L’imprevista efficacia del martello flessibile, un’ingegnosa invenzione cinese?

In una storia meno nota di Paul Bunyan, importante personaggio folkloristico americano e canadese, il boscaiolo gigante dall’iconica camicia di flanella si recò nella foresta per una sessione di lavoro particolarmente intensa. A metà della raccolta, tuttavia, come ultimamente gli capitava sempre più di frequente, vibrando un colpo notevole il manico della sua ascia ricavata da un tronco di quercia si spezzò di netto, facendo turbinare in aria l’affilata testa e mandandola ad atterrare a poca distanza dal suo fedele amico ed animale d’accompagnamento, il grande bue blu Babe. Il quale restò, fortunatamente, del tutto illeso nonostante lo spavento di entrambi, che tuttavia diede finalmente la motivazione al fortissimo padrone di andare in cerca di un’alternativa. E fu così che Bunyan, radunando intere ceste della lunga e coriacea erba del Pacific Northwest, iniziò laboriosamente ad intrecciarla, fino a ricavare una singola treccia semi-rigida, al termine del quale fissò saldamente la lama del suo strumento. Creando un’ascia d’imprevista concezione che a ciascun colpo vibrato, di lì a poco, avrebbe dimostrato la sua funzionalità superiore: ogni qual volta egli colpiva un tronco, infatti, il manico si piegava, dissipando agevolmente l’energia in eccesso. Soltanto l’usura, alla fine, avrebbe potuto causarne la rottura. Il gigante, allora, capì di aver trovato la perfetta soluzione al suo problema e continuò a impiegare tale oggetto per molte settimane o mesi a venire.
Di sicuro una visione non molto probabile, che ne dite? Per quanto un’erba possa essere resistente, difficilmente essa potrebbe rimanere integra dopo multipli colpi vibrati con una forza sufficiente a tagliare un tronco. E la stessa tecnica principalmente utilizzata da chi compie lavori pesanti in Occidente sembra prevedere, nella stragrande maggioranza dei casi, un’attrezzo il più possibile rigido, al fine di garantire il trasferimento della più alta percentuale della forza impiegata contro il bersaglio. Contrariamente a quanto avviene per le mazze utilizzate in vari sport, tra cui il golf, l’hockey e il baseball, dove soprattutto negli ultimi anni hanno preso piede dei dispositivi dotati dell’inerente capacità di piegarsi, almeno in linea di principio al fine di sfruttare un presunto vantaggio nell’aumentare potenza e precisione di ciascun colpo. La possibile ragione per cui alla sua prima circolazione nel 2018, tra le immagini del sito memetico 9gag, una gif animata proveniente dalla Cina vide adottare la suddetta terminologia, identificando l’insolito attrezzo impiegato da una serie di operai come il “martello cinetico”, per analogia con tale ambito dell’attività agonistica dei diversi canali. Una grossa mazza da costruzione dall’aspetto più che pesante, la cui impugnatura era non meramente flessibile, in effetti, bensì abbastanza morbida da piegarsi letteralmente su se stessa, nella maniera in cui avrebbe potuto fare una frusta o corda usata per arrampicarsi su una montagna. Eppure tanto abilmente messa a frutto, nell’azione ripetuta dei propri utilizzatori, al fine di colpire una lunga fila di paletti metallici, preventivamente infissi in senso verticale nella lastra monolitica di marmo o granito per riuscire a separarla in due parti distinte. Così che a ciascun attacco del saliente punto, essa tornava indietro, permettendo all’utilizzatore di sfruttare un simile rimbalzo per portarla nuovamente dietro la sua schiena, e farla oscillare nuovamente nel proseguire dell’operazione complessa. L’analogia è quasi degna di un distante Medioevo (pare di assistere all’impiego di un mazzafrusto) eppure chiaramente dotata di un’intento pratico tutt’altro che sperimentale, con il collaudo già gettato alle spalle da parecchi anni, se non addirittura generazioni a questa parte. Il che come potrete facilmente immaginare, non ha in alcun modo impedito a Internet di lanciarsi nella solita pletora di spiegazioni esperte e critiche variabilmente informate…

