L’audace muggito che accoglie l’inverno scozzese


Tra le immagini maggiormente rappresentative della primavera, ce n’è una in particolare che ricorre nell’immaginario di chiunque conosca, anche di sfuggita, la vita in una fattoria di medie dimensioni. Sto parlando del momento gioioso in cui le mucche, dopo un’inverno trascorso al chiuso, vedono aprirsi le porte che conducono ai pascoli, ricevendo finalmente l’opportunità di sgranchirsi gli zoccoli e consumare un po’ l’erba fragrante dei loro ricordi migliori. E raggiunto ordinatamente quel luogo, progressivamente si suddividono in capannelli, festeggiando gioiose con salti, rovesciamenti del muso e l’udibile richiamo del loro muggito. Ma non tutto il bestiame è creato uguale. Ne a dire il vero, deriva dagli stessi identici meccanismi generativi. Chiunque si avventurasse con abiti pesanti nel territorio delle Highlands, a settentrione dell’isola principale del Regno Unito, tra settembre e maggio, potrebbe imbattersi nel più fantastico degli edifici. Quello che tradizionalmente veniva definito il fold, poco più di un ripario dalle intemperie adibito all’impiego al parcheggio a lungo termine del bestiame. E con parcheggio intendo l’appoggio in caso di pioggia o tormenta, senza alcuna forma di vera e propria prigionia. Poiché tali depositi, diversamente dalla stalla dei climi più caldi, sono aperti generalmente su un lato o due, permettendo agli animali d’entrare o uscire liberamente all’interno di un’area recintata. E osservando per un tempo sufficiente tale creazione architettonica, l’ipotetico turista avrà modo di scorgere, prima o poi, la sagoma altamente caratteristica dei suoi abitanti. Il grande muso tondeggiante, con la testa coperta da una frangia simile a quella del cane Bobtail. Con quelle corna ricurve, acuminate quanto le claidheamh, grandi spade impiegate dai guerrieri medievali di queste terre. Per fare strada al resto del corpo, di un animale di circa 800 Kg, che cionondimeno apparirebbe persino snello e scattante, non fosse per il folto manto che lo ricopre, come la pelliccia di una renna o uno yak.
Delle Heilan coo, o mucche delle regioni montuose di Scozia, si è spesso detto che sono in grado d’ingrassare laddove nessun altra tipologia di bovino, generalmente parlando, riuscirebbe neppure a garantirsi la sopravvivenza. Una propensione questa garantita non soltanto dalla loro palese resistenza al gelo, ma anche per la capacità di fagocitare, con lieto trasporto, erba secca, sterpaglie, piante coriacee al limite del commestibile. Tanto che basta una riserva di fieno comparabilmente insignificante, per giungere senza incidenti alle prime avvisaglie della prossima primavera. Le sue origini sono particolarmente antiche, con il primo albo della razza risalente al VI secolo a.C, quando un ignoto studioso medievale le suddivideva in due sotto-tipi, stanziali di colore rossiccio e “Kyloe”, più scure, piccole e idonee ad essere tenute presso i gelidi territori delle isole a settentrione, battute dai venti di provenienza artica del tutto incapaci di perdonare. Ma la loro provenienza ancestrale è stata tracciata, con ragionevole grado d’errore, ben più addietro, giungendo fino al Bue Amitico dell’Età delle Pietra e da esso all’Uro Primordiale, antenato remoto di ogni creatura domestica dotata di più stomaci e un paio di corna. Profilando lo scenario d’inimmaginabili migrazioni, con il bestiame al seguito, in grado di far impallidire qualsiasi spostamento dei popoli in epoca storica, cementato dall’esistenza di testimonianze chiare. Eppure L’esistenza pregressa di simili mucche dimostrerebbe, ancor più delle somiglianze linguistiche e quelle dimostrate dall’archeologia, una continuità ideale tra i popoli nordici e quelli dell’area indoeuropea, che avrebbero migrato fin quassù in un epoca e per ragioni largamente ignote. Con mucche che sarebbero apparse, ai nostri occhi inesperti, del tutto prive di caratteristiche particolari. Men che meno il lungo manto peloso che caratterizza le Heilan dei nostri giorni.
Dove inizia, in fin dei conti, la selezione artificiale praticata dall’uomo? E dove incontra la sua fine? Si mettono insieme esemplari di una determinata specie, al fine di favorire determinati tratti, considerati utili. Eppure altrettanto importante, risulta essere la mera influenza darwiniana della natura. Col che intendo, per essere chiari, la selezione naturale. Sarebbe in effetti del tutto ingenuo pensare che, tra le migliaia o milioni di mucche giunte al seguito dei primitivi, una gran quantità non fosse perita al primo sopraggiungere della stagione fredda, per la semplice incapacità di adattare il proprio organismo ad un luogo tanto inospitale. Mentre tra i vitelli di seconda generazione, un anno dopo l’altro, soltanto quello più forti ed “irsuti” sarebbero giunti in età riproduttiva. Con un risultato che, ritengo, appare evidente sotto gli occhi di chicchessia…

L’aspetto eccezionalmente grazioso dei vitelli delle Heilan ha portato all’origine del termine colloquiale “mucca pelosa” o persino fluffalo, unione di fluff (pelliccia) e una generalizzazione tipicamente americana del concetto di “bufalo”.

