Era un piccolo banco situato ai margini dell’Esposizione Internazionale della Scienza e dell’Industria di Edimburgo, posto all’aperto, come tutti gli altri, tra i filari di alberi del parco noto come “The Meadows” a ridosso del campus universitario della città. Dietro di esso, sedeva un entusiastico trentenne, all’apparenza diverso dai suoi esimi colleghi disseminati sotto l’uggioso pomeriggio scozzese. In quel 1922, tutti avevano idee: “rivoluzionarie” lampade da soggiorno, “rivoluzionarie” sospensioni per automobili, serrature, magli da fabbro, strumentazioni agricole alimentate a diesel… Terminato il faticoso periodo dell’immediato primo dopoguerra, sembrava che il mondo si fosse risvegliato con l’entusiasmo per questa vita e ogni possibilità offerta dalla tecnologia, mentre facoltosi industriali erano disposti, per una volta, ad agitare le proprie bacchette secondo i crismi di una transitoria meritocrazia. E quale migliore occasione, per lui che proveniva dalla cittadina di Milngavie, non troppo lontana da Glasgow, senza una laurea ma con l’esperienza accumulata negli anni, assistendo suo padre ingegnere nella progettazione e il miglioramento di macchine, per lo più agricole, a vantaggio della sua piccola comunità! Finché, pensando e disegnando un pensiero che si era agitato nella sua mente per più di una decade, non aveva dato forma all’idea. Possibile, che il mondo stesso dei trasporti ferroviari, grande polmone della Gran Bretagna in quell’epoca di ripresa, fosse stato fondato su una fondamentale che bugia? Che far strisciare sul suolo il lungo serpente di metallo, dopo tutto, non fosse un’attività degna di chi voleva far migliorare la vita delle persone? Questo aveva postulato, tra se e se, prima di recarsi all’ufficio brevetti con un progetto, fatto disegnare all’amico e consulente Hugh Fraser, per il Railplane, un nuovo tipo di treno che avrebbe fatto affidamento su soluzioni tecnologiche precedentemente inesplorate.
Di certo negli anni ’20 dello scorso secolo, non eravamo più nell’epoca della strana tecnologia, in cui i dimostratori che affittavano il proprio spazio in simili fiere, erano propensi a mettersi in mostra con proclami arzigogolati, esperimenti o veri e propri giochi di prestigio, come nel celebre caso di Thomas Edison che fece elettrificare gatti, cani o persino un elefante per dimostrare la pericolosità della corrente alternata agli estimatori del suo ex-dipendente Nikola Tesla. Mentre George Bennie, con la schiettezza dovuta anche dalla sua educazione informale, sedeva composto dietro ad un mucchio di brochure, mentre indicava con una bacchetta il modellino fatto costruire per l’occasione, indicando volta per volta le caratteristiche più determinanti. “Signori, ascoltatemi!” Esclamò per la centesima volta, in un momento in cui la folla di rappresentanti, responsabili degli uffici acquisti, funzionari o semplici visitatori, sembrava particolarmente gremita, probabilmente per l’avvicinarsi sempre più prossimo dell’orario di chiusura: “Avete mai desiderato di poter semplicemente salire a bordo in stazione a Londra, sedervi su una comoda poltrona, e ritrovarvi qui ad Edinburgo in poco meno di tre ore? O spedire qualcosa di importante fin giù a Brighton, e da lì al Continente, confidando nel fatto che la sua consegna via terra sarà portata a termine nella metà del tempo precedentemente ritenuto necessario? Se così fosse, ascoltatemi. Questa è la via. Questa è la strada: nessun tipo di strada. Ma una carrozza sollevata dal suolo, intenta a procedere silenziosamente verso il domani…”
