Il ritorno del pollo un tempo noto come Big Boss

Nella storia del mondo, ogni volta che si avvicina una grande catastrofe o un cambiamento, un uccello mitico risorge dalle tenebre incorporee della non-esistenza: dapprima, con l’aspetto di un demone infuocato. Esso spicca il volo ed usa il suo potere per gettare il caos tra le nazioni inermi della Terra. Quindi all’improvviso, muore. Tuttavia, dopo un lungo sonno, l’uccello torna di nuovo. Questa volta, sarà il salvatore. E la Ruota del Tempo gira ancòra… Lo scorso week-end, in un momento all’apparenza del tutto privo d’importanza, l’allevatore kosovaro Fitim Sejfijaj ha aperto, come un qualsiasi altro giorno degli ultimi sei anni, la pagina principale del browser, scegliendo di recarsi presso il suo gruppo preferito su Facebook: SHPEZTARIA DEKORATIVE. (Nota: SHPEZTARIA significa pollame)  Quindi ha preso il cavo di collegamento che si trovava nella tasca del suo gilet, e con un gesto deciso e rapida risoluzione, ha caricato il video contenuto nel suo cellulare con la didascalia “Shikim te kendshem merakli” (Ma quanto sei bello, Merakli). Nel giro di poche ore, il contenuto era stato guardato circa 300.000 volte. Tempo una giornata, dozzine di canali su YouTube l’avevano ripreso, con accompagnamenti testuali variabili tra lo stupito e il terrorizzato, l’ansia e l’incredulità. Entro la giornata di lunedì, la storia aveva raggiunto alcuni dei maggiori quotidiani online. A questo punto, non c’era più alcun dubbio: il virus si era diffuso. Ormai era troppo tardi, per poter pensare di fare un passo indietro.
Razgriz era il mostro mitico che si annidava nell’omonimo stretto, in alcuni episodi della serie di videogiochi aeronautici Ace Combat, eppure la stampa internazionale ha scelto un altro nome in codice per questo gallo assolutamente straordinario: Big Boss, il Grande Capo, non a caso ripreso fedelmente da quello del grande mercenario e soldato di ventura Solid Snake, clonato in gran segreto dal governo degli Stati Uniti e poi sfuggito al volere dei suoi stessi comandanti, nell’epopea incompleta della serie giapponese Metal Gear. Il che ha certamente un senso. A vederlo fuoriuscire dalla porticina del suo pollaio, Merakli sarebbe quasi comico, se non apparisse semplicemente terrificante. “Questo qui non è un pollo normale.” Viene da esclamare, mentre si osserva la sua massa spropositata, l’altezza di almeno un metro ed il maestoso mantello di piume, che riprende immediatamente la sua forma originale, dispiegandosi come le ali di una farfalla alla fuoriuscita dal suo bozzolo attaccato a un ramo. Mentre scende la ripida scaletta, il gallo pregiato appoggia attentamente i piedi, ricoperti da quelli che sembrerebbero essere a pieno titolo dei veri e propri stivali, mentre il suo collo poderoso si volta in ogni direzione contemporaneamente, alla ricerca di una possibile fonte di cibo. Qualcuno azzarda il paragone a un uomo in un costume dalla chiusura lampo ben chiusa, ma la piegatura delle gambe invertita, come un camminatore di Guerre Stellari, smentisce immediatamente questa possibilità. Di nuovo, l’analogia fantastica appare più che mai calzante, vista l’effettiva somiglianza di quanto stiamo vedendo all’unione tra un comune uccello da cortile e il suo esoscheletro meccanizzato, in grado d’incrementare a dismisura la sua forza in combattimento. Eppure, non c’è niente d’innaturale in tutto questo, come si sono immediatamente affrettati a sottolineare gli specialisti in materia. Tranne, ovviamente, la genetica di fondo.
Ecco dunque, la verità: Merakli/Big Boss altro non è che un ottimo esponente della rinomata razza Brahma, creata verso la metà del XIX secolo per rispondere a un’esigenza precedentemente assai gravosa: nutrire con estrema abbondanza ogni fascia, incluse quelle più disagiate, del variegato e disparato popolo statunitense. Poco prima di diventare, grazie all’iniziativa di un famoso estimatore, più preziosi di un gioiello della corona inglese. È una storia piuttosto affascinante, a dir poco…

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Scienziata giapponese insegna a un cactus l’alfabeto

