Il malessere dell’uomo gufo

Lord of Tears

Il concetto alla base di questo mostruoso scherzo è che la paura fa presa maggiormente quando arriva per gradi. Due colpi di pistola in lontananza, lo schiantarsi fragoroso di un veicolo contro un palazzo: questi sono semplici spaventi. L’uomo della strada, camminando verso casa, li percepisce trasalendo, indubbiamente resta male e teme il peggio. Però poi procede, come niente fosse. Beve per dimenticare, guarda la tv. Molto peggio sono quelle cose che soltanto in parte, per un tragico capello, fuoriescono dal tipico ventaglio della quotidianità; il pianto di un bambino fuori dalla stanza, quando sai benissimo che in casa ci sei solo te. Lo squillo del cellulare mentre sei a cena, con una voce che ti fa: “Non osare approfittarti di mia figlia” Quando, tu lo sai benissimo, suo padre è deceduto da sei anni. E allora chi c’era all’altro capo del telefono? THEN, baby, who was phone? Ed è proprio questo il bello: la flessione semiotica di una tale benedetta quotidianità. Per noi semplici mortali, sarebbe casa & chiesa, tre pasti & due trasferte. Mentre certi altri, gli esploratori delle cose abbandonate, rovine marcescenti, porte scardinate, buchi veramente preoccupanti, possono ricostruirla in molti luoghi. Come il generico “St. Mary’s Children Hospital” (un nome più polivalente, questi pubblicitari internettiani, non potevano inventarselo) dove a quanto pare, giorno dopo giorno, venivano aspiranti documentaristi. Ispettori Gadget della fotocamera, con borsa, cappellino, tracolla e cavalletto, presumibilmente pronti per narrare ai loro amici di Facebook l’incredibile esperienza, tra le povere vestigia delle vittime innocenti. Dopo. Prima che arrivasse l’uomo gufo.
Ora, che fra tutti gli animali dell’ambito rurale, fin dall’epoca antica il più temuto fosse l’asio otus, può sembrare molto strano. Il rapace notturno per eccellenza, con le orecchie a ciuffetti e il gran cappotto piumato, oggi è il beniamino degli innumerevoli spezzoni e dolci testimonianze dei rifugi ornitologici. Tutti vorremmo dargli del mangime con il cucchiaino, a un bel pulcino, bravo uccellino e così via. Ma immaginatevi sei o sette di quelle piccole creature, appollaiate sopra un ramo, nel profondo buio della notte. Quando lo sguardo bipede diventa meno penetrante, i loro volti piatti, con gli occhi grandi e tondi, il profilo tondeggiante, potrebbero sembrare… Anche demoni o presenze dello spirito selvaggio, dei della natura. Un movimento inspiegabile ai margini della coscienza! Forse proprio un’esperienza simile fu alla base della leggenda del mostro della cornovaglia, avvistato da due generazioni del villaggio di Mawnan, una sorta di rapace umano con ali artigliate, l’ultimo dei grandi criptidi europei.
Così questi visitatori non autorizzati erano lì, per divertirsi. Ridendo e scherzando, procedevano nel gioco programmato, finché nella stanza non s’insinuò la forma immobile dei nostri incubi ancestrali. Se si fosse mosso rapidamente, avesse tentato di aggredirli, tanto più facile sarebbe stato spaventarsi e poi dimenticare. Procedendo con incedere metodico e tranquillo, invece, quello li ha terrorizzati.

Last Summer
Lo scherzo realizzato per il film statunitense The Last Summer si basava sugli strani incontri che si fanno dentro ai bagni di Autogrill. Una valigia piena di sangue finto, talvolta, sarebbe un gran miglioramento.

