Tra i recessi del terreno semi-arido agli estremi margini della savana, presso la Namibia, lo Zimbabwe, il Sudafrica, una pianta in mezzo a molte altre aveva lungamente suscitato la perplessità degli scienziati: la zucchetta per la prima volta descritta nel 1927 con il nome Cucucumis humifructus, inserita per la superficiale somiglianza del suo frutto nello stesso genere del cantalupo, il tipico melone dei nostri pranzi d’estate. Ma mai coltivato e virtualmente impossibile da coltivare, causa il singolare comportamento botanico che caratterizza una tale specie, per così dire… Sepolta. Con l’approccio morfologico di un rampicante, quasi sempre privo di un punto d’appoggio, la piantina cresce dunque in parallelo al suolo, rapida e piena d’intento. Fino alla necessaria costituzione del peduncolo a forma di freccia, che istantaneamente inizia a spingere in maniera perpendicolare verso il basso. E fin qui niente di strano, almeno in linea di principio. Benché rara, la fruttificazione occulta è una legittima soluzione evolutiva, usata per esempio dalle arachidi per mantenere i propri semi al sicuro dalle fluttuazioni climatiche e lo sguardo indiscreto dei predatori. Eppure a seguito di un mero studio coscienzioso, a circa cento anni dalla data odierna già i naturalisti giunsero a notare la sostanziale anomalia di fondo. Giacché l’humifructus, diversamente dai 4-5 centimetri scavati in condizioni ottimali dall’Arachis hypogaea, aveva la tendenza a spingersi a profondità di fino a sei volte tanto. Semplicemente troppi perché la pianta risultante dal processo riproduttivo monoico (un solo individuo, fiori di entrambi i sessi) potesse aspirare a sopravvivere fino alla gloriosa emersione, a questo punto comparabile alla mano stereotipica che sbuca con un trillo roboante, nei film sui morti redivivi che tornano a camminare sulla Terra. E ciò senza entrare neppure nel merito della quantità di energia inerentemente maggiore che occorre per spezzare ed aprire letteralmente un peponide, la categorie di bacche sovradimensionate dalla dura scorza cui appartiene per l’appunto il melone. Dopo un primo periodo di smarrimento, fu perciò a partire dagli anni ’60 e per il tramite di ecologi del calibro di J. H. Grobler e Richard Cowling, che si pensò per la prima volta a volgere lo sguardo in direzione del sapere popolare degli indigeni all’interno di quel vasto areale di appartenenza. Tra i quali vigeva l’usanza, fin da tempo immemore, di definire tale frutto con l’appellativo nelle rispettive lingue di “Melone del maiale di terra/aardvark.” Il caratteristico formichiere notturno dal lungo naso serpentino, le orecchie da coniglio, il corpo tozzo e le unghie straordinariamente sviluppate. Una creatura equipaggiata in modo pratico dalla natura, in altri termini, per scavare al di sotto della nuda superficie della fertile torba equatoriale…
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Perché tenere a bada la fatale tentazione costituita dal decapode pancake della barriera corallina
Labile diviene la parete che divide gli ambiti fondamentali del ragionamento, mentre ci si trova immersi nell’onirico universo tra il tramonto e l’alba. In una tenebra capace di segnare il passo dei momenti, rovesciandomi tra le coperte di una febbre del solstizio stagionale, ho così visto l’ora del sollievo al termine della scalata, un tavolo e una sedia, un piatto candido, il dolce circolo dell’uovo trasformato con lo zucchero, farina e lievito color di un campo di grano. L’aguzzo susseguirsi a forma di parabola, del metallico implemento nella mano destra, intento a infiggersi nel primo candido boccone, percepii d’un tratto il senso dell’aumento di pressione fino al timpano dei padiglioni auricolari. Il piacevole paesaggio alpino era scomparso, rimpiazzato dal groviglio variopinto del pelagico consorzio senza requie, l’iniqua soggiacenza brulicante che nuota, zampetta e fluttua in mezzo alle molecole permeate da due atomi d’idrogeno (H2) ed un terzo costituito dall’ossigeno (O) salmastro sotto il mare senza nome di quel tempo incerto. E allora vidi, come fosse il più normale dei frangenti, il piccolo pancake che cominciava a trasformarsi, muovendosi in maniera erratica da un lato all’altro dello spazio a lui preposto. Otto erano i suoi arti per la pratica deambulazione, ed ulteriori due, pronti a ghermire le precipue particelle entrate nel suo cono d’attenzione. Vivo, esso era e come ogni altro essere del brodo primordiale, asceso fino all’invincibile prassi somatica del granchio dalle circostanze avìte. Eppure qui ebbi l’immediata percezione; di appoggiare la posata a lato di quel piano; di arretrare lentamente, ritornando fino al vuoto dell’assenza di elucubrazioni oniriche. Poiché se solo io l’avessi per un attimo assaggiato, la morte si sarebbe palesata lungo il mio cammino. In un’umida pioviggine, a Natale.
