Il travagliato arrivo dello svasso maggiore al trono dei pennuti neozelandesi

Una battaglia in termini di popolarità, non importa quanto inconcludente ai fini dello stato attuale delle cose, è pur sempre un tipo di conflitto da cui nessuno, o niente può restare privo di un coinvolgimento dalle implicazioni impreviste. Per cui persino l’essere più placido in assoluto, un uccello acquatico che apprezza la serenità lacustre di un mondo naturale ancora ragionevolmente incontaminato, può essere visto come un avversario da sconfiggere, il nemico numero uno di un particolare tipo di collettività appassionata. Succede regolarmente ogni anno per particolari specie di volatili come il qui presente svasso crestato maggiore (Podiceps c.) ed è ancora più palese come conseguenza di questa particolare edizione del concorso “Uccello dell’Anno” della Nuova Zelanda, che per l’imminente anniversario dell’ente organizzatore sarà nominato addirittura “Uccello del Secolo” grazie al voto del popolo del Web. Un’occasione in grado di capitare, letteralmente, ogni cento anni! Quello che nessuno si aspettava nel frattempo, né adesso né mai prima di questo momento, sarebbe stato il contributo particolarmente enfatico da parte del comico e conduttore statunitense John Oliver, che forse con l’idea di sorprendere il suo pubblico, o magari per un senso del dovere stranamente fuori dal contesto, sembrerebbe essersi fatto carico di una letterale campagna elettorale in pieno stile presidenziale, con tanto di spezzoni televisivi in costume, grossi pupazzi animatronici in trasmissione e vari cartelloni pubblicitari noleggiati in svariati paesi. Accompagnati da entusiastici monologhi, senza un palese grammo d’ironia, sulla bellezza dello svasso apostrofato per l’occasione con il nome in lingua nativa pūteketeke, le sue abitudini e ciò che servirebbe a distinguerlo dai precedenti vincitori della kermesse. Iniziativa che, nell’esporre implicitamente al mondo i meriti della conservazione naturale, ha suscitato nondimeno vari problemi all’ente di conservazione neozelandese della Forest and Bird, con accessi al loro sito e un numero di voti superiori di fino a cinque volte la quantità prevista sulla base delle esperienze pregresse. Senza neppure entrare nel merito delle comprensibili proteste dei sostenitori di altri possibili candidati come l’amministratore locale Scott McNab, convinto che il premio dovrebbe andare al piccolo parrocchetto di Malherbe (Cyanoramphus m.) alias kākāriki karaka. E che non ha esitato a paragonare l’iniziativa del suo antagonista a quella dei presunti propagandisti russi, notoriamente associati all’ascesa spesso problematica di una particolare figura della scena politica contemporanea statunitense…

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L’insolita saggezza suina e la capigliatura di un cinghiale steampunk

