La microcar discesa dai cieli del secondo conflitto mondiale

Sono sempre esistite due filosofie progettuali contrapposte, in tempi di pace, così come in mezzo alle distese desolate dei periodi di guerra. Da una parte il mezzo in grado di assolvere una serie di mansioni, grande, potente e relativamente poco maneggevole: vedi, ad esempio l’YFM-1 Airacuda statunitense, detto “il distruttore di bombardieri” e gli altri caccia bimotori dell’epoca, come il Bf 110 tedesco. Per non parlare degli aerei da attacco russi, l’IL-2 Sturmovik e il PE-2. Velivoli capaci di decollare da una base sita a molti chilometri dall’obiettivo, evitare il fuoco della contraerea e quando necessario, combattere nei cieli per portare fino all’obiettivo il carico. Oppure fare quanto in loro potere affinché il nemico fallisca nel riuscire a compiere la stessa impresa. Dottrine che talvolta, corrispondevano a una certa nazionalità: vedi i Britannici, fermamente convinti che i loro aerei più imponenti avrebbero ogni volta, a tutti i costi, completato la missione a patto di essere scortati da caccia svelti e maneggevoli, come la serie leggendaria dei Supermarine Spitfire. Dopo le conferenze di Yalta e Potsdam, cui fece seguito il disarmo dei paesi allineati con l’Asse, gli ingegneri che si erano formati secondo le rispettive correnti applicarono i precetti nel campo della meccanica ad uso civile. Il che avrebbe significato primariamente, negli anni del boom economico tra 1950 e ’60, costruire automobili in enorme quantità. La suddivisione tra le correnti fin qui descritte, a quel punto, diventò di tipo soprattutto pratico: con le gigantesche macchine americane, soprannominate in certi ambienti landyachts, concepite per dare il massimo nei lunghi tragitti, le strade diritte e le città moderne di quel paese. Mentre i paesi europei, con una rete stradale condizionata da maggiori problemi paesaggistici ed ereditati, iniziarono a cercare una risposta all’eterna domanda: quanto può essere piccolo un veicolo a motore per una, o massimo due persone?
La nascita delle cosiddette bubble car, antesignane delle moderne Mercedes Smart, Renault Twizy e Toyota iQ, trova nel nome la giustificazione della propria stessa esistenza. Con una bubble che voleva indicare, nello specifico, il particolare componente in vetro temperato presente sulla maggior parte degli aerei militari di allora (ed oggi) concepito per proteggere il pilota dal vento concedendogli al tempo stesso la massima visibilità di quanto stava per succedergli attorno. Qualcosa di altrettanto utile, volendo, anche a chi si fosse prefissato di percorrere le strade tracciate a terra. Non che si tratti, al giorno d’oggi, di una soluzione particolarmente diffusa. Un’auto la cui parte superiore sia composta da un unico pezzo trasparente presenterà in effetti alcuni punti negativi importanti: l’impossibilità di avere uno sportello ad apertura laterale. Il poco spazio per la testa e le spalle. L’effetto sauna solare durante i periodi estivi, con conseguente rischio di colpi solari per l’autista e l’eventuale passeggero. Ma prima che le correnti del design contemporaneo iniziassero a prestare un’attenzione particolare a simili aspetti, ci fu l’epoca di un grande successo, che in molti ricordano tutt’ora con estremo piacere. Qualcosa di scaturito, alla chiusura delle fabbriche aeronautiche della Messerschmitt tedesca, da quegli stessi stabilimenti che avevano contrastato, per lunghi anni, le imprese dei piloti che rischiarono la loro vita contro i totalitarismi del mezzo-secolo scorso. Immaginate la scena: siamo nel 1952 e un uomo di nome Fritz Fend, famoso per la sua invenzione di un veicolo per disabili a propulsione muscolare, si reca nella più grande azienda della città di Augusta, con un curriculum e i progetti per l’ultima formidabile idea: trasformare il suo apparecchio, estremamente diffuso in determinati ambienti, in un veicolo a motore potenzialmente utile a tutti, per l’estrema facilità di guida ed impiego. La Messerschmitt, a quell’epoca, aveva visto ridursi drasticamente il proprio volume d’affari, spostando il suo business nell’area dei motori ad impiego agricolo, le case prefabbricate ed alcuni timidi esperimenti nel campo dell’automobilismo. L’opportunità del momento, dunque, colpì profondamente la direzione, che in breve tempo riconvertì alcune catene di montaggio per dare un senso tangibile al progetto di Fend. Il risultato fu la KR175 (Kabinenroller – scooter cabinato) prima automobile prodotta da una compagnia operativa in campo aeronautico e grazie ai suoi due posti in posizione da tandem, la prima microcar della storia.