Dal punto di vista di un allevatore dei nostri giorni, ad ogni modo, ci sono molte ragioni per scegliere questa razza di bestiame, a patto di comprendere le sue controindicazioni più importanti. Esportato in epoca moderna presso gli Stati Uniti e l’Australia, questo è un animale che si è dimostrato capace di adattarsi agevolmente ai climi caldi, benché preferisca quando possibile mettersi in ombra. Il lungo pelo che gli ricade sugli occhi, inoltre, si è dimostrato una formidabile difesa contro gli insetti, soltanto il primo capitolo di una rinomata resistenza alle malattie della vista o altre afflizioni tipiche dei bovini. Ciò che va tuttavia considerato, da un punto di vista economico, è la quantità di carne relativamente ridotta che si può ricavare da un singolo esemplare, per una mera ragione biologica. È infatti evidente che un’animale ricoperto da una folta pelliccia, soprattutto a una bassa latitudine, tenda a sviluppare una quantità minore di grasso corporeo, e quindi pesi generalmente di meno, in proporzione alla quantità di tempo che necessita per il raggiungimento dell’età adulta. Cionondimeno, il mercato permette alle sue carni di rimanere competitive, in funzione del minore contenuto di colesterolo e dunque, nell’ottica nutrizionale moderna, una qualità percepita come superiore. Mentre naturalmente, nessun problema di questo tipo tenda a palesarsi nel caso in cui la mucca in questione sia presa unicamente per la produzione di latte, o persino come animale ornamentale o da compagnia. Eventualità, quest’ultima, meno rara di quanto si possa tendere a pensare, data l’indole particolarmente cordiale di questi animali, in quasi ogni momento della loro esistenza salvo quando le madri accudiscono i vitelli, di cui sanno essere molto protettive. Ed è questo, un pericolo evidente per l’allevatore incauto, vista la massa muscolare e le corna sviluppate dalla razza, per difendersi dai lupi e gli altri predatori che un tempo abitavano la regione delle Highlands scozzesi.
Dal punto di vista della variazione cromatica, la razza vanta una formidabile variazione, anche dovuta all’ampia diffusione su scala globale a partire dal suo paese di provenienza. Tra le diverse popolazioni di Nordamerica, Australia e Scandinavia, si assiste quindi a colori che vanno dal rosso classico al nero fumo, in grado di creare un evidente contrasto col bianco delle svettanti corna, passando per il marrone focato, l’argenteo (una combinazione di bianco e tonalità brune) lo striato ed il giallo spento. Molte delle quali rappresentate anche sul nostro territorio, grazie all’ottimo lavoro degli allevatori del Trentino Alto-Adige, che nel corso dell’ultima decade hanno saputo trarre vantaggio economico dal commercio delle loro pregiate carni. È in effetti una presa di coscienza piuttosto triste, ma per lo più necessaria, quella secondo cui la diffusione di simili animali abbia seguito, storicamente, le preferenze gastronomiche di questo o quel popolo, rincorrendo sempre lo stesso imprescindibile destino: la macellazione seguìta dal consumo in tavola, da parte della più implacabile tra tutte le creature. Eppure proprio noi, onnivori per eccellenza, questo animale l’abbiamo anche amato, permettendogli in larga parte di restare fedele a ciò che era: un grande mammifero privo di particolari “trucchi” evolutivi, come quelli che rischiano l’estinzione altrove. Ricambiando la gentilezza, volenti o nolenti, con la capacità di sfruttare adeguatamente terreni impervi che, in caso contrario, sarebbero rimasti privi di una funzione. Ogni paese, tra quelli dotati di questa razza, ha la sua storia di un leggendario allevatore, che per primo pensò di trasferire un gruppo di queste creature dai confini distanti, a partire dai primi scozzesi della Preistoria. Per poi citare esempi più recenti, come Donald A. Smith (Lord Strathcona) di Winnipeg, che aveva importato cinque femmine in Nuova Scozia nel 1880, dando origine alla stirpe delle Heilan canadesi. Mentre in Australia, l’agente fu il capoclan Aeneas Ronaldson MacDonell, giunto direttamente dalla sua patria verso la metà del XIX secolo nei dintorni di Port Victoria, dove si dice che fosse solito guidare il suo branco fino ai pascoli mediante l’impiego di un flauto traverso. E fu proprio la sua fortuna, guadagnata grazie alle mucche d’importazione, ad indurre molti altri a seguire una simile, musicale strada.

La vista riconoscibile della Scozia rurale, capace di richiamare più di un viaggiatore, non può prescindere da questi pacati ammassi di pelo, la cui indole bonaria induce più di un visitatore a dargli da mangiare. Ciò detto, sarebbe sempre meglio stare pronti a togliersi di mezzo, nel caso in cui l’animale dovesse dare i primi segni di nervosismo.

La mucca delle Highlands scozzesi è uno dei protagonisti indiscussi delle “foto divertenti” che ricorrono online, spesso fatta rimbalzare da un forum all’altro con didascalie erronee, che l’associano a varie tipologie di bufali o il bisonte americano. Il che dimostra, ancora una volta, quanto poco il grande pubblico sia propenso a conoscere ciò che mangia, perdendo quell’illusione d’innocenza che, in larga parte, è alla base del movimento benintenzionato degli animalisti.
Perché è molto facile, e comprensibile, mettere il cane ed il gatto su un piedistallo, come animali domestici per eccellenza, senza prestare la stessa attenzione, concettuale ed ideologica, nei confronti del bestiame presente nelle nostre fattorie. Che nasce, vive ed incontra la sua fine, con l’unico scopo di essere consumato, donando la propria forza a coloro che l’hanno accudito fino all’ultimo dei suoi giorni. Un destino triste, nella geometria dei fattori, ma anche straordinariamente nobile ed antico. Come la cultura, la religione e le tradizioni di Scozia, scenario unico in cui permane il nostro passato. Brucando l’erba, tra bianche distese di neve, in attesa del giorno in cui lanciare ancora una volta il suo muggito di “Libertà!”

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