Il grande Toro Rosso che non è una bibita, ma sa mettere le ali all’immaginazione

“Pattugliare il Mojave ti fa quasi desiderare l’arrivo di un nuovo inverno nucleare” era un famoso modo di dire diffuso tra le truppe armate della Nuova California, continuamente impegnate a gestire i pericoli degli scorpioni giganti, supermutanti armati fino ai denti e l’occasionale demone infernale con il nome altamente descrittivo di deathclaw. Come prova che non tutte le creature nate dalla radiazioni di un’apocalisse termonucleare hanno il solo compito di complicare l’esistenza ai pochi, resilienti umani che persistono nel sopravvivere in un territorio desolato, ogni volta che costoro varcano le mura di New Reno un muggito familiare ne saluta il piè leggero, subito seguito da un secondo pressoché uguale. Questo perché il principale animale che ha saputo mantenere il proprio ruolo, di un mondo ancora non del tutto impazzito, è la mucca bicefala identificata come Brahmin, il cui aspetto prima del grande cambiamento doveva comunque essere stato piuttosto interessante: a partire dalle proporzioni enormi, simili a quelle di un furgone, con il colorito rosso e le ampie eccedenze di pelle che ricadono al di sotto del collo e del petto. La gobba rigida sopra le spalle, come quella di un cammello e il grande muso espressivo sormontato da un piccolo paio di corna, crudelmente appuntite ma rivolte prudentemente all’indietro. Tutto molto… Bello, ma dove si trova esattamente il punto di collegamento con la varietà a macchie della mucca Holstein dal copioso latte, o la classica Black Angus delle migliori bistecche statunitensi? Una risposta che può essere fornita solamente da vagabondi fuoriusciti da Vault particolarmente bene informati, che hanno visto una tabella generazionale delle discendenze bovine risalente fino alla metà del XIX secolo. Nel momento in cui, in base a quanto certificato dalla ABBA (American Brahman Breeders Association) i primi capi di bestiame provenienti dall’India furono importati in questo grande paese, con prevedibili proteste e recalcitranze da parte degli allevatori che le giudicavano tutte egualmente sacre al pari “delle proprie stesse madri”. Ma il guadagno è, in ultima analisi, uno dei fluidi che oliano gli ingranaggi del mondo e fu così che i tori del remoto Oriente ebbero l’occasione e l’opportunità di conoscere, in senso biblico e non solo, il mondo delle mucche allineate con lo spirito del vecchio West. O almeno fu così nello spirito, se non nei fatti, visto come l’originale schiera delle nuove vacche ibridate avrebbe trovato concentrazione geografica primariamente nella regione del Golfo del Messico, dove gli allevatori locali apprezzarono fin da subito la straordinaria resistenza al calore e ai parassiti del ceppo genetico proveniente dall’Asia Meridionale. Ciò che occorre notare in merito alla tipica onorevole vacca indiana è che essa non proviene affatto da una qualsivoglia sottospecie del Bos primigenius taurus o bovino comune, bensì per l’appunto dal B. T. Indicus, più comunemente detto zebù. Una creatura che anche noi saremmo inclini a venerare e mantenere in alta considerazione, se soltanto la cultura moderna fosse ancora in grado di farlo, come uno dei principali doni del Creatore e Dio della Sapienza nei confronti dell’umanità, coi suoi molti volti tutti egualmente atteggiati in un’espressione di comprensibile beatitudine ed appagamento…

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La saga della mucca creata geneticamente per salvare il popolo cubano

