I sorprendenti vantaggi di un paio di ali sbilenche

Avete mai visto qualcosa di simile? L’AD-1 della NASA corre attraverso l’aria, più simile a una freccetta scagliata da un nerboruto gigante che a una sofisticata macchina volante. E con il modificarsi dell’inquadratura, un poco alla volta, appare evidente il perché: non c’è proprio niente, in esso, che sporga sensibilmente ai lati. Di certo la prospettiva deve giocarci uno scherzo. Perché le sue “ali”, se così possono essere definite, sembrano estendersi in diagonale. Progettare apparecchi a motore è una delle cose più facili al mondo: prendi un righello, traccia una linea, disegna una punta e torna indietro. Ecco la tua carlinga. Metti una pinna nella parte posteriore. Quindi perpendicolarmente a quanto hai appena definito, racchiudi un’area piatta, ampia e rastremata, situata grossomodo verso la parte centrale del tuo velivolo di alluminio, acciaio o cartone. Aggiungi un motore, et voilà: sarà più difficile tenere a terra una simile cosa, piuttosto che il contrario. Ma progettare una aereo che sia anche EFFICIENTE, questa è tutt’altra storia. Esistono forme che sono letteralmente fatte per volare, eppure persino quest’ultime, per affrontare dei lunghi tragitti fino alla pista d’atterraggio designata al di là del mare, dovranno bruciare quantità impressionanti di carburante, richiedendo correzioni continue della rotta da parte del pilota. Ed ecco la ragione per cui, nel corso del secolo dell’aviazione, la storia ha conosciuto un’infinità di avveniristici prototipi, molti destinati a fallire, alcuni precipitati e soltanto in minima parte, talmente validi da aver cambiato le regole dell’industria vigente, introducendo caratteristiche che al giorno d’oggi, vengono considerate assolutamente normali. Cosa dire, invece, di tutte quelle idee che sembravano Funzionare, potevano Funzionare ed hanno in effetti, Funzionato al 100%, eppure per una ragione o per l’altra, incluso il senso estetico di chi di dovere, hanno finito per essere relegate a mere curiosità del volo?
Ne sapeva qualcosa negli anni ’30 la Blohm & Voss, compagnia tedesca destinata ad aiutare lo sforzo bellico, il cui ingegnere progettista più famoso, il Dr. Richard Vogt di Schwäbisch Gmünd nel Württemberg, godeva di una reputazione alquanto insolita, per non dire surreale. Scrisse su di lui, in inglese, la rivista d’aviazione coéva Airplane: “[…] Quell’uomo davvero originale / che costruisce aerei più brutti / di quanto chiunque altro / possa riuscire a fare / ecco qui sul Mar Baltico / uno dei mostri di Vogt / l’Uno-Tre-Otto di B. & V.” Componimento in versi del tutto privo di rime (anche in lingua originale) che faceva riferimento a niente meno che l’affidabile BV 138 Seedrache (Drago Marino) un idrovolante trimotore, con i propulsori disposti in altrettanti bulbi sporgenti sopra la carlinga e un aspetto non propriamente aggraziato. Aereo che sarebbe stato prodotto fino al termine della seconda guerra mondiale, destinato, tra le altre cose, ad aprire la strada verso alcune delle proposte ben più innovative scaturite dalla mente di questo eclettico inventore. Fu nell’estate del 1944, quindi, che a costui venne un’intuizione dall’origine incerta. La quale configurava se stessa sulla falsariga di: “Chi ha mai detto che gli aeroplani debbano essere simmetrici?” Ora, istintivamente, tutti possiamo facilmente comprendere che l’ingegneria umana è quasi sempre basata sulle buone pratiche della natura. Se gli animali presentano tutti due lati identici, tuttavia, ciò è responsabilità primaria della notocorda, il tubo flessibile che si trova alla base di tutte le forme di vita complesse di questo pianeta. Nessuno può invece dire quali siano i presupposti di un ipotetico processo evolutivo diverso, eseguito in territori universalmente distanti.