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La saggia tradizione del sistema per depurare l’acqua nei deserti mediorientali

Sfondo scuro e privo di elementi, contenuti verticali perché adatti ad essere visualizzati sugli smartphone. Pochi commenti rispetto al numero d’interazioni, una preponderante maggioranza di video fondati sul facile umorismo e l’aderenza a linee comportamentali comuni. Semplicemente non ti aspetteresti, mentre vaghi nel deserto alla ricerca di un’oasi, che TikTok possa riuscire a salvarti la vita. Non tanto grazie a un post coi tag #salvatemi o #stomorendodisete (a tal fine, sarebbe stato meglio utilizzare una storia geolocalizzata di Facebook) quando in funzione del novero di dati e nozioni, acquisiti quasi accidentalmente nei lunghi pomeriggi trascorsi a cliccare, scorrere verso il basso ed aggiungere il segno di spunta, nell’ideale catalogo delle esperienze “fatte” di seconda, terza e quart’ultima mano. Cose come l’ultima proposta virale dell’utente di cultura araba q8ping (vedi) collocabile grazie ai suoi tags nell’emirato del Kuwait, da dove ha scelto di renderci partecipe di un’antica usanza ereditaria della sua gente. Quella che potrebbe rendersi fondamentale, in determinati frangenti, dopo lunghe ore trascorse a vagabondare sotto il solleone, tanto che neppure il candore del lungo thawb ed il cappello kefiah, che abbiamo visto recentemente fluttuare come un fantasma gigantesco sopra il pubblico dell’inaugurazione dei mondiali di calcio, appaiono essere più sufficienti a mantenere entro i margini di tolleranza termica i nostri delicati organi interni. Situazione in cui generalmente, la disidratazione può avere conseguenze gravi. Perciò ecco palesarsi, lungo il tragitto della nostra faticosa camminata, quello che potrebbe essere a tutti gli effetti il letto prosciugato di un torrente, forse residuo paesaggistico di una delle apocalittiche piogge che sono capitano saltuariamente da queste parti. Fornito completo, il caso vuole, dal residuo sfolgorante di una vera e propria pozzanghera, potenziale ausilio ad allungare il nostro stato di arsura agonizzante fino all’auspicabile arrivo dei soccorsi. Se non che, problema non da poco, il fluido in questione appare di un evidente color ocra a causa delle impurità presenti all’interno, con l’aggiunta di un preoccupante numero di macchie galleggianti di… Schiuma? Ora ciò che insegnano, nei veri corsi di sopravvivenza, è che bere acqua contaminata è sconsigliabile nelle situazioni al limite, proprio perché conduttivo a condizioni di salute che contribuiscono grandemente alla disidratazione (vedi per l’appunto la dissenteria). Ma q8ping, così come generazioni di arabi prima di lui, sembra avere un’altra idea in materia: “Vedete questo?” Afferma nel commento sottotitolato su Reddit alle circostanze “Questo grande ammasso sabbioso che chiamiamo la terra?” E qui ne prende una manciata, cominciando delicatamente ad allargare il buco della pozzanghera “Si tratta del più grande filtro per l’acqua del mondo. Basta sapere come utilizzarlo, inshallah! (se Dio vuole)” Ed è qui che le cose si fanno decisamente più interessanti, quando lui assieme al suo compagno di disavventure prendono l’inquinato liquido, usando una bottiglia, una ciotola e le mani stesse, per farlo ricadere ai margini della depressione concava. Lasciando che scivoli nuovamente all’interno, dopo essere passato all’interno della sabbia del deserto. Con l’avanzamento rapido a qualche minuto più tardi di questa gestualità ripetuta, se ne scopre finalmente la ragione: l’acqua della pozzanghera è diventata limpida come uno specchio e aspetta, almeno in apparenza, di essere trangugiata. Un passaggio preventivamente al quale, è importante notarlo, i tradizionali viaggiatori del deserto avrebbero comunque provveduto a bollirla, nella preparazione del caffè o del tè, ben sapendo come l’uso di una tale metodologia risulti purtroppo insufficiente a eliminare fonti patogene di malattie particolarmente resistenti agli agenti esterni. Pur costituendo un significativo passo avanti, verso l’acquisizione della preziosissima sostanza che dà la vita…

