Lo Zen e l’arte dei camionisti giapponesi

Per chi siede negli spazi interstiziali del gigante di cemento fuso con la spina dorsale del mondo, sembra incredibile che Tokyo, la megalopoli, possa avere dei confini. Soltanto per qualcuno, i pochi fortunati che posseggono un veicolo a motore omologato secondo le stringenti norme giapponesi, il velo dell’illusione può essere dissolto con un sottovalutato gesto: mettersi all’inizio di una strada, poi percorrerla fino a metà. Per trovarsi ad aspettare, seduti presso un’area di servizio, con la sicurezza che il momento presto avrà realizzazione. Ovvero che la stella luminosa del mattino, il Sole infuocato dell’avvenire, la cometa di Halley in 16 gomme di gomma vulcanizzata, si paleseranno, l’una dopo l’altro, irradiando con la loro luce variopinta il senso ed il significato di un’intera professione. L’ora si fa tarda, si palesa l’ora del tramonto. Oltre la curvatura dell’orizzonte, sulla via che un tempo fu dell’epocale Tokaido, quattro luci azzurre spuntano dalla linea terminale del suolo. Seguite da una striscia di neon variopinti, due sbarre fluorescenti, una cabina di comando. Quindi la più straordinaria mutazione catartica di un parafango, con luci LED che esclamano nell’alfabeto sillabico hiragana: 神風, Kamikaze. Il Vento Divino. Non inteso come un richiamo nostalgico alla triste fine di una guerra dello scorso secolo. Non soltanto quello. Bensì nella visione shintoista d’incarnare il senso ed il significato del viaggio, la raison d’être stessa di un particolare stile di vita, che assume il nome auto-esplicativo di デコトラ- dekotora, da DECO-ration Torakku (la strana pronuncia alla giapponese del termine in lingua inglese Truck, camion). Un termine entrato nel linguaggio comune sopratutto a seguito dell’inclusione in catalogo da parte della Aoshima Bunka Kyozai, compagnia produttrice di macchinine in stile Hot Wheels, che iniziò a proporne dei modelli personalizzabili con adesivi inclusi nella confezione.
Parte prima: Fiori di Ciliegio. L’arte di decorare un veicolo stradale da trasporto ha origine proprio nel Giappone del secondo dopoguerra, quando le prime avvisaglie del boom economico causarono la nascita di un nuovo settore dei trasporti privati, con agenti indipendenti in grado di permettersi l’acquisto, ed il mantenimento, di un veicolo che fosse solamente loro. Secondo le cronache del modernismo, i primi camion con qualche timida luce, dipinti aerografati e slogan ebbero l’origine nel Nord del paese, su influenza della cultura delle gang giovanili dei bōsōzoku – 暴走族, le “tribù della velocità sfrenata” che si ribellavano all’anonimato della civiltà guidata da stringenti norme sociali, con comportamento da teppisti, abbigliamento di stile marcatamente statunitense e modifiche esteriori alle loro motociclette, tanto estreme ed improbabili, che in qualsiasi altro luogo del mondo sarebbero state interpretate come una marcata inclinazione all’autoironia. Ma la leggenda dei dekotora ebbe l’origine, in effetti, da un qualcosa di molto più specifico e precisamente individuabile: una serie di 10 film, realizzati tra il 1975 ed il 1979 dalla mega-compagnia dell’entertainment Toei, dal titolo estremamente semplice: Torakku Yarō (ラック野郎) “I Camionisti”. Si trattava, essenzialmente, di una versione nipponica del cinema americano d’exploitation di quegli anni, con allusioni anche esplicite a sesso e violenza, azione cruda non-stop e una vena comica neppure tanto nascosta, che riuscì a conquistare la passione di coloro che un tale mestiere lo svolgevano realmente. E che ben presto, in determinati circoli, decisero che avrebbero investito parte del guadagno con finalità di rendere, per quanto possibile, le loro case su ruote simili al fulmine fluorescente di Momojiro Hoshi detto Ichibanboshi (la prima stella, con mutazione della sillaba iniziale dal termine hoshi) l’eroe in fuga da una legge ingiusta tramite infinite e sregolate peripezie. C’è del resto un grande fascino per l’inclinazione della mente umana, nel vedere costantemente il risultato del proprio lavoro. E investire sull’acquisto di luci, decorazioni ed improbabili body-kit per la propria motrice, piuttosto che tentare d’incrementarne le prestazioni e l’efficienza dei consumi, la dice molto lunga su