Cosa è questo e dove nasce, dunque, fatta l’eccezione per le pagine di Internet plasmate dalla tipica condivisione collettiva del “forse non sapete che…?” Potendo sembrare un valido prodotto dell’intelligenza artificiale, almeno finché non ci si approccia alla questione dall’angolazione accademica, associando una forma e un volto al rilevante binomio latino: Atergatis integerrimus, comunemente detto il “granchio dell’uovo rosso” o in modo ancor più discorsivo, crostaceo morbidissimo, un pancake. Pacifico abitante dell’Indo-Pacifico, spesso avvistato sulle coste dell’Asia Meridionale successivamente a una tempesta o altro evento meteorologico, benché il suo habitat maggiormente tipico includa le profondità fino ai 200 metri dalla superficie, là dove gli assembramenti di anthozoa costruiscono le proprie variopinte città in mezzo alla sabbia sempiterna. Ricordandoci di come in base al novero di Bates (1862) e Poulton (1890) l’aposematismo sia un fattore che preannuncia gravi conseguenze situazionali. Come quelle che innegabilmente attendono, chiunque sia abbastanza folle da far più che ammirare dalla semplice distanza, lo scarlatto, placido abitante d’impossibili affollati diners tra i deboli raggi verticali all’epilogo di questa Valle addolorata…
Il mistero in bilico tra guerra e religione del castello sull’alta scogliera irlandese
Esiste all’insaputa di molti una precisa origine mitologica del popolo dell’Isola Verde, profondamente ispirata ai testi religiosi dell’epoca medievale. Redatto da una pluralità di autori dall’identità ignota, il Lebor Gabála Érenn (“Libro della Presa d’Irlanda”) narra dei sei gruppi di coloni che s’insediarono attraverso i secoli su questa terra, tra cui figurano i potenti Tuatha Dé Danann, druidi o stregoni destinati in seguito ad ascendere allo status primordiale di divinità pagane. Ma è la vicenda della quarta etnia in questa cronologia non del tutto verificabile, quella dei Fir Bolg, ad aver più lungamente colpito ed affascinato gli studiosi, grazie alla preponderanza di testimonianze archeologiche possibilmente riconducibili alla loro pregressa esistenza. Nel testo si narra dunque di questo popolo perseguitato a seguito della sconfitta dei predecessori Nemed ad opera degli agguerriti Fomori, e di come un gruppo sopravvissuto di appena 30 capi tribù fuggirono verso la Grecia, dove sarebbero rimasti per 230 anni fino a un’epoca grosso modo corrispondente a quella dell’Esodo Israelita. Per poi tornare finalmente alla loro nordica versione della Terra Promessa, che avrebbero nuovamente abitato suddividendola in cinque provincie. Ed in effetti molti sono i cathair o dún capaci di giungere ragionevolmente intatti fino ai nostri giorni, le loro fortezze circolari costruite principalmente con la tecnica dei muri a secco, da cui le disparate tribù avrebbero governato, non disdegnando di tanto in tanto di farsi la guerra. Ma c’è un luogo in particolare, situato sul bordo estremo di una tale civiltà a cavallo tra l’epoca del Bronzo e quella del Ferro, per cui aver partecipato direttamente a un conflitto sembra particolarmente improbabile. Chi avrebbe mai cercato di conquistare, d’altronde, l’isola costiera di Inishmore (antico irlandese: Árainn) erboso zoccolo calcareo formatasi nel Carbonifero, priva di particolari vantaggi paesaggistici o vantaggiose fonti d’irrigazione… Eppure sussistono ben pochi dubbi su come nel