Esiste un assioma relativamente celebre per quanto concerne l’ambito della tecnologia, facilmente riassumibile nell’espressione: “Un nuovo sviluppo può effettivamente dirsi realizzato, soltanto quando tutti potranno accedervi senza barriere significative di natura economica, pratica o di reperibilità.” Ovvero il tipo d’ostacoli che può essere del tutto insormontabile, come anche attribuibile a particolari preconcetti ereditari, che ne prevengono ostinatamente la diffusione. È largamente acclarato ad esempio come verso il primo quinto del Novecento, nonostante l’ampia e progressiva diffusione di ogni tipo di mezzo a motore, nessuno sembrasse interessato al concetto di una moto di piccola cilindrata, leggera e maneggevole, pensata principalmente per lo spostamento all’interno dei contesti urbani. I primi motorini dotati di sellino, inventati nel 1919 in Inghilterra con la cosiddetta Skootamota e successivamente evolutasi fino a una forma riconducibile a quella attuale, erano inaffidabili, incapaci di affrontare gradienti significativi ed inoltre dispendiosi da produrre, a causa delle carenature monoscocca che servivano a coprirne la parte ingegneristica, elemento incline a complicare non poco qualsivoglia tipo d’intervento periodico di manutenzione. Una situazione destinata a cambiare sensibilmente con il termine della seconda guerra mondiale, quando soprattutto nei tre maggiori paesi sconfitti, Italia, Germania e Giappone, l’acquisto di un’automobile diveniva progressivamente complesso per buona parte degli strati sociali, proprio quando le fabbriche distrutte dai bombardamenti cominciavano ad essere ricostruite in base alle necessità del momento. Il contesto da cui nacquero, per citarne soltanto un paio delle nostre, miracoli di progettazione e marketing come la Vespa e la Lambretta, ma anche una schiera di alternative molto meno note, alcune delle quali sembrano provenire da un letterale universo alternativo, dove i crismi del design rispondono a ragionamenti simili, ma diversi. Uno di questi è senz’altro la creazione più celebre di Vincent (Vincenzo) Piatti, ingegnere di origini milanesi capace di formarsi sotto la supervisione di Ettore Bugatti e successivamente emigrato in Inghilterra, con il nome collegato ad una pletora d’importanti brevetti in campo motoristico, ma la cui celebrità deriva principalmente da una strana e memorabile proposta, quasi anacronistica dal punto di vista estetico e funzionale. Lo “scooter”, chiaramente o per esteso il Piatti Scooter da 125 cc, concepito a quanto pare inizialmente nel 1949 sull’ondata delle molte imitazioni dei prodotti più famosi che proliferarono in quegli anni in Europa, ma con l’aggiunta di alcuni significativi espedienti tecnologici di sua personale ed esclusiva concezione. A partire dalla forma stessa del veicolo, non facilmente riconducibile ad alcun tipo di forma ciclistica, bensì costituito da una forma a sigaro con ruote molto piccole e quasi del tutto coperte, da cui emergeva lo scudo verticale per le gambe ed un sellino strutturalmente simile ad un fungo, abbastanza ampio da ospitare il passeggero di turno. Soluzione, questa, che permetteva di regolarlo facilmente in altezza, così come lo stesso poteva essere fatto col manubrio e le sospensioni della ruota posteriore con trasmissione a catena in un bagno d’olio, che potevano essere regolate su tre livelli in base alla propria preferenza. Il motore stesso, inoltre, era ammortizzato indipendentemente dal guidatore, aumentando sensibilmente la confortevolezza durante la marcia. Notevole anche il sistema di raffreddamento, concepito per incanalare l’aria e veicolarla a partire dalla griglia frontale, superando teoricamente in questo modo uno degli ostacoli principali all’utilizzo di motociclette simili in estate, sebbene tale approccio sarebbe stato destinato a rivelarsi occasionalmente insufficiente nel clima caldo dell’Europa meridionale. Il che ebbe un’importanza soltanto relativa, quando il primo produttore a interessarsi al suo progetto si rivelò essere soltanto nel 1954 una fabbrica e società d’investimenti in Belgio, la D’Ieteren già celebre per le sue carrozze verso la metà del XIX secolo poi trasformatasi in rinomata importatrice di veicoli a motore provenienti da una significativa parte del mondo di allora…