Luoghi dove, forse, l’aereo a reazione Blohm & Voss P 202 della B. & V. apparirebbe del tutto normale, nonostante la strana ala rotante posizionata sopra la fusoliera, più larga da una parte rispetto all’altra. Per non parlare dell’improbabile Messerschmitt P.1009-01 (nome dovuto alla provenienza di uno dei brevetti di base) un anacronistico biplano, le cui due ali sarebbero state fatte ruotare di circa 60 gradi una volta eseguito il decollo, l’una in un verso, e l’altra in opposizione. Prototipi osservando i quali, ben pochi avrebbero dubbi di trovarsi di fronte alle illustrazioni di un’ucronia, lo scenario fantastico per una campagna di giochi di ruolo o qualche insolito wargame da tavolo. Detto questo, la Germania dell’epoca non era particolarmente propensa a seguire i vezzi ingegneristici di chiunque non fosse amico personale del fuhrer, come Ferdinand Porsche, così che gli assurdi prototipi di Vogt non sarebbero mai stati costruiti. Ma poiché il conflitto mondiale era destinato a finire molto presto, e nella maniera che noi tutti ben conosciamo, il destino del progettista del Württemberg era destinato a riservargli ancora una significativa sorpresa: ritrovarsi iscritto, a sua insaputa, nelle liste del programma statunitense Paperclip, per l’espatrio di scienziati, tecnici e ingegneri del Terzo Reich allo scopo di dare una spinta al nascente programma aerospaziale di quella distante nazione. Per il tramite di un’ente che prendeva, a quel tempo, il nome di NACA (National Advisory Committee for Aeronautics) sotto l’egida del quale il tedesco avrebbe partecipato alla progettazione dei primi motori a reazione per il decollo verticale, oltre alla definizione delle punte verticali sul finire dell’ala, oggi caratteristica comune di molti aerei, anche civili. Ma il seme più eclettico che avrebbe gettato negli anni ’50 avrebbe impiegato ancora del tempo, a germogliare…

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Le ruote trasformabili dei carri armati del futuro

Passati sono i tempi del fortunato sodalizio tra l’agenzia per le tecnologie belliche statunitensi DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) e la prolifica azienda robotica Boston Dynamics, rinomata produttrice di automi dall’aspetto fantascientifico e video virali dall’invidiabile successo sul web. E con essi, il riflettore continuamente puntato verso uno dei più discussi utilizzatori dei finanziamenti pubblici per la Difesa, spesso troppo orientato verso applicazioni lontane nel tempo perché l’uomo della strada, interrogando se stesso sull’utilità di simili invenzioni, possa approvare pienamente l’utilizzo a tal fine del suo contributo più o meno volontario nei confronti dell’erario di stato. Costituisce perciò un gradito ritorno alla forma di un tempo, soprattutto per tutti coloro che non hanno pagato di tasca propria, la nuova dimostrazione di alcuni minuti, relativa ai progressi fatti dai diversi fornitori nel quadro di un progetto iniziato nell’ormai distante 2014, relativo alla trasformazione di uno dei più assodati paradigmi del campo di battaglia. Nome in codice: GXV-T (Ground X-Vehicle Technology) ovvero la dimostrazione, lungamente attesa, che il fatto di avere più armatura armatura e quindi una mobilità minore, nei veicoli da combattimento, costituisca un sinonimo di maggiore sicurezza per il pilota e gli altri soldati coinvolti. Laddove l’interpretazione offerta dalla divisione dal Tactical Technology Office all’interno della tentacolare agenzia parla, stavolta, di mezzi più simili a dei fuoristrada, capaci di eludere il nemico in diversi e funzionali metodi, prima di portare a termine mansioni ricognitive o veri e propri assalti nei confronti di obiettivi reputati fondamentali. Non ultimo tra i quali, una mobilità aumentata, grazie ad approcci come le avveniristiche ruote messe in evidenza poco sopra, capaci di mutare in pochi secondi ogni regola precedentemente acquisita del gioco. Il sistema operativo delle Reconfigurable Wheel-Track, per adesso montato su un comune fuoristrada della serie Hummer adibito al trasporto truppe nei territori soggetti a uno stato di conflitto armato permanente, è un qualcosa che un tempo avrebbe dovuto essere visto di persona, al fine di fugare ogni dubbio di trovarsi dinnanzi ad un fantastico effetto speciale. Eppure esso compare senza alcun dubbio sotto l’occhio della telecamera, che a meno d’improbabili e complesse rielaborazioni, mostra in questo caso l’evidente realtà: mezzo modificato, che ne monta prima quattro e poi soltanto due nel semiasse posteriore, avanza con sicurezza per qualche metro, poi si ferma per un attimo e le ruote in questione cambiamo forma, da un cerchio perfetto a quello che in geometria viene chiamato triangolo di Reuleaux, ovvero una curva piana e convessa contenuta in due ipotetiche rette rotanti. Una delle quali potrebbe anche essere, nel presente caso, il terreno, se non che gli attrezzi in questione smettono a quel punto di girare, mentre gli pneumatici stessi, all’improvviso indipendenti, diventano facenti funzioni di un vero e proprio cingolo, come in determinati apparati per la mobilità invernale dei fuoristrada civili.