quali fossero le priorità di questi uomini, determinati a lasciare un’impronta chiara ed indelebile nella memoria dei connazionali su strada. Quello fu l’inizio, e la nascita di uno stile che ancora viene definito dei dekotora classici, non molto più avanzati, sostanzialmente, di alcune meraviglie che tutt’ora si possono incontrare sulle strade statunitensi, napoletane o pakistane. Ma con l’inizio della decade immediatamente successiva, il Giappone stava andando incontro ad una mutazione sostanziale dei princìpi estetici considerati sufficientemente “eccessivi”. E mentre le prime ragazze iniziavano a percorrere le strade dei quartieri di Harajuku e Shibuya con le più folli mutazioni variopinte di quello che potesse definirsi un abito, i trasportatori tra una lunga missione e l’altra si sdraiavano sul divano di casa, per assistere all’ennesimo episodio di una nuova ed importante Fad generazionale. Tobe! GANDAMU, si udiva pronunciare gli altoparlanti della TV, durante la sigla dalla voce stentorea ed impostata – “Vola! Gundam…” Era la nascita di una nuova forma d’intrattenimento che avrebbe avuto a conti fatti, un’inaspettato ma profondo effetto sullo stile dei camion dekotora.

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Il telaio cingolato che ordisce le strade d’Olanda

Mai sottovalutare il potere di una metafora, anche, e soprattutto, se si tratta di quella sbagliata per descrivere la situazione. L’ultima volta in cui un video esplicativo di questo veicolo iniziò a circolare a circolare su Internet, assumendo le caratteristiche di un vero e proprio fenomeno virale, il titolo più spesso ripetuto in varie forme su Facebook, Twitter ed altrove recitava: “Ecco a voi la macchina che STAMPA la strada.” Wow. In pochi secondi, procedendo su una superficie che non era mai mostrata, l’incredibile attrezzo avanzava con incedere sicuro in retromarcia, lasciando dinnanzi a se un perfetto viale di mattoni. Ad incrementare l’illusione di un qualcosa di completamente automatizzato, la piccola ruspa che deponeva detti materiali da costruzione, all’interno di una cesta dinnanzi alla “bocca” del mostro, in chiara e totale assenza di un qualsivoglia ordine procedurale. Così c’era qualcosa, presumibilmente…Di robotico? Che li prendeva e disponeva attentamente con una figurazione a spina di pesce interconnessa, creando l’effetto di un lavoro veramente funzionale, nonché esteticamente appagante. Ora, l’utente medio di Internet, quando scorre verso il basso i contenuti accumulatisi in un giorno d’interconnessioni social, normalmente non presta eccessiva attenzione a tutto quello che sta vedendo. Altrimenti la maggioranza degli spettatori, senza dubbio, avrebbero notato un piccolo “dettaglio” dell’intera situazione: i tre operatori in tenuta da cantiere, con giubbotto catarifrangente e tutto il resto, che si affrettavano a disporre manualmente, uno per uno, i blocchi da inviare sul fondo stradale sottostante. Proprio così: il Tiger Stone della compagnia olandese Vanku presso Rijen, di automatico ha soltanto il motore. Ed il sistema di sensori che gli permettono, facendo riferimento ai marciapiedi, di mantenere il più possibile l’allineamento. A tutti gli articolisti vorrei suggerire dunque, per l’inevitabile corso/ricorso di questa “notizia interessante” a vantaggio dei lettori: la prossima volta potreste, forse, usare una metafora più antica. Perché in effetti, uno strumento che altera i requisiti per svolgere il lavoro, piuttosto che sostituirsi in toto all’utilizzatore come una stampante, non è in alcun modo meno rivoluzionario. Pensate al modo per creare un qualsivoglia tipo di tessuto: all’evoluzione vissuta, attraverso i secoli e millenni, dal semplice approccio di un bastone trasversale, cui annodare i fili paralleli dell’ordito che dovranno sostenere quelli della trama. Destinato a trasformarsi più e più volte, fino alle attuali meraviglie della tecnica, in grado di sfornare molti metri di stoffa entro il passaggio di un singolo minuto. Mentre lo stadio intermedio prevedeva solamente soluzioni meccaniche, per regolamentare meglio l’interconnessione delle parti, mentre l’operatore continuava indisturbato il suo lavoro. Forse dovremmo pensare, a tal proposito, che il suo lavoro fosse meno significativo?