Si tratta di un video indubbiamente misterioso, dall’immagine disturbata di una vecchia VHS, che appare e poi scompare periodicamente da YouTube, seguendo una sorta di occulto ciclo stagionale. Qualche volta, è presente un commento audio che permette di contestualizzarlo. In altri casi, invece, no. In esso compaiono una coppia di giapponesi, lui vestito in giacca e cravatta, lei con un kimono rosa, in piedi sopra un palco dinnanzi ad un pubblico rapito, assieme ad alcune piante grasse dall’aspetto totalmente ordinario. Dopo una breve spiegazione di quello che sta per accadere, quindi, l’uomo si fa da parte, mentre lei si avvicina con fare determinato ad uno dei piccoli arbusti. Il campo dell’inquadratura si allarga, ed a quel punto si nota qualcosa di decisamente insolito: al cactus è stato attaccato un filo elettrico, che ricadendo a terra, corre fino ad una macchina dalla funzione misteriosa. La donna, a quel punto, inizia a parlare nella sua lingua quasi musicale alla pianta, mimando il gesto di accarezzarla. In un primo momento, non succede nulla. Quindi all’improvviso, si ode il sibilo di un calabrone, oppure… Il trillo lamentoso di un theremin? Che aumenta, e aumenta ancora d’intensità, finché appare pienamente evidente che esso non può derivare da un semplice insetto volatore, né dallo strumento musicale di un concertista russo. “Ka…” fa a questo punto l’improbabile conduttrice dell’esperimento: “Ka, Ki, Ku…” e al completarsi di ciascun suono, le prime tre del sillabario hiragana, il ronzio ambientale cala bruscamente d’intensità. Quindi riecheggia, ancora più forte di prima. In breve tempo appare orribilmente chiaro: esso rappresenta la voce della pianta. Questo stolido ed immoto cactus, sta imparando l’alfabeto.
Gli anni ’70 furono un’epoca di sincretismi. Quando le prime avvisaglie delle moderne tecnologie informatiche e di comunicazione si trovavano agli albori, e nasceva la generazione di un nuovo tipo di capitalisti, non più dediti al puro e semplice guadagno, bensì alla ricerca di un qualche nuovo tipo di realizzazione personale. Spirituale? Si, talvolta. Così mentre in California, nell’assolata Santa Clara Valley fuori San Francisco un giovane Steve Jobs leggeva Shakespeare tra volute di marijuana, preparandosi al suo primo viaggio formativo in India, dall’altra parte del globo un imprenditore già affermato stabiliva un diverso tipo di rapporto con le piante. Il Dr. Ken Hashimoto era l’amministratore della Fuji Electric (da non confondere con la Fujifilm) importante compagnia di Tokyo fornitrice di apparecchiature industriali, strumentazione energetica e frigoriferi. Ma anche e soprattutto, l’inventore di un particolare nuovo tipo di poligrafo, ovvero macchina della verità, sufficientemente accurato da essere considerato probante nei processi del suo paese. Il quale funzionava, per la prima volta, senza l’impiego di complesse soluzioni per la misurazione della pressione sanguigna e il carico elettrico d’impedenza della pelle umana. Bensì semplicemente traducendo le inflessioni della voce in un grafico simile a un elettroencefalogramma, che permetteva ai poliziotti, anche senza una preparazione pregressa nel campo, di effettuare un primo interrogatorio del sospetto, sfruttando l’assistenza di un dispositivo in grado di gettare luce sulla sua sincerità. Stiamo dunque parlando di un uomo fortemente stimato nella sua società, la cui vita professionale appariva realizzata sotto ogni punto di vista. Tranne quello, forse, più importante per lui: non era ancora riuscito a conversare con coloro che erano più importanti per lui. Hashimoto, la cui moglie era un’assidua giardiniera e studiosa di botanica, condivideva infatti ormai da anni la sua passione per la fotosintesi clorofilliana e tutto ciò che ne riusciva a derivare, al punto che, ampliato il suo campo d’interessi all’ambito della filosofia, aveva teorizzato per iscritto che gli esseri vegetali potessero provare sentimenti, avere un qualche tipo d’anima e comprendere le più profonde verità del mondo. Lavorando insieme, dunque, i due posero le basi della domanda che probabilmente, fu proprio lei a rivolgergli: “Caro, e se attaccassimo il poligrafo alla pianta, invertendo il tuo sistema di misurazione della voce? Cosa pensi che succederebbe?”

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Perché in Ohio la gente ha paura dei palloncini?