L’effetto è palese quanto immediato: la superficie di contatto della ruota col suolo aumenta esponenzialmente, mentre la capacità di sterzata del veicolo diminuisce di conseguenza, e così pure la sua velocità. Ma è proprio questa l’intenzione dei tecnici realizzatori dell’idea: poter disporre di un ipotetico super-Hummer (o mini-carro armato) capace di muoversi con la stessa agilità sulle superfici asfaltate o le superfici diseguali, qualcosa che neppure i potenti M1 Abrams, formidabili carri armati perfezionati al termine della guerra fredda, possono oggi vantare nel proprio registro d’azione. Benché essi possano raggiungere facilmente, in effetti, la velocità di 70-80 Km/h su strada, chiunque abbia avuto a che fare con loro sa bene che cosa succede nel caso in cui il pilota tenti a quel punto d’impostare la curva troppo impegnativa: una frequente, quanto inevitabile fuoriuscita di uno o entrambi i cingoli dalla loro sede, con conseguente immobilizzazione del mezzo. Qualcosa d’inaccettabile, nella concezione iper-moderna del GXV-T, secondo le linee guida della suprema responsabile, il maggiore dell’Esercito Amber Walker. Ma le idee rivoluzionarie che lei ha evidenziato, nel corso dell’ultimo anno in cui ha curato la supervisione del progetto, sono molteplici e tutti altrettanto degni di essere commentati…

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La Stratos HF Zero e gli altri magnifici cunei stradali

Fu uno dei raduni d’auto d’epoca più importanti del suo decennio, oltre a un momento storico per il collezionismo a seguito del quale molte vetture letteralmente uniche al mondo passarono di mano per cifre inimmaginabili, sotto le fronde degli alberi a Villa d’Este nel 2011, in quel di Tivoli presso il Lazio centrale. Eppure persino tra la nutrita schiera di miliardari, con garage grandi quanto un centro commerciale cinese, calò momentaneamente il silenzio, quando sulla strada usata per far sfilare i vecchi capolavori venne il momento di quel bizzarro fulmine bronzeo, alto appena 84 cm e così straordinariamente appuntito, che molti di loro non avrebbero neppure immaginato di poter vedere coi propri occhi. E probabilmente così sarebbe andata, se non fosse stato per le difficoltà economiche incontrate dall’azienda costruttrice, un tempo uno dei maggiori marchi del Made-In-Italy nel settore dell’automobilismo di grido. Fluttuando lievemente su strada, con gli pneumatici larghi e il parabrezza romboidale, le fiancate triangolari come la serie di appariscenti lamelle sul retro, composta di prese d’aria per il motore. Era in effetti una Lancia Stratos, quella cosa. Ma non certo la campionessa d’infiniti rally, che molti di noi millennials conoscono grazie alla sua inclusione nell’eponimo videogame della Sega (con la famosa livrea “Alitalia” e il tricolore nostrano) bensì la prima interpretazione di quello che avrebbe potuto, e dovuto essere. Quando colui che l’aveva creata, quel creativo straordinario, ancora usava chiamarla Stratolimite, con riferimento ai confini più estremi dell’atmosfera terrestre che intendeva raggiungere. E che un giorno avrebbe, persino, varcato.
