L’essere procede senza sosta verso un obiettivo di tipo largamente ignoto. Ripreso prima da un qualcosa di veloce in grado di seguirlo nelle sue roboanti curve ed evoluzioni, quindi dall’alto grazie all’uso di un conveniente elicottero (sempre più raro nell’epoca dei droni) il ciclista Alexandre Favre percorre il sottile nastro d’asfalto tra bassi guard-rail e una parete ruvida e scoscesa, assecondando l’andamento di una complicata progressione tra asperità mondane. D’un tratto, come un abbaglio, si spalanca innanzi l’ampia bocca di una caverna. È un breve tunnel, a cui ne segue un altro, e un altro ancora.
Luci ed ombre che s’inseguono, sinuose, come scaglie di un serpente senza capo né coda. Come i casi alterni e le vicende della vita, i devastanti eventi storici che assieme riescono a costituire la storia di un luogo. Così appare Derborence, in Svizzera: un luogo. O punto di passaggio, e d’incontro, tra il mondo naturale e quello frutto delle ambizioni e i desideri di chi ci vive, attraverso l’impiego della più classica interfaccia dei siti montani. La strada, che s’insinua tra gli alti picchi delle Alpi grazie all’uso pregresso di potenti mezzi da costruzione, esplosivi e intraprendenza, avvicinando in modo significativo i punti collocati sull’estendersi della linea procedurale; tra partenza ed arrivo. Tra l’azione e la reazione. Tra il sopra ed il sotto, nell’imitazione pallida ma pregna dell’evento che potremmo individuare come origine di tipo mitologico di un sito tanto ricco di fascino e validi elementi di distinzione. Poiché Derborence risulta essere per chi lo visita nei giorni dell’odierna circostanza, soprattutto quel particolare specchio d’acqua montano, isolato, non vastissimo, trasparente e ricco di un fascino paesaggistico notevolmente distintivo, che compare molto spesso sulle cartoline e nei racconti dei viaggiatori di mezza Europa. Ma non quelli, ciò è assolutamente determinante, che siano passati da queste parti prima del 23 giugno 1749, quando la seconda di due grandi frane avrebbe trasportato giù dalle montagne antistanti di Rochers e Scex de Champ circa 50 metri cubi di rocce, terra e ghiaia. Investendo le tranquille pendici, spazzando via più di 40 malghe usate dai pastori nella stagione della transumanza, cambiando il percorso di almeno tre diversi fiumi. E scivolando giù fino alla valle sottostante, che avrebbe perciò perso la sua precedente permeabilità. Diventando pozza triangolare, di tipo endoreico, all’interno della quale un giorno sopravviveranno specie ittiche di varia natura. Benché data l’origine straordinariamente recente di una simile caratteristica topografica, il primo e più immediato effetto della circostanza si sarebbe configurato su un processo di tipo radicalmente diverso: la spontanea nascita, e conseguente crescita, della più giovane foresta vergine dell’intero territorio della Confederazione. Teatro d’innumerevoli escursioni rilassanti ed interessanti, in mezzo un patrimonio faunistico degno di nota, meraviglie botaniche di varia natura e i segni apprezzabili degli sconvolgimenti geologici pregressi, tra cui macigni erranti ed un monumentale ghiaione, pendio roccioso popolato da intere schiere di Pyrrhocorax graculus, l’uccello nero passeriforme più comunemente identificato con il nome di gracchio alpino. Non che tutto questo d’altra parte, sembri interessare in modo particolare il protagonista del nostro video né il regista del caso, lo specializzato Emanuel Schafer che, possiamo solamente immaginarlo, avrà apprezzato l’occasione di percorrere la stessa strada a bordo della propria bicicletta di un tipo non del tutto convenzionale. Attraverso le ripide discese ed irte svolte di un percorso il quale, d’altra parte e proprio come ci si aspetterebbe in uno dei più prosperosi paesi del Mondo Occidentale, appare in un perfetto stato di manutenzione riducendo i rischi collaterali dell’intera corsa folle. Il che costituisce, dopo tutto, il più evidente ed innegabile segno della sconfitta di colui che in prima persona si credette, all’epoca, aver causato il rovinoso evento trasformativo all’origine della questione. L’essere di tipo chiaramente sovrannaturale, che troviamo come nesso del ragionamento dietro il nuovo nome dei picchi antistanti il lago di Derborance: i temibili, nonché famigerati, Diablerets, ovvero letteralmente le montagne del Diavolo in persona. Sulla base di una credenza folkloristica la quale, per quanto poco probabile da un punto di vista meramente materialistico, merita senz’altro di essere citata…