L’analogia del telaio funziona perché, essenzialmente, la Tiger Stone non fa che prendere un lavoro massacrante, e trasformarlo in una sorta di passeggiata. In cui allo stato dei fatti attuali, non occorre più neppure passeggiare. Andando incontro ad un problema, tipicamente olandese, che vedeva l’estremo affaticamento quotidiano, e usura muscoloscheletrica, d’innumerevoli operai della nazione. Immaginate voi, la situazione: stiamo parlando di un paese in cui l’asfalto, nonostante i grandi successi ottenuti su scala mondiale, ancora non convince le autorità cittadine. Per lo meno, in determinati contesti situazionali. Perché in primo luogo, il manto stradale per eccellenza si usura facilmente e richiede dei costosi interventi di riparazione, con bitume, schiacciasassi e tutto il resto. Mentre nell’ipotesi improbabile in cui uno o più mattoni dovessero finire frantumati, basterà ordinarne e collocarne di nuovi. Seconda cosa, lasciano passare l’acqua nelle intercapedini, riducendo la necessità di altri sistemi di drenaggio. E poi, c’è l’aspetto principale: per quanto può essere curata la creazione della strada, una superficie di singoli blocchi non sarà mai del tutto uniforme. Il che causa vibrazioni nella guida, e suoni fastidiosi, al di sopra di una certa velocità. Capite dove sto arrivando? È una misura che previene gli incidenti, scoraggiando l’automobilista medio dall’andare troppo forte in città. A partire dal 1997 e sopratutto per questo motivo, nell’intera Olanda è stato avviato un programma finalizzato alla sostituzione sistematica del manto stradale tipico con i mattoni, in ogni area con un limite massimo di 30 Km/h. Tanto che si stima che nel 2007, esattamente dieci anni dopo, fossero presenti nel paese circa 41.000 Km ricoperti con questa particolare metodologia. Una mole di lavoro enorme, sopratutto per le schiene dei poveri operai costretti a procedere carponi, posizionando uno per uno i blocchi in una sorta di versione orribilmente reale del videogame Minecraft. Una condizione che non poteva lasciare indifferente chiunque fosse in possesso del nascosto seme della Soluzione…

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Citroën e l’enigma dell’undicesima ruota

L’anno è il 1972, la giornata tiepida e accogliente. Gli alberi risuonano dei cinguettii riconoscibili della campagna francese. Tutto a un tratto, le nubi sembrano convergere in presenza di un’oggetto mai visto prima, mentre l’orizzonte si allontana verso un impossibile punto di fuga. Una possente vibrazione si trasmette sull’asfalto del Michelin Technology Center a Ladoux, sito 10 Km a nord del comune di Clermont-Ferrand, nella regione dell’Alvernia-Rodano-Alpi quando in lontananza compare… La Cosa. Un bolide arancione e giallo, largo 2 metri e mezzo, lungo 7,2, che avanza a una velocità di 180 Km/h, spinto innanzi dall’energia da una forza spropositata. Se aveste la possibilità di pesarlo, scoprireste infatti che sfiora agilmente le 9,5 tonnellate, praticamente il quadruplo di Hummer multiruolo dell’Esercito Americano. Questo perché nulla, in esso, è stato concepito per ridurre il peso, ma anzi il veicolo si compone in massima parte di acciaio e addirittura piombo, trasportati con facilità soltanto grazie a quelle 10 ruote top-di-gamma della Michelin. Raggiunta la prima curva del circuito, l’assurdo mezzo sterza non con due, bensì quattro ruote, mentre all’apparenza non sembra piegarsi neanche di pochi centimetri per l’effetto della forza centrifuga e di gravità. Non c’è affatto da meravigliarsi: le sue sospensioni sono del tipo idropneumatico, quelle inventate in gran segreto durante la seconda guerra mondiale dall’impiegato autodidatta della Citroën, Paul Magès, all’epoca in cui la sua azienda produceva camion intenzionalmente