Il mostro che solleva la proboscide del dubbio

Non tutto ciò che è antico risulta essere anche prezioso, soprattutto quando ci si orienta sulla base di periodi geologici risalenti a molti milioni di anni fa. Avete mai provato a sollevare una piccola roccia in un campo e provare ad immaginare da quanti anni una tale cosa abbia occupato spazio sul pianeta Terra? O in altri termini, abbia graziato il mondo con la sua esistenza? Tutto ha una storia, persino ciò che non sembrerebbe averne un briciolo secondo la convenzione predeterminata. Persino il carburante che brucia nelle nostre stufe o centrali elettriche, l’oscuro, sporco, combustibile carbone. Una ricchezza in determinati territori, che gli permise nei secoli di diventare un polo economico della moderna società delle risorse. Depositario di una fondamentale seppur trascurata verità: che in corrispondenza di ogni singolo giacimento sperduto in mezzo a una radura, sulle propaggini di un deserto o una regione infertile e priva di vita, esisteva un tempo una foresta rigogliosa, popolata di creature che la nostra mente fatica duramente ad immaginare. Come avveniva per gli uomini nei romanzi di Robert E. Howard, che parlavano di grandi civiltà antecedenti a una catastrofe che causò il rimescolamento dei continenti (e la scomparsa di Atlantide) ci sono luoghi che un tempo avevano un volto del tutto differente. Spazi geografici come l’acquitrino di Mazon Creek, lagerstätte sedimentario non troppo distante da Chicago, nell’Illinois, dove fino a un paio di generazioni a questa parte lavoravano alacremente le ruspe, e adesso si recano invece schiere di aspiranti paleontologi, armati di pala e piccone, alla ricerca di un particolare tipo di pietre con qualche cosa di nuovo da raccontare. Delle concrezioni risalenti al Pennsylvaniano (318-299 milioni di anni fà) ovvero agglomerati di materiale geologico nati attorno ad un nucleo più resistente, che ad uno sguardo esperto mostrano l’immagine chiaramente stampata di piante ed animali risalenti a quel tempo mostruosamente distante. Tra cui una, sopratutto, ha saputo colpire la fantasia dei paleontologi offrendo la ragione di una disputa pluri-decennale che giusto questa settimana, si è arricchita di un capitolo nuovo: il Tullimonstrum gregarium, più amichevolmente definito mostro di Tully. O mostriciattolo, viste le dimensioni di appena una trentina di centimetri. Ma quanta stranezza, in un tale compatto ed immortalato contenitore!
Se voi poteste entrare, proprio adesso, in una macchina del tempo, e ripercorrere il sentiero delle ere fino a quando un tale luogo si trovava ad appena 10 gradi dall’equatore, per effetto del fenomeno della deriva delle masse continentali, non fatichereste probabilmente ad individuarne qualcuno. La quantità e varietà di fossili ritrovati, benché non ve ne siano più che uno ogni cento concrezioni di Mazon, hanno infatti permesso di comprendere che questo animale, all’epoca, era tutt’altro che raro, da cui il nome scientifico, per l’appunto, di gregarium, ovvero comune. La bestiolina si avvicinerebbe alle vostre caviglie, incuriosita per l’improvviso movimento, tastandole col suo principale organo sensoriale: una lunga proboscide articolata, dotata di un’arto prensile all’estremità, con fino a 16 piccoli denti acuminati  non troppo dissimili, per lo meno concettualmente, da quelli presenti sulla lingua del mostro di Alien. Oggi l’opinione più diffusa tra gli scienziati è che tale parte anatomica non fosse in effetti la bocca dell’animale, probabilmente sita in una collocazione simile a quella dei cefalopodi a cui vagamente rassomiglia, bensì un fondamentale strumento usato per procurarsi il cibo. Ma le stranezze, come potete facilmente desumere dall’illustrazione soprastante di Sean McMahon tratta dall’articolo dell’Università di Yale sull’argomento,  non finiscono certo qui. La creatura aveva un corpo tozzo e allungato come un dirigibile, con due pinne simili a quelle di una seppia ed un paio di occhi situati su lunghi peduncoli, non dissimili da quelli di un granchio del cocco. È probabile che la distanza dal corpo in cui questi erano posizionati avesse lo scopo di permettergli di scorgere meglio cosa stesse afferrando con la proboscide dentata, mentre setacciava il fondale alla ricerca dei piccoli esseri di cui si nutriva, simili a gamberi, crostacei o microrganismi di vario tipo. Ma qui stiamo entrando nel regno della più pura speculazione. Ciò che qualunque fossile di questo tipo può meramente costituire, in effetti, è soltanto una semplice foto, molto spesso incompleta, di qualcosa che da un lunghissimo tempo non è più fra noi. Ogni tipo di speculazione, a partire da una simile presa di coscienza, è campo fertile per le nostre più assurde idee…