Viene dato per scontato quale sia l’amico più sincero e duraturo, tra le multiple creature della Terra, dell’umana società indivisa: il cane, la creatura che più di ogni altra ci assomiglia per contegno empatico, bisogno di attenzioni e tipologia d’intelligenza. Se la stessa domanda fosse stata rivolta al sedicente Líder Máximo nel suo momento di più alto e incontrastato potere, quando l’Unione Sovietica aveva ancora le risorse, e la ragione di fornire il supporto necessario a mantenere prosperosa un’isola situata nei Caraibi a largo della costa statunitense, egli non avrebbe certamente esitato nell’andare controcorrente… Che a Fidel Castro piacessero in modo particolare i bovini, e ciò che questi erano in grado di donarci a seguito di una convinta mungitura, era cosa particolarmente nota ai servizi segreti di mezzo mondo. Inclusa la CIA, che oggi sappiamo aver tentato d’istigare l’assassinio negli anni ’60 del più longevo detentore del potere assoluto in Occidente dopo la fine della monarchia, colpendolo attraverso ciò che amava più di qualsiasi altra cosa. Un frappè al latte, che doveva essere contaminato preventivamente con la tossina del botulismo. Se non che la capsula letale, tenuta nel tipo sbagliato di frigorifero, finì per rompersi perdendo il suo letale contenuto per un errore dell’agente incaricato. Mentre il bersaglio, del tutto inconsapevole del rischio corso, continuava lietamente per la sua strada. Un sentiero che l’avrebbe portato in modo del tutto collaterale, a partire da quel fatidico momento, a coltivare la sua passione per l’industria casearia con l’intento che soltanto una figura della sua caratura, e con le istituzioni di un’intera nazione al proprio servizio, avrebbe mai potuto pensare di perseguire. Una finalità nobile, per lo meno in linea di principio; battere il capitalismo in ciò pareva riuscirgli meglio di qualsiasi altra cosa: nutrire il popolo tramite l’applicazione delle regole del pubblico mercato. Ma come avrebbe potuto beneficiare di tutto questo un paese costruito secondo i crismi di un’utopia Marxista-Leninista, se non esportando un prodotto che fosse migliore, a minor prezzo e proprio perciò maggiormente competitivo della concorrenza? Fidel non aveva dubbi in materia. Sui verdeggianti pascoli di Havana sarebbe dovuta nascere, entro la fine della decade ulteriore, una razza di mucche migliori. Perfettamente adattate al clima dei tropici, al punto da poter raggiungere una vetta di efficienza precedentemente ritenuta indubitabilmente remota.
Dovete considerare, a tal proposito, come l’industria zootecnica bovina fino a quel momento non avesse avuto particolare fortuna in quelle terre, complice una sfortunata dicotomia di proposte. In primo luogo la ben nota razza Holstein, fonte instancabile della stragrande maggioranza del latte europeo e statunitense, sfortunatamente incapace di sopravvivere, o quantomeno prosperare, alle temperature giudicate normali al di sotto del 24° parallelo. Dall’altra parte lo zebù indiano (Bos taurus indicus) chiamato cebu da queste parti, perfettamente trapiantato nelle verdi valli ma purtroppo notoriamente inefficiente nella produzione del candido fluido nutriente ricercato da coloro che avevano deciso d’intraprenderne l’allevamento. Ed proprio dall’unione ideale tra i due reciproci princìpi contrapposti che il sedicente dittatore avrebbe ricercato la maniera di uscire dall’impasse. Attraverso la comunione, coadiuvata dalle avveniristiche tecnologie di fecondazione artificiale, tra ciò che la natura non era mai stata in grado di congiungere autonomamente. Il che non voleva d’altra parte significare che l’uomo, di suo conto, avrebbe dovuto limitarsi a guardare…

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La maestosa invadenza del sacro toro blu indiano

L’idea che una particolare attenzione nei confronti del mondo animale possa essere non soltanto l’istintivo senso di empatia nei loro confronti, bensì diretta risultanza della possibilità che in essi siano stati reincarnati i propri cari o vecchie conoscenze delle nostre vite passate, è profondamente radicata in almeno due delle maggiori religioni asiatiche, entrambi provenienti dal subcontinente indiano. Persino partendo da un simile presupposto, tuttavia, è possibile decidere di fare un’eccezione per creature la cui esistenza può riuscire a risultare troppo problematica, o pervasiva, perché la naturale tolleranza umana venga condotta oltre i limiti ulteriori della sua portata. E quando questo avviene, folle inferocite tendono a compiere dei gesti particolarmente irrimediabili, culminanti nel linciaggio, contro ogni legge del proprio stesso paese, nei confronti di esemplari particolarmente mal tollerati. Al che di certo, viene da notare come il cosiddetto “toro” o “mucca” noto scientificamente come Boselaphus tragocamelus, non sia l’una né l’altra cosa, e tanto meno un cammello, bensì la più imponente e prolifica tra tutte le specie di antilope asiatica, con pressante concentrazione del suo areale nella parte settentrionale dell’India. Eppure non è affatto possibile trascurare l’etimologia del suo nome comune nilgai, nato dal composto hindi che significa letteralmente il bovino blu, condividendo la seconda parte “gai” con uno degli appellativi dati alla Kamdhenu, mucca sacra le cui quattro zampe che atte a simboleggiare le sacre scritture, mentre le mammelle rappresentano tutte le ricchezze materiali di questo mondo. Eppure la questione di riuscire a preservare questa imponente creatura, capace di raggiungere in media i 288 Kg di peso e una lunghezza di 2,1 metri, continua ad essere un argomento controverso in diversi stati, al punto che lo stesso candidato al parlamento della Federazione può inserire nel suo programma severe norme di protezione nel suo originale luogo di provenienza, mentre promuove l’eliminazione sistematica o sterilizzazione nei territori maggiormente soggetti alla convivenza con questo animale. Ciò in quanto il nilgai, per sua implicita inclinazione, non ha problemi particolari ad avvicinarsi all’uomo ed ai suoi terreni, riuscendo agevolmente a saltare le recinzioni comunemente disponibili agli agricoltori degli strati di popolazione più disagiati. Per poi provvedere a fare scempio delle coltivazioni di grano, rape e fagioli neri, consumandone le piante e calpestando tutto ciò che non risulta essere di suo gradimento. La che si aggiunge un indole tendenzialmente timida e schiva, che tuttavia una volta che si trova messa alle strette cambia subito comportamento, potendo contare sulla propria imponenza e la notevole possenza dei calci vibrati, più che sufficiente a ferire gravemente, o persino uccidere una persona adulta. Questioni necessariamente fatte passare in secondo piano, quest’ultime, dal punto di vista dei molti Gau Rashak, gruppi di protezione bovini attivi nel paese, tra cui spicca in modo particolare la tribù dei Bishnoi (o Vishnoi) 960.000 uomini e donne fermamente convinti che la vita di una creatura appartenente al regno naturale valga lo stesso, o persino più di quella di coloro che risultino disposti a porvi termine, non importa quanto ciò possa apparire superficialmente giustificato.
Non che i piccoli branchi di questi abitanti del sottobosco, chiamati in certi ambienti rojad (“antilope della foresta”) proprio per allontanarli concettualmente dalla condizione di sacralità connessa ad altre specie bovine, siano in alcun modo consapevoli di queste diatribe, preoccupandosi soltanto di fare ciò per cui la natura ha provveduto a perfezionare il loro organismo: consumare senza pregiudizi erba o foglie, anche poste a mezza altezza grazie alla notevole portata del loro collo taurino. Mentre si muovono in gruppi composti in genere da 10-18 membri, qualche volta molti meno, composti alternativamente da un paio di femmine coi loro figli, tre o sei adulti di entrambi i sessi seguiti dalla prole, oppure tutti maschi scapoli attualmente in cerca di una consorte. La marcatura del territorio avviene nel frattempo tramite l’impiego di una complicata tecnica di defecazione, che prevede il mantenimento prolungato di una posa a gambe larghe utile a segnare uno spazio capace di raggiungere i 50 cm di diametro. Il che rientra d’altra parte nella notevole agilità del nilgai, che alcun tipo di barriera (fisica o culturale) sembra in grado di riuscire a contenere per tempi medi o prolungati…