Un gruppo di KR200 gareggiano nel film comico finlandese del 1991 Iskelmäprinssi (Principe della Hit Parade). L’effetto desiderato è quello di far ridere il pubblico, eppure siamo di fronte storicamente alla singola auto più performante della sua specifica categoria.

La prima versione della Kabinenroller, nonostante i consumi straordinariamente bassi e l’alta stabilità in strada, non ebbe immediatamente un enorme successo. Questo per i numerosi problemi tecnici che avrebbero portato, dall’inizio della produzione fino al giugno 1953, a ben 70 piccole revisioni, mentre l’impiego di una frizione a leva invece che a pedale, oltre alla totale assenza della retromarcia, causava non pochi dubbi ai guidatori abituati ad un tipo d’automobile convenzionale. Soprattutto in un segmento di mercato che, nel frattempo, aveva trovato alcuni competitor importanti, tra cui la celebre Isetta italiana, prodotta anche in Germania con una versione recante il marchio BMW. Giusto in tempo per l’aumento di prezzo drastico dei carburanti, nel clima politico che avrebbe portato nel giro di pochi anni alla crisi del canale di Suez, Fend lavorò con la sua divisione all’interno della Messerschmitt, la Regensburger Stahl- und Metallbau per produrre una seconda versione del suo veicolo, la KR200. E sarebbe stata proprio quest’ultima, lanciata nel 1955 a un prezzo unitario di appena 2.500 marchi, a decretare il successo tanto lungamente desiderato.
La nuova macchina, prodotta in 12.000 esemplari nel giro di un anno, risolveva la maggior parte dei problemi del primo modello, dimostrandosi un mezzo affidabile, pratico e curato nei dettagli. L’elemento che definiva sopra ogni altro la serie, questa bolla mutuata dal campo aeronautico, era stato notevolmente semplificato, con l’aggiunta di due pilastri di raccordo con i finestrini laterali. Questo ne velocizzava molto la produzione, limitando inoltre la possibile presenza di difetti di fabbrica. Il motore era stato leggermente potenziato, da quello di appena 173 cc dell KR175 a ben 191, per una potenza stimata di 9,9 hp. Abbastanza per spingere il minuscolo mezzo, del peso di appena 230 Kg, alla velocità rispettabile di 90 Km/h. Il veicolo era stato dotato inoltre del terzo pedale e presentava la possibilità di spostarsi in retromarcia, grazie all’aggiunta di un sistema di avvio alternativo. Bastava premere a fondo la chiave durante l’accensione, infatti, affinché il motore girasse in senso contrario, il che forniva tra l’altro la stessa progressione delle quattro marce dello spostamento in avanti. Identico rimaneva invece il particolare volante a spostamento laterale invece che rotativo, direttamente collegato alle ruote anteriori sterzanti e descritto da alcuni come un modo straordinariamente reattivo e preciso di guidare. L’automobile piacque a tal punto in patria che ne vennero realizzate alcune versioni alternative, tra cui una pensata per l’esportazione e dotata di fini optional come i cerchi dipinti, l’orologio sul cruscotto e il riscaldamento e la KR200 Kabrio, una vera e propria roadster del tutto priva di sportelli, con il tettuccio apribile dal quale si entrava scavalcando, letteralmente, i finestrini laterali. La commercializzazione in Gran Bretagna inoltre fu inerentemente favorita dal fatto che, in funzione della sua configurazione in tandem, la Kabinenroller potesse essere guidata indifferentemente sulle strade con il sorpasso a destra. Nel 1955, quindi, giunse la rivelazione: con finalità promozionali, un’esemplare della KR200 fu preparato a partecipare alla gara di 24 ore del circuito Hockeneimring nella categoria delle tre ruote al di sotto dei 250 di cilindrata, dove il 29-30 agosto di quell’anno, vinse stabilendo ben 22 record mondiali di velocità. Al che l’automobilina tedesca in cui pochi, in origine, avevano creduto, entrava pieno titolo nell’albo d’oro dell’automobilismo contro-corrente. Ma nuovi avversari erano in agguato…

