiumi Ravi, Sutlej e Beas da parte dei vicini del Sud, lasciando ai locali l’opportunità di trarre beneficio da uno dei più poderosi e vasti fiumi della regione. Un proposito che sarebbe certamente sembrato, ad alcune delle persone coinvolte all’epoca, pressoché impossibile da portare a termine in maniera soddisfacente. Se non che l’allora presidente del Pakistan, Yahya Khan, si dimostrò abile nell’organizzare un concorso d’appalto, capace di coinvolgere alcune delle più rinomate aziende, ivi incluso l’astro nascente italiano Impregilo (Girola, Impresit, Lodigiani e Torno) destinato in epoca più recente a fondersi con la ditta di costruzione di Roma Salini, per diventare uno dei leader mondiali nella costruzione di grandi dighe. Raccontano le cronache ufficiali che nel 1968, tuttavia, un consorzio tedesco fosse riuscito a batterci nella proposta di un intervento dal costo minore di 100 milioni di dollari, se non che sulla base degli alti standard imposti dal governo, fu determinato che il loro progetto mancasse di adeguate garanzie in materia di spese accessorie e flessibilità procedurale. Così che a partire dal mese di marzo di quell’anno, i macchinari iniziarono ad essere trasportati sul posto, e le prime cariche vennero fatte detonare per rimuovere i dislivelli indesiderabili prima dell’inizio dello scavo.
La costruzione dell’impianto di Tarbela, destinata a durare ben 10 anni, venne effettuata in tre fasi, la prima della quali consistette nel deviare il corso del fiume Indo in un canale artificiale, dotato anch’esso di una piccola diga per il controllo del flusso delle acque. Poiché l’argine principale sarebbe stato del tipo “a materiali sciolti”, ovvero composto da un involucro di cemento ricolmo di pietre, terra e altre sostanze tenute assieme principalmente dalla forza di gravità e l’attrito, si costruirono quindi dei lunghissimi nastri trasportatori, utilizzati per spostarne un’infinità di tonnellate direttamente dalle diverse cave di appoggio costituite nei dintorni. Questo secondo stadio richiese, da solo, un periodo di 3 anni, durante i quali l’impresa in corso d’opera diventò una notevole attrazione turistica per la gente di tutto il paese: quanto spesso, dopo tutto, era possibile assistere alla deviazione di un gigantesco fiume? Nella terza ed ultima fase, quindi, il canale di deviazione venne progressivamente chiuso, mentre la possenza dell’Indo veniva instradata nei cinque tunnel sotterranei precedentemente citati. Era il 1976, quando finalmente l’installazione delle turbine poté dirsi conclusa, e l’energia iniziò a fluire da questa nuova centrale capace di far fronte da sola al 23% dell’intero fabbisogno elettrico pakistano. E questo, senza neppure prendere in considerazione i più recenti e significativi progetti di ampliamento, in grado di ridurre in maniera sensibile la quantità di acqua che deve essere rilasciata mediante l’impiego degli spettacolari, quanto fondamentalmente inutili tsunami.

In questa rara ripresa dell’azienda austriaca Andritz Hydro, incaricata di rinnovare le chiuse del quinto tunnel in occasione del più recente potenziamento, è possibile osservare da un’angolazione diversa la furia di un fiume faticosamente imbrigliato, nonostante l’apporto tecnologico assolutamente fuori dagli schemi.

Naturalmente, nessuna impresa dalla portata paragonabile a quella della diga di Tarbela può presentarsi come del tutto priva di sacrifici e problemi. A cominciare da quello effettuato, loro malgrado, dalle circa 80.000 persone che occupavano i villaggi fatti sgomberare dal governo verso la metà degli anni ’70, all’interno del territorio che sarebbe stato inondato dall’enorme bacino artificiale in via di costituzione. Molti dei quali, persino adesso, affermano di non aver mai ricevuto l’accoglienza promessa, essendosi scontrati con la più totale incapacità di adattarsi alla vita urbana e trovare quindi un lavoro al di fuori dei loro campi (letterali) d’esperienza fino a quel fatidico momento. Mentre per altri, raccontano alcune delle testimonianze raccolte localmente dal Panos Network di Londra, il trasferimento fu l’occasione di passare a uno stile di vita più moderno, in cui i diritti umani e in modo particolare delle donne trovavano un maggiore spazio legittimo d’espressione. Fin da subito, nel frattempo, le sfide tecniche affrontate dal personale della diga furono notevoli, con due dei tunnel che vennero inizialmente devastati dalla potenza inattesa delle acque, mentre nello stesso territorio del bacino si aprì un’ampia serie di voragini, capaci di ridurre la fondamentale impermeabilità dello stesso. Situazione a cui l’Impregilo si dimostrò capace di far fronte mediante l’impiego di numerose colate di cemento, dimostrando la flessibilità e la prontezza dei propri metodi aziendali. Ed è così che, ancora oggi, la diga continua a funzionare. Considerata inizialmente operativa per soli 50 anni, a causa della quantità di sedimenti trasportati dal fiume Indo a partire dai ghiacciai dell’Himalaya, i fatti hanno esteso la sua aspettativa di funzionamento di almeno ulteriori 30, in forza della capacità dimostrata nel loro smaltimento. Forse dovuta, perché no, anche alle possenti ondate di marea regolarmente liberate in scintillanti cascate sotto lo sguardo rapito di chiunque dovesse trovarsi a passare di lì.
In tutto questo e al di là delle giuste considerazioni ambientali, la diga di Tarbela presenta sopratutto un pregio: fu costruita di comune accordo, a seguito di un trattato internazionale tra i due paesi che avrebbero tratto giovamento dalla sua esistenza. Il che difficilmente potrebbe essere affermato, di questi tempi, in relazione alla nuova opera in via di costruzione sul Nilo Azzurro con l’aiuto tecnologico della Salini Impregilo, principale tributario del quasi omonimo fiume egiziano. Quella gigantesca “Diga del Rinascimento Etiope” che negli ultimi anni ha ricevuto minacce di sabotaggio nonché numerose proteste, sia diplomatiche che popolari, contribuendo in modo significativo a destabilizzare la situazione politica della regione. Perché in ultima analisi, raggiungere un primato nel campo infrastrutturale non è mai cosa facile. Soprattutto quando si tenta di farlo in maniera del tutto indipendente dall’opinione (apparentemente) ragionevole, o i percepiti diritti dei propri vicini.

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