Se esiste un’automobile che, nella fantasia popolare, simboleggia più di ogni altro le sensibilità estetiche e le preferenze di design vigenti negli anni ’70, sarebbe difficile attribuire un tale ruolo ad altro che la storica Countach con carrozzeria di Bertone, Laborghini il cui nome dovrebbe corrispondere a una traslitterazione dell’esclamazione piemontese contacc ovvero “accidenti!” E di reazioni in linea con questa, sulle strade italiane ed oltre, un simile spigoloso fenomeno ne avrebbe raccolte parecchie, per non parlare delle innumerevoli comparse al cinema, nei videogiochi e in televisione, come mezzo di trasporto elettivo dell’eroe, o il protagonista della situazione. Così originale, nel suo stile angoloso, con l’avantreno che va ad abbassarsi a sul terreno e la coda tronca dai fari enormi, da far pensare alle successive generazioni ad un pezzo rivoluzionario, capace di mostrare la via per un nuovo sentiero nel campo della realizzazione di supercars, destinato a generare altri grandi successi come la Lotus Esprit (1976) e la Ferrari F40 (1987). Ciò che spesso non viene menzionato tuttavia, perché si tende a guardare avanti piuttosto che alle spalle dei grandi capolavori, è la lunga serie di prototipi e auto prodotte in serie ridotta che a partire dal 1967, aveva aperto le danze di quella che potrebbe definirsi una nuova interpretazioni delle forme ideali per un automobile, con una ricerca estetica talvolta anteposta anche al valore funzionale dell’aerodinamica, considerato secondario quando il motore a bordo risultava essere, comunque, in grado di raggiungere i limiti di velocità nel giro di un paio di secondi al più. L’epoca delle wedge cars, come le chiamano gli inglesi (automobili a cuneo) sarebbe quindi iniziata in quell’anno con la Lamborghini Marzal, un concept direttamente assemblato dalla mente e la penna di quello stesso Marcello Gandini, dipendente della Bertone, che ad un tal punto avrebbe influenzato lo stile dell’automobilismo mondiale. Insieme, sia chiaro, ad un altro paio di designer italiani, in quegli anni in cui il gusto della nostra penisola veniva ancora considerato, a ragione, il non-plus-ultra di tutto quello che potesse venire definito anche lontanamente cool. Si trattava di una reinterpretazione alle più estreme conseguenze di quello che poteva rappresentare la storica Miura, con finestrini sovradimensionati e una caratteristica linea angolare, priva delle flessuose curve che erano state impiegate per armonizzare il tutto quasi un decennio prima.
Il secondo a gettarsi nella mischia sarebbe stato Giugiaro, con la sua Bizzarrini Manta (1968) prototipo per l’omonimo piccola casa produttrice destinato a rappresentare il debutto della sua Italdesign, largamente considerata come la prima coupé monovolume (sportiva) della storia. Lungi dal restarsene con le mani in mano, Gandini avrebbe quindi immaginato e visto assemblare l’Alfa Romeo Carabo, avveniristico prototipo, evoluzione del discorso passato e per certi versi relativi alla conformazione della carrozzeria, un’anticipazione del suo stesso futuro Countach. Ma il vero stimolo sarebbe arrivato soltanto due anni dopo, con il contributo irrimediabile della carrozzeria Pininfarina assieme al suo partner storico, Ferrari. La Modulo era qualcosa di chiaramente assurdo, una totale impossibilità stradale. La corrispondenza esatta su ruote del concetto di un UFO, qualcosa che esiste, benché nessuno possa trovare un aggettivo adatto a descriverne le caratteristiche primarie…

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La microcar discesa dai cieli del secondo conflitto mondiale