La storia personale di Vincent Piatti risulta essere, in effetti, alquanto vaga e nebulosa soprattutto per quanto è reperibile su Internet, sebbene sia possibile ricostruirne gli spostamenti almeno in parte sulla base dei successi del suo veicolo più famoso. Un traguardo che tardò ad arrivare inizialmente, con la stipula originaria per 5.000 esemplari costruiti destinata a realizzarsi soltanto in minima percentuale (si dice tra i 200 e 300) anche in forza di una mancanza di campagne pubblicitarie veramente efficaci e la veemente resistenza della stampa di settore. Il problema principale riportato, da parte dei suoi possessori, era a tal proposito l’unica maniera in cui risultava possibile accedere al motore del motociclo, raggiungibile coricandolo sul fianco dopo aver chiuso un’apposita valvola del serbatoio, operazione chiaramente complessa in strada e che presupponeva di sdraiarsi a fianco al veicolo in qualsiasi luogo ci si trovasse, metodologia decisamente poco pratica rispetto a quella di un motorino dalla foggia maggiormente convenzionale. Tutti problemi, effettivamente, destinati a passare in secondo piano nel giro di un paio d’anni, quando Piatti stipulò un secondo contratto di licenza con la compagnia inglese Cyclemaster per questo ed un altro prodotto, il suo motore compatto pensato per essere montato sulle biciclette, destinati entrambi a raggiungere un certo grado di transitorio successo. Un tipo di approccio allo spostamento individuale già facente parte, in effetti, della storia di tale azienda, nata originariamente nel 1948, quando un gruppo d’ingegneri tedeschi incaricati di produrre una vettura con motore a due tempi in Olanda furono arrestati come prigionieri di guerra, le loro carte sequestrate dall’ente internazionale dell’Interpro Buro ed infine restituite, permettendo la tardiva produzione del sistema M13, una ruota ciclistica dotata di sospensioni ed impianto integrato per sostituire l’energia della pedalata umana. Così che il sistema di Piatti, decisamente più moderno e versatile, si rivelò a partire dal 1956 un moderato successo, essendo di concerto accompagnato dalla sua personale interpretazione dello scooter realizzato ad hoc, l’improbabile apparecchio tutto-in-uno recante il suo nome. Molte parole sono state spese, tra i collezionisti, in merito all’evidente superiorità della versione belga rispetto a quella messa su strada in quel frangente in Inghilterra, dotata di un motore molto meno affidabile e l’inquietante propensione a perdere viti e bulloni sul terreno più accidentato, a causa degli impropri alloggiamenti utilizzati per tenerne assieme alcune componenti della carrozzeria. Poco sembrò importare, inoltre, la notevole difficoltà di guida, esacerbata da un baricentro insolitamente basso, le ruote piccolissime ed il raggio di sterzata molto, troppo stretto, tale da indurre facilmente a perdere il controllo del veicolo nelle curve a bassa velocità. Tanto che anche grazie alle reiterate campagne pubblicitarie, condotte con l’esperienza non trascurabile della Cyclemaster detentrice tra le altre cose di un contratto con l’etichetta discografica EMI, lo scooter Piatti viene riportato aver raggiunto i circa 15.000 esemplari venduti a seguito della sua commercializzazione in Gran Bretagna, fino alla chiusura della fabbrica nel 1958. Mentre il suo mini-motor ciclistico avrebbe proseguito ad avere un mercato di nicchia ancora per qualche anno, grazie alla produzione da parte della Trojan londinese, già importatrice rinomata dei prodotti Lambretta.
Viene spesso fatta notare, dagli storici dei motori interessati alla vicenda di Vincenzo Piatti, la maniera paradossale in cui egli sia famoso per uno dei suoi prodotti ingegneristici più esteticamente distintivi, ma tutto considerato anche quelli di minor impatto duraturo nel tempo. Soprattutto se messo a confronto con il più importante, definito come sistema TSCC o “Twin Swirl Combustion Chamber” un particolare tipo di testa del cilindro dotata di quattro valvole ed un profilo in grado di favorire una circolazione verticale dell’aria sottoposta a compressione, effettivamente capace di migliorare le prestazioni e ridurre i consumi delle moto prodotte a partire dall’inizio degli anni ’70. Così che l’eclettica figura di questo ingegnere italiano non trovò particolari difficoltà ad individuare un acquirente per il suo brevetto nel gigante giapponese della Suzuki, che stipulò un proficuo accordo per pagargli una piccola percentuale su ciascun singolo motore prodotto in base al suo suggerimento, tale da permettergli di accumulare risorse finanziarie tutt’altro che indifferenti.
Pur dovendo ribadire come chiare nozioni sulla sua vita personale siano poco evidenti online, Piatti compare brevemente in un articolo del blog Cyclemaster.Wordpress, il cui autore anonimo cita l’e-mail di un suo amico che diceva di conoscerne la famiglia, che si era trasferita in Sardegna successivamente all’acquisto di un vigneto, in prossimità del quale l’inventore dello scooter praticava ancora il windsurf, mentre disegnava ancora valide soluzioni motoristiche in tarda età. Forse il miglior tipo di epilogo possibile, per la figura di un personaggio che il mondo dei motori sembrerebbe aver dimenticato nel caotico periodo del boom economico. Quando bastavano una penna ed un cervello fervido, per veder messe in pratica le proprie idee. Ed ancor più di adesso, riusciva ad emergere chi aveva basi solide ed un contributo valido ai trasporti veicolari dell’umanità.