La Tg500, più rara tra le tre Kabinenroller, viene oggi considerata un vera perla per i collezionisti. Soprattutto nella versione cabrio con il tetto in tela, come questo esemplare del 1959.

Con la crisi di Suez ormai alle spalle, l’economia dei consumi non figurava più al centro delle preoccupazioni e l’immaginario collettivo. Così che nuovi mastodonti stradali, remoti ispiratori dell’odierno SUV, iniziavano a circolare per le strade, mentre persino il campo delle city car iniziava a superare quei compromessi che, in origine, avevano permesso la creazione dello stesso segmento delle bubble car. Sto parlando, in modo particolare, del successo stratosferico della BMC Mini del 1959, un veicolo capace di trasportare una pluralità di passeggeri o bagagli, vantando allo stesso tempo una maneggevolezza e proporzioni abbastanza piccole per qualsiasi impiego stradale nelle più complesse situazioni urbane europee. C’era stato inoltre un altro piccolo bastone negli ingranaggi: soltanto tre anni prima, con l’ingresso della Germania Ovest nel patto dei paesi della NATO alla Messerschmitt era stato dato di nuovo il permesso di produrre aeromobili, passo a seguito del quale l’azienda tedesca aveva relegato la produzione delle Kabinenroller a un’azienda terza con l’assistenza dello stesso Fritz Fend, la Fahrzeug- und Maschinenbau. Dove la proposta al pubblico fu ulteriormente migliorata grazie alla Tg500 (soprannominata Tiger) che poteva ancora avvalersi del marchio di Augusta e presentava un motore ulteriormente potenziato a 19,2 hp, oltre a un cambio ad H finalmente dotato di retromarcia, con la possibilità di sostituire l’orologio con un più pratico contachilometri. Ancora grande assente, incidentalmente, rimaneva l’indicatore della benzina. Nonostante la qualità costruttiva eccelsa e l’assenza di mezzi simili nel suo segmento di mercato, tuttavia, i volumi prodotti non raggiunsero mai quelli della KR200, relegando il veicolo a segmenti di mercato dall’alto grado di specificità.
Fritz Fend, vissuto fino all’anno 2000 (era nato nel 1920) continuò a lavorare tutta la vita al suo sogno di un’auto svelta, economica e maneggevole per il trasporto massimo di due sole persone. Tanto che, si dice, ancora nell’epoca del suo pensionamento stesse applicando l’esperienza di un’intera carriera alla progettazione di una nuova versione delle auto Messerschmitt, sicuro che avrebbe trovato collocazione nell’attuale scenario automobilistico europeo. Una delle sue innovazioni che usiamo tutt’ora, inizialmente brevettata e poi copiata dalla maggior parte dei produttori di automobili, è stata l’allarme che suona quando ci scordiamo di spegnere i fari, subito dopo aver spento il motore. Un richiamo simbolico, che suggerisce un senso di estrema lucidità e precisione.

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