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Trattori che costruiscono colline, coltivando l’arte nobile dell’insilaggio

Sofisticata deve necessariamente risultare, la progressione logica che porta la affamate moltitudini a soddisfazione gastronomica continuativa nel tempo. Poiché la civiltà presente non ha nulla, se non l’essenziale concezione che ogni cosa debba essere per forza “degna” delle proprie tavole, ovvero in altri termini, frutto di un apprezzabile sacrificio di tempo, vita o spazio di stoccaggio per un tempo abbastanza lungo. Poiché “L’umanità non è costituita da formiche!” Ma cicale armate di avanzate tecniche industriali, che consentono di mettere in secondo piano sostenibilità e ragionevolezza; per lo meno, verso l’ultimo anello di questa catena gastronomica dei giorni. Basta tuttavia decidere di risalire temporaneamente, lungo l’estensione tintinnante di una simile interconnessione tra causa ed effetto, per trovarsi circondati dalla prova pratica che collaborazione nella costruzione di colonie o cumuli, comuni agli imenotteri a sei zampe, in qualche modo ci appartiene ed la base stessa di un’industria particolarmente remunerativa: quella utile, più di ogni altra, ad arrecare nutrimento al bestiame.
L’insilaggio, in quanto tale, è un’arte particolarmente antica che consiste nella fermentazione indotta dei mangimi per mucche, pecore o capre risalente (almeno) al 1500 a.C. Sebbene non figuri alcun metodo ancestrale, nel particolare approccio alla questione dimostrato in questo video timelapse della cooperativa agricola statunitense Green Earth Ag Services, nel corso del quale viene portata a termine l’ultima fase preparatoria di una quantità approssimativa di 36.800 tonnellate di mais. Abbastanza da nutrire, per un tempo di svariati mesi, l’intera popolazione super-densa di bovini all’interno della gigantesca proprietà committente. Mentre il gruppo di trattori, avendo già deposto a strati sovrapposti quanto di dovere successivamente compattato grazie al loro stesso peso, attendono pazientemente che la ruspa con il braccio scavatore guidi fin sopra la cima, mentre il gruppo di operatori dispone il velo di plastica a tenuta stagna. Ciò affinché l’ossigeno venga bloccato dal penetrare in mezzo al cibo granulare ed ultradenso, accuratamente messo sotto-vuoto, per quanto possibile, mediante l’impiego del risucchio di un ventilatore da campo. Segue quindi, lo srotolamento della tela impermeabile trainata grazie al mezzo da cantiere, che dovrà essere bloccata in posizione tramite l’impiego di pneumatici tagliati a metà, affinché il vento e le intemperie non possano raggiungere il prezioso contenuto sottostante, linfa letterale della vita non-umana in fattoria.
I vantaggi dell’insilato rispetto a fieno e cereali prelevati direttamente dai campi risultano del resto estremamente significativi: non soltanto per la conservazione a medio-lungo termine, ma anche per l’apprezzabile incremento di cibo prodotto in proporzione agli acri coltivabili, senza per questo causare la decrescita del contenuto proteico necessario al benessere dei consumatori quadrupedi finali. Grazie ad un altra particolare genìa del mondo animale, a suo modo addomesticata e soggetta alle volontà storiche mediante la semplice e posa in essere di condizioni funzionali allo scopo: quella dei batteri, bacilli e clostridia, che cooperano nella disgregazione delle cellule vegetali. Consumando ossigeno, per produrre zuccheri tutt’altro che nocivi…

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