Una foto in bianco e nero mostra due persone alle prese con un modellino del Tullimonstrum, probabilmente risalente ad un epoca non troppo distante dalla sua scoperta. Quello in atteggiamento esplicativo potrebbe essere E.S. Richardson Jr, ma l’altro non può assolutamente essere Francis Tully, che all’epoca della sua importante scoperta aveva ben 75 anni.

Abbiamo accennato brevemente all’incertezza scientifica che avvolge il mostro di Tully, che trae le origini dal dubbio su quale sia, in effetti, la sua collocazione nell’albero della vita. Sono stati tentati un po’ tutti gli approcci, a partire da quello più immediatamente soddisfacente che l’avrebbe visto come un precursore preistorico dell’ordine degli oloturoidei (i cetrioli di mare) per la sua evidente mancanza di ossa e presumibile capacità di nuotare libero a diverse profondità. Altri tentarono la via degli anellidi, tentando di definirlo uno stranissimo verme. Ma la realtà è che i tessuti scheletrici raramente si conservano in questa classe di fossili marini e quindi il consenso si è spostato, negli anni a partire dalla prima scoperta nel 1955 ad opera di Francis Tully, verso un ambito più affine a quello del concetto moderno di pesce, benché sia molto difficile tentare di essere più precisi. Lo stesso hobbista che ritrovò, quasi per caso, la prima immagine di questi esseri a vantaggio dell’umanità spezzando in due una delle concrezioni da lui raccolte nel lagerstätte di Mazon Creek, capì subito di trovarsi di fronte a qualcosa di veramente speciale. Così egli decise, senza alcuna esitazione, di recarsi presso il museo di storia naturale di Field, a Chicago, dove l’esemplare non tardò a catturare l’attenzione di E.S. Richardson Jr, il curatore dei fossili invertebrati, che ne fece una descrizione formale a vantaggio del mondo scientifico di allora. In assenza di indizi validi sulla collocazione e la rete di parentele di questa particolare esistenza biologica, egli scelse di latinizzare semplicemente il nome dello scopritore ed unirlo con la parola monstrum, che tanto spesso allude a creature composite fatte con pezzi di altri animali. Tutt’altro che inappropriato, vero? La risonanza fu pressoché immediata, e mentre schiere di paleontologi accorrevano  presso Mazon Creek, la quantità di fossili più o meno completi inviati al museo continuarono ad aumentare. In un momento imprecisato del decennio successivo, fu persino deciso che il mostro dovesse diventare un simbolo dello stato dell’Illinois, diventando il “fossile ufficiale” nei suoi cataloghi di meraviglie da tramandare ai posteri, con forte orgoglio da parte degli abitanti. Nel frattempo, la disquisizione su cosa esattamente fosse questa creatura continuava, in un vortice di tesi e smentite, che non tardavano mai ad arrivare.
Finché lo scorso marzo del 2016, la svolta: innumerevoli giornali generalisti di tutto il mondo inseriscono un titolo, nella loro sezione scientifica, più o meno in linea con “Finalmente risolto il mistero del mostro di Tully!” (Non credo fossero in molti a sapere di che si trattava) grazie al nuovo studio di un gruppo di 16 scienziati dell’Università di Leicester, Yale ed altre, che avevano osservato a fondo le caratteristiche dell’alto numero di fossili in possesso del museo di Field, arrivando ad inserirli nell’ordine delle lamprede (Petromyzontiformes). In particolare, le caratteristiche più determinanti da loro riscontrate includevano la presenza di una notocorda, la proto-colonna vertebrale, precedentemente scambiata per un condotto digerente, e l’alta complessità degli occhi dell’animale, più simili a quelli dei pesci che a creature dal corpo molle come i molluschi. Il problema di studiare esseri a partire da indizi tanto vaghi, tuttavia, è che spesso persino le teorie fondate sulle più approfondite osservazioni finiscono per diventare affini ad un’opinione personale, facilmente discutibili sulla base del senso critico di altri scienziati. Così, nel 2017, è arrivata una potenziale smentita.