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La fabbrica nella foresta: uno spazio verde per l’industria metallurgica vietnamita

La creazione di un ambiente ideale dovrebbe essere l’obiettivo di qualsiasi architetto operativo nel campo degli edifici professionali, benché l’ottenimento di un simile obiettivo sia condizionata una problematica essenziale: la maniera in cui non sempre ciò che massimizza la produttività coincida sotto ogni punto di vista rilevante con l’esigenza di vivibilità della forza lavoro umana. Un tipo di conflitto incontrato, a quanto si narra nelle pubblicazioni d’accompagnamento, durante la costruzione del primo impianto vietnamita della Jakob Rope Systems, compagnia svizzera produttrice di cordame in acciaio ed altri metalli plasmati alle esigenze dell’architettura e l’assemblaggio di macchinari dall’alto grado di complessità operativa. Un tipo di fabbrica che potremmo definire totalmente “convenzionale” essendo dotata di alte mura in cemento bianco, finestre luminose ed un potente impianto di condizionamento climatico per combattere le temperature particolarmente elevate. Se non che dopo appena un anno dalla sua apertura, la direzione dell’azienda incominciò a rendersi conto di aver commesso tutti i più tipici errori di chi viene a costruire edifici nel territorio dell’Asia Meridionale, creando un spazio totalmente chiuso e dal cattivo ricambio dell’aria in un luogo tropicale e andando così incontro a spese energetiche del tutto fuori dalle aspettative ragionevoli inserite nei propri preventivi di budget. Non al punto tale, tuttavia, da compromettere completamente l’operatività aziendale nel paese, tanto che a partire dall’inizio del 2019 iniziarono a essere redatti i piani per l’apertura di una seconda struttura, costruita questa volta in base a crismi operativi e priorità letteralmente all’opposto. Dal che l’idea di coinvolgere stavolta lo studio architettonico di Berna fondato da Francesco Marchini e Michael Rolli con l’appellativo di Rollimarchini, per una collaborazione con i colleghi locali g8a Architects situati a Saigon/Hoh Chi Min City, al fine di rivoluzionare totalmente i presupposti nell’elaborazione teorica dei propri ambienti futuri. Verso l’ottenimento prima teorico, e quindi pienamente tangibile e visitabile, di un luogo destinato ad essere battezzato con il nome programmatico di Tropenfabrik o “Fabbrica Tropicale” perfettamente racchiuso tra il verde di pareti nella loro essenza distinte dalla generalizzata definizione di tali elementi strutturali basici e concettualmente privi di variazione. Se ancora effettivamente possiamo giungere a definirle tali, essendo effettivamente costituite da una serie di capienti fioriere di metallo, sospese ed attaccate l’una all’altra grazie a un reticolo di funi metalliche create dalla stessa compagnia proprietaria dello stabilimento. Il che non vuole effettivamente costituire una mera pubblicità in essere dei loro prodotti (benché sia ANCHE quello, visto lo spazio riservato nei cataloghi alle soluzioni per il giardinaggio verticale) bensì l’approccio alternativo alla ventilazione in base ai presupposti dei tradizionali palazzi vietnamiti, in cui dev’essere il ciclo stesso delle alte e basse pressioni atmosferiche terrestri a veicolare l’aria fresca nell’interno degli ambienti operativi. Magari coadiuvato, in casi estremi come questa imponente struttura multipiano, da poderosi ventilatori situati in punti strategici, finalizzati ad eliminare ogni potenziale residuo di aria appesantita dal calore generato dai macchinari. Un approccio certamente alternativo, ma indubitabilmente superiore, al raggiungimento degli standard ottemperati in linea di principio dal primo, fallimentare edificio della compagnia…