Dal punto di vista dell’inventiva, il “l’aereoteno” presentava un’idea di fondo particolarmente insolita: fare a meno di tutte le pesanti componenti di un motore per la trasmissione diretta dell’energia alle ruote, tra cui marce, il differenziale, il convertitore di potenza, il grosso serbatoio dell’olio, per passare a quell’onnipresente soluzione di quegli anni, che aveva dato il via al cosiddetto secolo del volo: una semplice elica rotante posta dinnanzi al veicolo. Anzi due, con la seconda sul retro, affinché fosse possibile, al momento di fermarsi, azionarla in senso contrario, senza dover ricorrere alla complicazione e l’ingombro di un impianto frenante convenzionale. Con il risultato che, una carrozza/locomotiva così costruita fosse straordinariamente leggera, riuscendo ad elevarsi da alcune delle più gravose necessità del traffico ferroviario. Prima fra tutte, quella di spianare il terreno, seguita dalla costruzione occasionale di tunnel, ponti o pericolosi tornanti montani. Tutto perché, fatta funzionare da due carrelli motorizzati integrati in una singola rotaia posta al di sopra del carico, il treno avrebbe proceduto sollevato dal suolo, grazie al solo sostegno di pali collocati ad intervalli regolari. Un secondo binario inferiore, usato soltanto per la stabilizzazione, avrebbe completato il quadro ingegneristico di questo nuovo sentiero ferroso, essenzialmente la prima realizzazione economicamente valida del concetto di monorotaia. L’interesse, lui ne era certo nel profondo della sua stessa anima, sarebbe venuto non appena il grande pubblico ne avrebbe compreso le implicazioni…
Da quel poco che sappiamo, attraverso le cronache del tempo, in merito alla figura di George Bennie, possiamo desumere che egli fosse senz’altro un ottimista. E come tale, capace di coinvolgere il suo prossimo attraverso la descrizione di quello che, a suo parere, era l’unico sistema per cambiare veramente le cose: praticare un taglio netto con il passato, dimenticando lo ieri e pensando unicamente al domani. Il che, ad ogni modo, aveva una base logica tutt’altro che evanescente. È anzi possibile affermare che, nella sua epoca di inizio secolo, il Railplane avrebbe potuto portare significativi vantaggi ai costi d’ingresso per la costruzione di una nuova ferrovia, incrementando inoltre non di poco il comfort di viaggio dei suoi primari utilizzatori, viaggiatori occasionali e i praticanti quotidiani del pendolarismo, chiaro segno di una società che stava ormai entrando nell’epoca post-industriale. Per non parlare dell’opportunità, ora che la guerra era finita, di trovare nuovo impiego a tutti quegli stabilimenti di produzione di aerei, rimasti a prendere polvere e soltanto in parte riconvertiti in officine utili in epoca di pace. Fatto sta che l’idea piacque, fin da subito, con ampi articoli sui giornali e un proficuo passaparola tra i professionisti del settore, su quello che un giovane delle campagne scozzesi, senza un’educazione accademica formale, era riuscito a concepire apparentemente dal nulla, grazie alla semplice osservazione della vigente condizione umana. Negli anni ’30 si parlò anche di un’installazione sperimentale tra Blackpool e Southport, come ausilio allo spostamento tra queste due importanti città portuali. Ma i finanziatori tardavano a farsi avanti…
Così Bennie, commettendo lo stesso errore di molti altri prima di lui, fece l’impensabile: ipotecò la casa, impegnò tutto quello che aveva e si ricoprì di debiti, nel tentativo di dare una forma tangibile al sogno della sua vita. Fondò anche un’eponima compagnia, della quale si autonominò direttore supremo. Ed è dalle manovre finanziarie di tale entità, che trae l’origine il nostro video di apertura: la scena registrata del prototipo funzionante, a tutti gli effetti, di una singola carrozza dell’aerotreno, agganciata ad un tratto di “ferrovia volante” proprio nella campagna fuori dalla sua Milngavie. Il treno era stato costruito dalla William Beardmore & Co Ltd di Inchinnan, nel Renfrewshire, un’azienda specializzata in dirigibili. Il che dimostrava a pieno la provenienza delle soluzioni tecniche ritenute idonee all’impiego, secondo quanto narrato entusiasticamente dall’inventore in quella fiera all’aperto di tanti anni prima, tra gli alberi svettanti del grande giardino di Edinburgo.