difettosi da spedire all’esercito di occupazione tedesco. Il che significa che sotto non ha molle di alcun tipo, bensì una quantità imprecisata di ampolle globulari piene di gas nitrogeno, compresse grazie all’uso di una pompa fatta funzionare con la forza del motore. Una per ruota, come di consueto, e un’altra usata per l’azionamento dei freni. Nulla in questo veicolo è stato fatto a risparmio, se si esclude il concetto stesso di crearlo come il mostro di Frankenstein, unendo i pezzi di altri mezzi straordinariamente diversi tra loro. C’è il telaio in versione allungata, e le linee anteriori un tempo aggraziate, della leggendaria Citroën Diesse di Bertone (la “Dea” di Francia) e ci sono i semi-assi del furgone Tipo H, dalle riconoscibili pannellature zigrinate e il metodo di costruzione a corpo unico, che massimizza lo spazio di trasporto a disposizione. Mentre altri aspetti sono solamente suoi: le griglie laterali simili alle branchie di un pesce, usate per far raffreddare i due grandi motori 454 Chevrolet Big-Block da 200 cavalli ciascuno e lo specchietto di destra collocato avanti a lato dello strano cofano, che nessuno avrebbe mai avuto bisogno di aprire. Un bolide di un altro tempo e luogo, come un drago o un dinosauro di metallo.
Sogni che si affollano e diventano interrogativi, attimi meditabondi alla ricerca della verità. Trascorrono i secondi, finché all’improvviso, si ode il suono di una gomma che stride, come se fosse stata premuta con forza eccessiva sulla strada. Il suono aumenta e muta d’intonazione, mentre il fumo inizia a comparire attorno allo strano veicolo che all’apparenza grida tutto il suo terrore. Eppure l’autista, con calma professionale ed apparente rassegnazione, inizia ad affrontare la stretta curva, all’apparenza ormai convinto di finire fuori strada. Imposta la perfetta posizione del volante, il muso della nave segue la sua rotta designata e quindi BANG! La ruota esplode: è la fine? Tutt’altro: la maestosa quanto bizzarra Michelin PLR (Poids Lourd Rapide – camion semi-rapido) soprannominata Mille Pattes (il Millepiedi) non sembra risentire in alcun modo del disastro. Con il riorientarsi del mezzo, mentre ricomincia il rettilineo, avete l’occasione di scrutarla da entrambi i lati. Tutte e 10 le ruote sono totalmente intatte. Di certo deve essersi trattato della vostra immaginazione dunque, se non che… C’è un segno netto e scuro sull’asfalto della curva, con tutto l’aspetto di una tragica sgommata. L’incidente, quindi, si sarà pur verificato, in qualche misteriosa dimensione parallela? È l’inizio di una suspense sulla quale per stavolta, ho voglia di soprassedere: si, nel centro esatto della PLR, c’era un’altra ruota. Più grande, perché appartenente a un’altro ambito veicolare: quello dei camion. Per capirne la ragione, sarà meglio proseguire la lettura…

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L’incedere del camion che srotola la strada

Qualunque generale o comandante di compagnia, per quanto in erba, ben conosce la differenza che possono fare 50 metri negli spostamenti di una colonna di veicoli, magari corazzati. La capacità di scavalcare, letteralmente, una palude o un profondo pantano, raggiungendo l’altro lato per avvicinarsi all’obiettivo della missione. E l’opportunità di comparire, come per l’aiuto di una benevola divinità, esattamente nel luogo, nel momento e nella situazione giusta, pronti ad intervenire mediante lo strumento elementare della presenza. O quello ben più pragmatico delle armi. Simili situazioni, del resto, vengono vissute anche in campo civile, nella casistica tutt’altro che infrequente del disastro naturale. Quel particolare caso in cui le  strade subiscono, per prime, il danno di giornata, impedendo sostanzialmente il transito e l’arrivo dei