I più terribili disastri possono accadere sull’onda delle migliori intenzioni e per quanto la natura, molto spesso, mostri caratteristiche di spietatezza che la rendono al di fuori della nostra convenzione, è talvolta la stessa morale umana, flessibile sulla base del bisogno, a porre le basi di un ulteriore stadio di tragedia. Distruzione ed apocalittica Rovina. Siete mai stati a Cleveland, con la sua torre simile a un coltello? The Mistake by the Lake, come la chiamano gli stessi residenti (l’Errore sul Lago) ovvero quello di Eyre, volendo essere specifici, il più meridionale ed il meno profondo dei cinque grandi del Nordamerica, attorno ai quali si trova una delle maggiori concentrazioni di popolazione dell’intera area geografica, sia dalla parte statunitense che canadese. Chicago, Detroit, Pittsburgh, Minneapolis, Toronto, Quebec City… Tutte metropoli rinomate nel mondo. Le ragioni per l’impiego di un termine peggiorativo soltanto in quel caso, per chi vuole ricercarle, possono trovarsi nella relativa piccolezza del centro abitato in questione, che non raggiunge neanche le 400.000 anime tra un simile mucchio di giganti, ma soprattutto nel suo essere uno di quei luoghi in cui, almeno secondo lo stereotipo comune, “non succede mai nulla.” Non fu sempre così. Giacché l’imprevisto, come si dice, proviene proprio dall’eccessiva monotonia. Che porta a distrarsi e prendere dannate decisioni. Come quella per cui, nel 1980, il rinomato uomo d’affari locale e proprietario della squadra di basket dell’NBA dei Cavalier, Ted Stepien, ebbe la geniale trovata di salire fin sopra quell’acuminato pugnale di 235 metri, l’edificio più alto dell’intera città, ed iniziare a gettare di sotto una lunga serie degli eponimi attrezzi per giocare a softball. La ragione: commemorare i cinquant’anni dall’inaugurazione della Terminal Tower, e nel contempo promuovere la sua nuova venture sportiva, la fondazione dei giovani ed entusiastici Competitors, dediti alla nobile arte della mazza e delle palline. Ora come forse saprete, nonostante il nome, la tipica sfera usata per questo sport molto simile al baseball non è propriamente morbidissima, risulta più grande dell’alternativa e pesa in media tra i 180 ed i 200 grammi. Il concetto era che il ricevitore del team prendesse al volo la sfera (dopo tutto, i 230 Km/h calcolati al momento dell’impatto non sarebbero stati tanto maggiori di quelli sviluppati da un lanciatore professionista) mentre una fetta significativa degli abitanti in zona e i passanti facevano il tifo, accompagnati dalle telecamere della Tv. Non tutto andò come sperato: la prima palla lanciata dal buon vecchio Ted, certamente animato dalle migliori intenzioni, cadde come una meteora sopra un’auto parcheggiata, frantumandone immediatamente il parabrezza. La seconda colpì alla spalla un cittadino, che per miracolo non riportò alcun tipo d’infortunio grave. Mentre così fortunata non fu la successiva vittima dell’episodio, una donna il cui polso risultò purtroppo fratturato dall’impatto del letterale macigno venuto dal cielo. A questo punto dovete pensare che all’epoca non c’erano i cellulari, e molto probabilmente nessuno si era preoccupato di dotare l’imprenditore di walkie talkie o attrezzi sulla stessa linea funzionale. Così, la grandine letale continuò, con palle che rimbalzavano fino all’altezza di 12 metri, e persone che correvano via da ogni parte, sperando di aver salva la vita.
Ora se pensate che l’amministrazione cittadina, dopo l’atroce esito di un simile stunt pubblicitario, avesse appreso l’infelice lezione, lasciate che vi dica che non fu così. A costituirne la testimonianza, il disastro verificatosi soltanto 6 anni dopo, destinato a rimanere negli annali come uno degli episodi più bizzarri, e sfortunati, dell’intera storia cittadina. Si sarebbe chiamato il Balloonfest. Nacque dall’idea della filiale locale della United Way of America, celebre organizzazione caritatevole, per una raccolta fondi basata su una finalità d’innegabile impatto: stabilire il nuovo record per il maggior numero di palloncini liberati allo stesso tempo. Proposito tutt’altro che semplice, quando si considera il traguardo raggiunto solamente l’anno prima ad Anaheim, per il 30° anniversario di Disneyland ed il 114° compleanno postumo del grande e compianto Walt: 1 milione di ellissoidi in lattice ricolmi d’elio, rossi, blu, gialli, azzurri… Che meraviglia, miei cari americani! Fu dunque chiamato, senza particolari esitazioni, l’organizzatore di quello stesso evento, Treb Heining della Balloonart, che si era occupato nel 1984, assieme al project manager Tom Holowach, della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Los Angeles, durante la quale centinaia di palloncini vennero liberati a formare i cinque cerchi e l’amichevole scritta “Welcome” per gli atleti di tutto il mondo. Ma le proporzioni, e la portata dell’evento che doveva ancora giungere, sarebbero state del tutto nuove…

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Il mostro che solleva la proboscide del dubbio