Nel tentativo di dimostrare a pieno la portata della sua idea, Bennie non fece risparmi nella costruzione della carrozza dei sogni, che ebbe cura di dotare delle migliori poltrone, tappeti di lusso e lampade raffinate, che sarebbero sembrate più adatte in un’abitazione del centro città. Le tende ai finestrini, ordinatamente fatte ricadere ed assicurate con dei nastri di tessuto, non facevano che incrementare ulteriormente questa illusione di trovarsi all’interno di un salotto di pregio, se non fosse per l’affollamento causato dalla presenza d’innumerevoli altri passeggeri. Che come da lui previsto, non tardarono ad arrivare: diventò in effetti un’attrazione del posto, questa insolita ferrovia, al pari della strana formazione naturale di Auld Wives’ Lifts, costituita da tre pietre appoggiate l’una all’altra come se fossero un monumento neolitico, incise nei secoli con strane iniziali e volti eternamente rivolti a fissare il vuoto. La gente accorse, e con essa gli ispettori della LNER (London & North Eastern Railway) qualche volta ufficialmente, quindi sotto mentite spoglie, per meglio vivere l’esperienza di chi dovesse salire quegli scalini in legno, di una stazione che iniziava dove, generalmente, era situato il tetto di simili strutture. Mentre l’entusiastico inventore, in estasi per il suo trionfo, faceva da guida a chiunque avesse il benché minimo interesse a provare la portata della sua idea. Se non che…
L’inizio della fine fu immediato sul corso della storia, come un sassolino malcapitato che riesce incredibilmente a deragliare un convoglio lanciato al massimo della velocità. Giunse verso l’inizio di una settimana a Wall Street, in un giorno apparentemente simile agli altri. Una data, il 29 ottobre del 1929, che sarebbe rimasto celebre con il nome di martedì nero. Fu una straordinaria, e per lo più irripetibile, convergenza di fattori: una latente diffidenza degli investitori americani verso i mercati d’oltreoceano. La crescita costante dell’inflazione a causa di un’economia in crisi, dovuta alla migrazione costante delle comunità agricole nelle grandi città. In senso più specifico ed immediato, l’arresto per frode dell’importante investitore britannico Clarence Hatry e di tutti suoi associati. Fatto sta che quel giorno in borsa, tutti volevano vendere e nessuno acquistava alcunché. Così che il valore dei loro beni, inevitabilmente, iniziò a precipitare con la stessa rapidità di tutti coloro che, nei giorni a venire, si sarebbero suicidati gettandosi dai piani più alti degli edifici. Era iniziata, in altri termini, la Grande Depressione. Niente avrebbe continuato più come prima, meno che mai la marcia sicura dei treni.
In uno scenario di istituzioni condizionate da risorse finanziarie limitate, naturalmente, ogni progetto d’innovazione passò in secondo piano. Figuratevi voi, le rivoluzioni. La naturale diffidenza dei britannici verso l’abbandono dei vecchi sistemi, poi, fece il resto. Nel 1936, in assenza di fondi, George Bennie fu licenziato da un voto inoppugnabile del consiglio di quella stessa società che lui stesso aveva fondato. La quale, soltanto l’anno successivo, sarebbe andata in bancarotta. E lui con essa. Della sua vita successivamente a quel momento, non sappiamo moltissimo. La ferrovia-prototipo con il suo treno sarebbe rimasta in piedi ancora per molti anni, benché non funzionante, prima di essere venduta e demolita per ricavare materiali durante il periodo della seconda guerra mondiale. Tra il 1946 e il 1951, quindi, l’ingegnere informale fondò due nuove compagnie, con il fine dichiarato di riuscire a resuscitare l’aerotreno, per un’installazione presso i territori a ridosso del fiume Nilo, poi Damasco e Baghdad. Il cui esito, purtroppo, possiamo facilmente desumere dal corso futuro delle ferrovie.
Che conclusioni possiamo trarre, dunque, alla fine di questa vicenda… Forse che arrivare troppo presto con un’idea, può avere effetti controproducenti. O magari che non serve a nulla, cambiare ciò che funziona già “sufficientemente” bene. Ma in definitiva, il punto fondamentale è questo: niente lascia perplesso il pubblico, più che una crisi d’identità. Alla fin della fiera, o sei un serpente che striscia tra l’erba, o sei un drago che vola al di sopra. Non è proficuo sostituirsi ad entrambi, come una sorta di lucertola sputafuoco incardinata alle rotaie tangibili dell’ingegneria.