novero dei complessi militari in questione, nessuno raggiunga la grandezza, possenza e grandiosità monumentale di Dún Aonghasa dalla triplice cinta muraria che copre un territorio di ben sei ettari, la cui collocazione in cima a una scogliera situata a 100 metri sopra il mare è bastata a renderlo una delle mete turistiche più amate di tutto il paese, particolarmente tra le foto “da Instagram” in cui ci si avvicina con sprezzo del pericolo al ciglio del burrone, accantonando momentaneamente qualsivoglia remora o timore innato per le altezze vertiginose. Il che tende ad appiattire, tra i visitatori, la meditazione approfondita su un qualcosa che non può essere spiegato pienamente tramite l’approccio accademico che tende a trarre solide basi dalla convenzione…
Giù nella città di pietra ortogonale, creata dai conflitti senza tempo della natura
Solida interruzione perpendicolare nel deserto, la fortezza si erge silenziosa a una distanza ragionevole da ogni traccia residuale di attuali o precedenti agglomerati umani. Eppure può essere immediatamente perdonato, chiunque ceda all’immediata tentazione di qualificarla come costruzione realizzata sulla base di un piano preciso. Troppo esatte quelle proporzioni, troppo regolari, così costruite con riguardo nei confronti degli spazi necessari a transitare tra un blocco e l’altro, esplorarne a piedi le sommità levigate. Alla ricerca di un qualche possibile significato, rituale, militare o religioso, per quanto è in grado di evocare immagini di schiere armate di piccone, mazza ed altri attrezzi per tagliare il rosso ruvido dell’arenaria. Pietra simbolo ed onnipresente materiale, così disseminato nella vasta terra pianeggiante del Plateau del Colorado, capsula del tempo geologico anticamente sottoposta a quel vertiginoso sollevamento durante l’orogenesi laramide (60-80 mya) per poi cristallizzarsi in un processo irreversibile di litificazione. Non che il concludersi della compenetrazione tra le faglie, pur ponendo una battuta d’arresto all’emersione di catene montuose ed altre svettanti caratteristiche del paesaggio, voglia dire la perenne e sempiterna cessazione di ogni tipo di modifica ulteriore. Così come tende a desumere nel suo discorso esplicativo lo youtuber Noland Fisher del “The Pov Channel” impegnato ancora una volta nel raggiungere qualcosa di notevole che si è trovato a scorgere durante le ore di consultazione critica dei miliardi di foto satellitari componenti il vasto repertorio di Google Earth. Non senza strizzare l’occhio, in maniera quasi doverosa viste le circostanze, nei confronti dei molti teorici e cultori internettiani della pregressa esistenza di civiltà perdute, visitatori extraterrestri ed altre simili amenità para-scientifiche. Prospettive largamente agevolate dal tipo di scorci che compongono questo suo video, in cui sceglie di avventurarsi tra le pietre e in mezzo ad esse, fin dentro i canyon sottili tra quello che avrebbe potuto facilmente costituire un valido esempio di architettura megalitica posta in essere grazie all’opera d’intere schiere di scultori animati da un principio operativo condiviso. Se non che l’intero insieme appare di suo conto allineato, sulla convergenza dei fattori precipui, ad un tipo di fenomeno tutt’altro che inaudito nel suo ambito geografico di appartenenza. In un modo che consegue da particolari e non del tutto ripetibili condizioni della Terra stessa…