Sono sempre esistite due filosofie progettuali contrapposte, in tempi di pace, così come in mezzo alle distese desolate dei periodi di guerra. Da una parte il mezzo in grado di assolvere una serie di mansioni, grande, potente e relativamente poco maneggevole: vedi, ad esempio l’YFM-1 Airacuda statunitense, detto “il distruttore di bombardieri” e gli altri caccia bimotori dell’epoca, come il Bf 110 tedesco. Per non parlare degli aerei da attacco russi, l’IL-2 Sturmovik e il PE-2. Velivoli capaci di decollare da una base sita a molti chilometri dall’obiettivo, evitare il fuoco della contraerea e quando necessario, combattere nei cieli per portare fino all’obiettivo il carico. Oppure fare quanto in loro potere affinché il nemico fallisca nel riuscire a compiere la stessa impresa. Dottrine che talvolta, corrispondevano a una certa nazionalità: vedi i Britannici, fermamente convinti che i loro aerei più imponenti avrebbero ogni volta, a tutti i costi, completato la missione a patto di essere scortati da caccia svelti e maneggevoli, come la serie leggendaria dei Supermarine Spitfire. Dopo le conferenze di Yalta e Potsdam, cui fece seguito il disarmo dei paesi allineati con l’Asse, gli ingegneri che si erano formati secondo le rispettive correnti applicarono i precetti nel campo della meccanica ad uso civile. Il che avrebbe significato primariamente, negli anni del boom economico tra 1950 e ’60, costruire automobili in enorme quantità. La suddivisione tra le correnti fin qui descritte, a quel punto, diventò di tipo soprattutto pratico: con le gigantesche macchine americane, soprannominate in certi ambienti landyachts, concepite per dare il massimo nei lunghi tragitti, le strade diritte e le città moderne di quel paese. Mentre i paesi europei, con una rete stradale condizionata da maggiori problemi paesaggistici ed ereditati, iniziarono a cercare una risposta all’eterna domanda: quanto può essere piccolo un veicolo a motore per una, o massimo due persone?
La nascita delle cosiddette bubble car, antesignane delle moderne Mercedes Smart, Renault Twizy e Toyota iQ, trova nel nome la giustificazione della propria stessa esistenza. Con una bubble che voleva indicare, nello specifico, il particolare componente in vetro temperato presente sulla maggior parte degli aerei militari di allora (ed oggi) concepito per proteggere il pilota dal vento concedendogli al tempo stesso la massima visibilità di quanto stava per succedergli attorno. Qualcosa di altrettanto utile, volendo, anche a chi si fosse prefissato di percorrere le strade tracciate a terra. Non che si tratti, al giorno d’oggi, di una soluzione particolarmente diffusa. Un’auto la cui parte superiore sia composta da un unico pezzo trasparente presenterà in effetti alcuni punti negativi importanti: l’impossibilità di avere uno sportello ad apertura laterale. Il poco spazio per la testa e le spalle. L’effetto sauna solare durante i periodi estivi, con conseguente rischio di colpi solari per l’autista e l’eventuale passeggero. Ma prima che le correnti del design contemporaneo iniziassero a prestare un’attenzione particolare a simili aspetti, ci fu l’epoca di un grande successo, che in molti ricordano tutt’ora con estremo piacere. Qualcosa di scaturito, alla chiusura delle fabbriche aeronautiche della Messerschmitt tedesca, da quegli stessi stabilimenti che avevano contrastato, per lunghi anni, le imprese dei piloti che rischiarono la loro vita contro i totalitarismi del mezzo-secolo scorso. Immaginate la scena: siamo nel 1952 e un uomo di nome Fritz Fend, famoso per la sua invenzione di un veicolo per disabili a propulsione muscolare, si reca nella più grande azienda della città di Augusta, con un curriculum e i progetti per l’ultima formidabile idea: trasformare il suo apparecchio, estremamente diffuso in determinati ambienti, in un veicolo a motore potenzialmente utile a tutti, per l’estrema facilità di guida ed impiego. La Messerschmitt, a quell’epoca, aveva visto ridursi drasticamente il proprio volume d’affari, spostando il suo business nell’area dei motori ad impiego agricolo, le case prefabbricate ed alcuni timidi esperimenti nel campo dell’automobilismo. L’opportunità del momento, dunque, colpì profondamente la direzione, che in breve tempo riconvertì alcune catene di montaggio per dare un senso tangibile al progetto di Fend. Il risultato fu la KR175 (Kabinenroller – scooter cabinato) prima automobile prodotta da una compagnia operativa in campo aeronautico e grazie ai suoi due posti in posizione da tandem, la prima microcar della storia.

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