Non tutto ciò che è antico risulta essere anche prezioso, soprattutto quando ci si orienta sulla base di periodi geologici risalenti a molti milioni di anni fa. Avete mai provato a sollevare una piccola roccia in un campo e provare ad immaginare da quanti anni una tale cosa abbia occupato spazio sul pianeta Terra? O in altri termini, abbia graziato il mondo con la sua esistenza? Tutto ha una storia, persino ciò che non sembrerebbe averne un briciolo secondo la convenzione predeterminata. Persino il carburante che brucia nelle nostre stufe o centrali elettriche, l’oscuro, sporco, combustibile carbone. Una ricchezza in determinati territori, che gli permise nei secoli di diventare un polo economico della moderna società delle risorse. Depositario di una fondamentale seppur trascurata verità: che in corrispondenza di ogni singolo giacimento sperduto in mezzo a una radura, sulle propaggini di un deserto o una regione infertile e priva di vita, esisteva un tempo una foresta rigogliosa, popolata di creature che la nostra mente fatica duramente ad immaginare. Come avveniva per gli uomini nei romanzi di Robert E. Howard, che parlavano di grandi civiltà antecedenti a una catastrofe che causò il rimescolamento dei continenti (e la scomparsa di Atlantide) ci sono luoghi che un tempo avevano un volto del tutto differente. Spazi geografici come l’acquitrino di Mazon Creek, lagerstätte sedimentario non troppo distante da Chicago, nell’Illinois, dove fino a un paio di generazioni a questa parte lavoravano alacremente le ruspe, e adesso si recano invece schiere di aspiranti paleontologi, armati di pala e piccone, alla ricerca di un particolare tipo di pietre con qualche cosa di nuovo da raccontare. Delle concrezioni risalenti al Pennsylvaniano (318-299 milioni di anni fà) ovvero agglomerati di materiale geologico nati attorno ad un nucleo più resistente, che ad uno sguardo esperto mostrano l’immagine chiaramente stampata di piante ed animali risalenti a quel tempo mostruosamente distante. Tra cui una, sopratutto, ha saputo colpire la fantasia dei paleontologi offrendo la ragione di una disputa pluri-decennale che giusto questa settimana, si è arricchita di un capitolo nuovo: il Tullimonstrum gregarium, più amichevolmente definito mostro di Tully. O mostriciattolo, viste le dimensioni di appena una trentina di centimetri. Ma quanta stranezza, in un tale compatto ed immortalato contenitore!
Se voi poteste entrare, proprio adesso, in una macchina del tempo, e ripercorrere il sentiero delle ere fino a quando un tale luogo si trovava ad appena 10 gradi dall’equatore, per effetto del fenomeno della deriva delle masse continentali, non fatichereste probabilmente ad individuarne qualcuno. La quantità e varietà di fossili ritrovati, benché non ve ne siano più che uno ogni cento concrezioni di Mazon, hanno infatti permesso di comprendere che questo animale, all’epoca, era tutt’altro che raro, da cui il nome scientifico, per l’appunto, di gregarium, ovvero comune. La bestiolina si avvicinerebbe alle vostre caviglie, incuriosita per l’improvviso movimento, tastandole col suo principale organo sensoriale: una lunga proboscide articolata, dotata di un’arto prensile all’estremità, con fino a 16 piccoli denti acuminati  non troppo dissimili, per lo meno concettualmente, da quelli presenti sulla lingua del mostro di Alien. Oggi l’opinione più diffusa tra gli scienziati è che tale parte anatomica non fosse in effetti la bocca dell’animale, probabilmente sita in una collocazione simile a quella dei cefalopodi a cui vagamente rassomiglia, bensì un fondamentale strumento usato per procurarsi il cibo. Ma le stranezze, come potete facilmente desumere dall’illustrazione soprastante di Sean McMahon tratta dall’articolo dell’Università di Yale sull’argomento,  non finiscono certo qui. La creatura aveva un corpo tozzo e allungato come un dirigibile, con due pinne simili a quelle di una seppia ed un paio di occhi situati su lunghi peduncoli, non dissimili da quelli di un granchio del cocco. È probabile che la distanza dal corpo in cui questi erano posizionati avesse lo scopo di permettergli di scorgere meglio cosa stesse afferrando con la proboscide dentata, mentre setacciava il fondale alla ricerca dei piccoli esseri di cui si nutriva, simili a gamberi, crostacei o microrganismi di vario tipo. Ma qui stiamo entrando nel regno della più pura speculazione. Ciò che qualunque fossile di questo tipo può meramente costituire, in effetti, è soltanto una semplice foto, molto spesso incompleta, di qualcosa che da un lunghissimo tempo non è più fra noi. Ogni tipo di speculazione, a partire da una simile presa di coscienza, è campo fertile per le nostre più assurde idee…

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