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L’orribile richiamo dei lupi d’acciaio dagli occhi di bragia

Sotto gli occhi affascinati di un gremito pubblico silente, l’attore del kabuki fa il suo ingresso nella scena, relativamente scarna e minimalista secondo la metrica di una qualsivoglia differente tradizione teatrale, tranne forse le altre provenienti dallo stesso paese. Con un gesto magniloquente, sistematosi l’enorme chioma della sua parrucca, allarga quindi le sue gambe, gira il collo e lo sguardo tutto attorno e lancia il grido entusiastico e solenne al tempo stesso: “ヨウウウウウ!” (Yoooooo!) L’aria pare sollevarsi, assottigliarsi, poi convergere in corrispondenza della sua figura, mentre il tocco ritenuto di una coppia di legnetti accelerantisi sottolinea e accresce il senso di agitazione. Apotropaica è sempre tale circostanza, eppur variabile in base a validi suggerimenti di contesto: all’interno di un cimitero, sarà il pronunciamento magico di un onmyōdō, praticante delle antiche tecniche di esorcismo ed allontanamento della sventura. Nel bel mezzo di una foresta, il verso di sfida di un esperto cacciatore, che solleva l’arco lungo pronto per colpire l’orso che fuoriesce dalla propria oscura tana. Nel palazzo dei potenti, tanto spesso, il grido di vendetta dei figli usurpati, i samurai ribelli, i servitori di ritorno da un fallito tentativo d’assassinarli. Come i visitatori dell’alto castello del mago di Oz, per ciascuno di coloro che ode quel drammatico richiamo percepisce dunque in esso il valore permeabile di un differente messaggio. Che sia convinzione, furia o chiarezza d’intenti. O persino il grido atroce di un guerriero dalla maschera di lupo. Perché proprio questa, è la natura imprescindibile dell’umanità.
Confrontiamo, d’altra parte, il tipico comportamento di una delle tanti specie animali che rendono difficile la vita negli ambienti rurali di quello stesso vasto, occasionalmente selvatico paese. Per un cervo, cinghiale o macaco dalla faccia rossa, l’astrazione non ha nessun tipo di significato. E una sirena d’allarme, dopo l’iniziale senso di stupore e atterrimento, cessa semplicemente di essere presa in considerazione. Permettendo la continuazione indisturbata delle proprie pericolose ed indesiderabili attività quotidiane. Così è a questo punto che entra in gioco, nell’ideale linea temporale degli eventi, l’inventore e imprenditore della città di Naie in Hokkaido Mr. Ota Seiki, che attorno al 2016 iniziò ad interrogarsi in merito a cosa potesse essere fatto per impedire l’invasione dei campi da parte dei suddetti portatori di rovina ed altri simili, piuttosto che arrendersi cedevolmente al corso naturale degli eventi. Almeno finché non gli capitò di riconsiderare con occhio critico la notizia relativa alla nutrita schiera di bambini in età scolare che restarono colpiti da crisi epilettiche in un celebre caso di vent’anni prima durante un episodio dei Pokémon, prima che i regolamenti per le trasmissioni mediatiche nazionali introducessero il divieto d’immagini lampeggianti ad un ritmo eccessivamente veloce. “Quindi, se la semplice luce può essere sgradevole o pericolosa” Pensò allora: “Un faro lampeggiante, con suoni ripetuti ed attivato da una cellula fotoelettrica potrebbe senz’altro riuscire ad allontanare senza falla gli animali”. Così per almeno quattro notti, i cervi della zona di prova nei dintorni della città innevata conobbero il vero significato della parola terrore. Finché abituatosi al fastidio, non finirono per relegarlo in un cassetto ben serrato della propria co(no)scienza. Per tornare nuovamente e allegramente a brucare. Da che Ota comprese che sarebbe servito un’approccio alternativo alla questione. Uno che nascesse da notizie informate, piuttosto che le mere impressioni rilevate dal senso comune…

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