soccorsi. Situazioni delicate, queste, in cui l’ostilità contestuale arreca danni chiari e misurabili, che allontanano uno stato sostanziale di serenità. Terremoti. Inondazioni. Eruzioni, perché no, vulcaniche. Perché il punto dopo tutto è questo: nell’osservare la facilità d’impiego negli spostamenti del nostro moderno, onnipresente sistema stradale, spesso dimentichiamo quanto siamo abituati a farci affidamento. Per cui basta raggiungere la fine dell’asfalto, con una necessità pendente di continuare a spingersi innanzi, affinché una buona parte dei nostri autoveicoli, ivi inclusi quelli con funzioni utili alla collettività, si trovino del tutto privi di risorse. Ed ampliare le opportunità di spostamento, mediante l’impiego ruspe, macchina per la colata bituminosa, schiacciasassi e finitori della carreggiata, non è esattamente un proposito sempre a portata di mano. Specie quando il fattore tempo risulta essere determinante, ovvero il profilarsi di una situazione d’emergenza. Cosa possiamo fare, dunque? Quali sono le risorse a nostra disposizione? Usare i cingoli, naturalmente, aiuta. Ma ci sono situazioni in cui neppure questo approccio, che distribuisce il peso del veicolo su un’ampia area impedendogli di sprofondare, appare sufficiente per oltrepassare il valico dell’ardua contingenza. Ed è allora, normalmente, che un corpo d’armata si rivolge alla speciale soluzione concepita dalla Faun Trackway, azienda gallese dell’isola di Anglesey, originariamente per l’uso esclusivo del ministero della difesa del Regno Unito. E che oggi, invece, ha trovato l’applicazione nelle forze armate di oltre 30 paesi al mondo, tra cui molti siti nel Nord Europa. Luogo in cui, lo sappiamo fin troppo bene: gli ostacoli del territorio risultano essere particolarmente difficili da superare, sopratutto durante i mesi più freddi del Grande Inverno.
Proprio perché niente, in effetti, può fermare l’avanzata di uno di questi camion dotati del dispositivo, nient’altro che una serie di barre estruse di alluminio interconnesse l’una all’altra in senso longitudinale, in modo da formare un corposo rotolo, superficialmente simile a quello della carta da cucina. Ma largo svariati metri a seconda del modello e una volta esteso, lungo fino a 50! Per un metodo risolutivo estremamente semplice, che tuttavia non lascia nulla d’intentato. In primo luogo, occorre raggiungere il punto affetto dalla spiacevole mancanza di una strada. Operazione tutt’altro che complessa, visto come i veicoli in questione, sostanzialmente, non siano altro che autocarri dotati di omologazione per circolare su strada, costruiti sul telaio di marche familiari come IVECO, Man o Mowag. Quindi, e questo è semplicemente fondamentale, ci si volta a 180 gradi e si procede in retromarcia. Questo perché in tal modo, il veicolo evita di mettere le sue ruote a contatto con il fango anche soltanto per un singolo minuto, scongiurando qualsiasi potenziale rischio di restare bloccato. Esso procede mettendo il nastro metallico subito alla prova, lungo il sentiero stesso che al termine sarà in grado di sostenere fino a 70 tonnellate, un peso di poco superiore a quello di un carro Challenger, di un Leopard tedesco o di un M1 Abrams americano. Tempo necessario per l’intera operazione: appena 6-10 minuti. Un singolo addetto alla guida, fornito di filocomando del mezzo, potrà procedere a fianco dello stesso per controllare l’andamento della missione, da un punto di vista privilegiato che impedisce l’incorrere di sorprese. Finché il rotolo non si esaurisca, possibilmente (si spera) in corrispondenza del raggiungimento della meta in origine prefissata. Vi sono, ad ogni modo, approcci paralleli ed altrettanto utili proposti dalla compagnia…

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