Narrano le guide turistiche di tipo maggiormente approfondito (e per il resto, possiamo soltanto presumerlo, possiamo affidarci unicamente alle narrazioni orali) che nei tempi antichi diversi tipi di creature sovrannaturali vivessero nei luoghi più elevati, lontano dagli insediamenti umani sottostanti e addirittura i più remoti rifugi e luoghi di stoccaggio del bestiame, la cui presenza risultava udibile grazie all’occasionale rullo di tamburi, oppure esemplificata dalle singolari volute create dalle nubi al contatto con le loro residenze antiche. Esseri come i diavoli che risiedevano rispettivamente nei cantoni Vallese e Bernese, in uno stato di perenne conflitto sui confini propri territori assegnatogli da Lucifero in persona. Una guerra combattuta talvolta tramite l’impiego di armi, certe altre basata sul risultato di particolari giochi di loro invenzione. Come quello giunto al culmine all’inizio del XVII secolo, consistente in una sorta di partita a bowling combattuta tramite l’impiego di macigni spropositati e speroni di roccia facenti la funzione di birilli. Se non che i buoni geni e protettori ancestrali della Valle, nel tentativo disperato di preservare i loro abitanti umani ed animali, erano riusciti fino a quel momento a frapporsi tra l’incombente devastazione e il trascorrere inconsapevole delle generazioni. Se non che bastò un attimo di distrazione, o l’eccessiva forza di un particolare lancio, perché l’intera zona precipitasse irrimediabilmente verso il disastro. Le frane coinvolte nella devastazione di Derborence, con conseguente nascita del lago, furono in effetti due, la prima delle quali capace di costare la vita a 16 persone e una quantità spropositata di mucche, pecore ed altri componenti animali dei loro armenti. Arrivando a spostare l’inusitata massa di pietre per un’escursione verticale di 400 metri, per formare la barriera di 1,8 chilometri che oggi costituisce l’argine dell’affascinante lago. Non che quest’ultimo abbia una forma chiaramente definita, né duratura nel tempo, essendo immancabilmente soggetto all’ampliamento e successiva riduzione sulla base delle piogge stagionali, cambiando spesso forma tra un triangolo, un ellisse, una pozza di tipo per lo più triangolare. Mentre la rigogliosa foresta circostante di pini, larici, salici, pecci ed abeti continua a crescere con palese determinazione, traendo il beneficio massimo dalla normativa creazione di una zona d’esclusione ecologica a partire dal 1911, in un’area che si estende entro 152 Km quadrati. Entro la quale non soltanto è severamente vietata la costruzione di edifici, fatta eccezione per il locale resort e ristorante con vista lago (forse, addirittura, pre-esistente?) ma anche ogni tipo di caccia, una scelta probabilmente all’origine dell’estrema biodiversità locale.
Luogo relativamente poco visitato all’inizio dell’epoca moderna, principalmente per la sua collocazione non particolarmente raggiungibile e la natura difficoltosa della strada atto a raggiungerlo, il lago e l’intera valle di Derborence avrebbero tuttavia goduto di un’estrema e valida pubblicità a partire dal 1934, grazie all’impiego come scenario e titolo di un romanzo da parte del famoso scrittore nazionale Charles-Ferdinand Ramuz, di un successo comprovato a tal punto da essere in seguito candidato al premio Nobel per la letteratura nel 1945. Un racconto filosofico e struggente della difficile vicenda personale di Antoine Pont, pastore delle Alpi Svizzere recentemente convolato a nozze con un’abitante di un insediamento vicino. Il quale trovandosi con gli armenti di famiglia e lo zio recentemente acquisito sulle pendici di quelli che sarebbero di lì a poco diventati i Diablerets , finì per essere coinvolto nella prima delle due frane, restando bloccato sotto una roccia ma miracolosamente illeso. Riuscendo a liberarsi soltanto dopo svariati giorni e fatto ritorno al suo villaggio, tra la sorpresa gioia della sua consorte, egli sarebbe tuttavia stato scambiato dagli abitanti per un fantasma ritornato dal regno dei morti, con diffidenza uno spontaneo senso di terrore superstizioso. Sino al punto di decidere, su due piedi, di tornare disperatamente sulle montagne per cercare di salvare anche lo zio, benché la sua sopravvivenza fosse ormai del tutto impossibile. Fino alla scena culmine, presente anche nel film del 1985, in cui soltanto l’amore e la capacità persuasiva dell’amata consorte l’avrebbero portato a rinunciare, facendo finalmente ritorno a tutti gli effetti nel mondo dei viventi.
Folletti malefici e pedali, corse e giochi tra le nebbie delle altitudini montane. Quale miglior premessa, per una sequenza in grado d’ipnotizzare e coinvolgere lo spettatore digitale? Peccato solamente per la brevità del video di Schafer, che d’altra parte si configura a pieno titolo nel particolare linguaggio ultra-rapido dell’Era di Internet, sempre disinteressata a ogni possibile approfondimento o spunto di auto-documentazione collaterale al singolo istante. Poiché in fondo niente di tutto questo effettivamente risulta funzionale, all’esperienza immaginifica di ritrovarsi al posto di quei protagonisti dalla sella fiammeggiante, disposti a mettersi a rischionella pratica di ciò che giudicano, e noi con loro, estremamente importante. Poiché dove c’è l’uomo intento a fare ciò che ama, non può esserci il Diavolo. E viceversa… A meno che non siano entrambi, a volerlo.