Emily di TheBrainScoop si reca presso il museo di Field, per intervistare direttamente Scott Lidgard, uno degli autori dell’articolo del 2016. Quindi si applica nell’apertura con il martello di alcune concrezioni, che purtroppo ed alquanto prevedibilmente, non ci mostrano neppure l’ombra di un nuovo mostro di Tully.

Il nuovo studio pubblicato sulla rivista Palaeontology, di Lauren Sallan et al, pone diverse obiezioni alle affermazioni dei loro colleghi e predecessori, a partire da quella che verte sul presunto accenno di colonna vertebrale. Non è infatti attestata, nell’osservazione pregressa di fossili provenienti da ambienti sommersi, la presenza d’impronte affidabili di elementi solidi come le ossa, dunque perché mai, essi affermano, ciò dovrebbe essere capitato stavolta? Un altro problema sarebbe l’identificazione dei miomeri (tessuti muscolari) come appartenenti a diversi organi, nonostante il loro aspetto sia perfettamente coerente attraverso l’intero corpo dell’animale, come succede per l’appunto nelle creature invertebrate. La questione degli occhi è affrontata a parte e verte sul fatto che molte tipologie di esseri, attraverso la storia della biologia, hanno sviluppato caratteristiche evolutive convergenti, e dunque la somiglianza di questi agli organi sensoriali dei pesci non sia poi così determinante. Per quanto concerne invece la proboscide, che il team precedente voleva simile alle mandibole dei pesci gnatostomi, gli studiosi del 2017 fanno notare come assomigli notevolmente a quella degli Opabinia, un gruppo di artropodi del Medio Cambriano.
Ogni singolo appiglio faticosamente trovato su cosa effettivamente fosse, e chi fossero discendenti del mostro di Tully è svanito letteralmente nell’aria, per chiunque fosse aperto all’acquisizione di nuove idee. È un aspetto crudele delle scienze orientate allo studio del passato, che a differenza di quelle legate al mondo della tecnologia, si fondano spesso sulla speculazione, e risultano essere, quindi, creative dal punto di vista della fantasia. Altrimenti, come spieghereste la scelta perfettamente calzante di definire questo misterioso essere come un mostro, la creatura immaginaria per eccellenza… Alcuni, tra i suoi osservatori, ormai lo sospettano fortemente: che cosa egli fosse realmente, non lo sapremo mai. A meno di poter disporre per un singolo eterno momento, grazie a uno scherzo meraviglioso del destino, della sopracitata macchina dello (spazio)tempo. Per viaggiare sull’onda dell’entusiasmo fino all’era del Pennsylvaniano, accendere il fuoco da campo sul lagerstätte, e assaporare il gusto della storia cotta a vapore sul barbecue.

Meno del 30% dei fossili del mostro di Tully presentano la proboscide ancora integra e perfettamente visibile. Si tratta degli esemplari di maggior valore – Via

Lascia un commento