È comunque indubbio che l’aver paura piace, soprattutto perché fa crescere. Quando i nonni dei nostri nonni, con cipiglio torvo, battevano sotto il tavolo da pranzo, facendo al bimbo: “Lo senti l’uomo nero che bussa? È venuto perché non vuoi mangiare la tua zuppa!” Qualche volta i loro figli non piangevano. Facendo un volto serio, e rabbioso, rinunciavano alle cipolla per la vita intera. Giurando vendetta, sicuri, per la prima volta, di qualcosa nella vita. Tutti vorrebbero ricatturare quel momento. Non è facile cambiare.
Un j’accuse per i sapienti tecnici del marketing cinematografico: basta scherzi crudeli per la truce macchina da presa! Basta neonati demoniaci, bambole Chucky che spuntano dai cartelli retro-illuminati, ragazze psicop..pardon, psichiche, che rovesciano i tavoli meccanici del bar. Se coinvolgere il pubblico vuol dire creare nuove connessioni, tra sinapsi sovraccariche come le nostre, allora originalità è virtù. Questo tipo di campagna pubblicitaria, la candid camera probabilmente recitata (perché i bypass cardiaci costano, per non parlare delle onoranze funebri) sta diventando ormai un passaggio topico e obbligato. Non solo i film orrorifici, ma pure i canali tv, persino le bibite gassate, vi ricorrono talvolta. Certo, i milioni di visualizzazioni possono far gola ai produttori. Ma non vorrei scommettere che tutta quella gente, alla fine, sia poi così interessata all’opera o al prodotto. Questo è il punto debole di tali spot virali: il diffondersi come l’influenza, a guisa del vaiolo, piuttosto che orientarsi selettivamente verso un target definito. Su 100, 1000 persone, qualcuno-sarà-quello-giusto, secondo simili dettami. Ma non sarebbe stato meglio raggiungere direttamente quel “qualcuno”?
L’estetica, nonché soprattutto le movenze dell’uomo gufo, inspiegabile antagonista del film scozzese Il signore delle lacrime, ricordano vagamente un vero classico del web: Slenderman, l’uomo sottile. Una figura in abito elegante, molto più alta di una persona comune, che si aggirerebbe per i boschi in cerca di una vittima da ghermire. L’aspetto interessante di quel personaggio, nato dalle storie scherzose raccontate sui forum e gli altri luoghi d’incontro digitale, è che non lo vedi mai mentre si muove. Girandoti verso di lui, all’improvviso, te lo trovi accanto. E poi… Beh, devo continuare? Scaricatevi l’eccelso videogame, che tra l’altro è anch’esso fonte di gustosi e buffi reaction video, fra gente basìta e grida di terrore. Nelle giornate cupe, mentre fuori piove, un gioco simile può dar lavoro a medici cardiologi di spicco. Mentre i gufi guardano, curiosi.
L’origine memetica degli esseri mostruosi non è cosa nuova. Internet ha creato un ambito in cui si diffondono leggende urbane, racconti e strane storie, non dissimile da quello dei cantori antichi. È uno strano mondo, questo in cui vivamo, in cui tutti per la prima volta scrivono, però, come se stessero parlando. Foglie perse nella pioggia, che svaniscono tra centomila megabytes, per poi ricomparire ma diverse. Sono sempre nuove le leggende, eppure ricorrono quei temi e metodologie. Il babau, l’uomo nero, bugbear, ursul, babugeri e così via. Personificazioni del concetto di uomo selvaggio abbondano dalle Alpi ai Pirenei, attraversano gli oceani ed i deserti. Il fotografo francese Charles Fréger ha realizzato l’anno scorso una serie di fotografie, in giro per l’Europa, dei costumi usati per rappresentarli. Indossati nelle feste di paese, questi tributi a culti pagani mai davvero dimenticati, parlano un linguaggio che è comune a tutti noi. Lo stesso delle candid web-alternative, però senza Red Bull, Fanta, Coca-Cola… Il mistero assoluto, quando rispettato, è tanto più sincero e affascinante.
Nonché maligno, giustamente. 

Babugeri
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Cerbul
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Freger
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Juantramposo
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