Chi non ha mai ponderato, nei trascorsi delle proprie scampagnate crepuscolari, l’assoluta utilità ecologica dei suini? Gremite famigliole irsute, grufolanti nella propria intima soddisfazione, che mangiando i frutti della terra propagano la diffusione dei preziosi semi contenuti all’interno. Che grufolando tra gli strati del suolo compatto, permettono all’ossigeno di penetrare le dimore dei lombrichi. E scavando tane per i propri piccoli, ne avallano l’impiego successivo ad opera di numerosi altri abitanti della foresta. Già, i cinghiali: occupanti di uno spazio ecologico precisamente definito, in grado di rispondere a esigenze di notevole respiro. È soltanto a causa di specifici fattori esterni, che la loro presenza tende a diventare problematica. Sto parlando, molto chiaramente, della convivenza a stretto contatto con l’uomo. Il che diventa problematico, per molteplici e condivisibili ragioni, nel momento stesso in cui l’intera popolazione di una specie a rischio presenti il proprio territorio endemico entro lo spazio relativamente ristretto di un arcipelago densamente popolato. Ed occupato da strutture agricole ed urbane di diversa in una percentuale preponderante del suo totale. Peccato proprio ciò sia il caso, per l’appunto, del Sus cebifrons o cinghiale dalle verruche delle Visaya (Cebu, Negros, Panay, Masbate, Guimaras e Siquijor) un gruppo di terre emerse situate nella parte mediana delle Filippine, dove il ruolo e l’aspetto dei maiali selvatici, chiamati localmente biggal, si è da sempre dimostrato particolarmente interessante; con la loro corporatura massiccia, la maschera bianca sul muso ricoperto da preminenze carnose protettive e il ciuffo preminente sopra il capo, in tutto e per tutto simile a un faux mohawk. Quando non ricade con palese senso dello stile da una parte della testa, ricordando un cantante britannico degli albori del genere Pop. Uno che sia stato trasportato, d’altra parte, nel contesto totalmente nuovo di un ambiente dove la musica è secondaria. Mentre conta, più di qualsiasi altra cosa, la capacità di aggregazione e soluzione di problemi quotidiani dal variabile livello di complessità.
Costituendo dunque una delle poche specie di suini caratterizzati da uno stato critico di conservazione, questo essere dall’aspetto affascinante è giunto a costituire oggi un raro pretesto utile ad approfondire il comportamento e l’organizzazione sociale di una simile categoria di creature, al tempo stesso possibili prede e dominatori strategici del proprio frondoso ambiente. Permettendo di acquisire cognizioni in merito alla loro intelligenza che sarebbero risultate, fino a poco tempo fa, impossibili da immaginare…

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La maschera mediterranea della mantide sottile dai molti colori

Territorio al centro della colonizzazione umana fin da tempi relativamente antichi, tramite l’aggregazione dei gruppi sociali che un giorno avrebbero portato a civiltà, insediamenti agricoli e un giorno alle metropoli contemporanee, l’Europa non conosce più quel tipo di foreste selvagge, praterie incontaminate o vere e proprie oasi biologiche, che ancora sopravvivono in mezzo ai confini di altri continenti del nostro affollato pianeta. Il che non significa, necessariamente, che la natura più selvaggia si sia totalmente ritirata dai nostri lidi, lasciando posto solamente ad animali domestici o egualmente privi di originalità circostanziale, quali gatti, cani, qualche ragno, piccioni. Il fatto che un’atipica o notevole presenza possa essere soltanto definita come “rara” dovrebbe forse farcela declassare come meno rappresentativa di un particolare ambito geografico? Dipende. Molti entomologi dei nostri giorni, di loro conto, sono pronti a entusiasmarsi e sfoderare gli strumenti tassonomici dell’analisi più approfondita, ogni qual volta si ritrovano in un prato assolato delle nostre terre. Soltanto per scorgere, con la coda dei propri sguardi, una presenza filiforme che ritmicamente oscilla avanti e indietro, avanti e indietro quasi fosse un rametto vegetale fatto muovere dal vento. “Sono foglia, sono foglia. Sono solamente una foglia!” Sembra dire come un mantra la Empusa pennata o mantide a testa di cono, o ancora “diavoletto” per l’aspetto alquanto aggressivo dei suoi tratti somatici geometricamente appuntiti. Non che il nome scientifico risulti necessariamente rassicurante, essendo preso in prestito direttamente dalla mitologia greca, con riferimento alle mostruose ancelle della Dea notturna Ecate, succhiatrici mutaforma del sangue dei viaggiatori. Un po’ come la portatrice che non supera i 10 cm di quel nome, nel suo piccolo, costituisce il terrore in paziente attesa d’insetti volanti o deambulatori, rapidamente catturati con un gesto calibrato dei due arti raptatori frontali, che ricordano l’approssimazione biologica di falci fatte per distruggere qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Mentre per quanto concerne la qualifica nominale di pennata, essa è facilmente rintracciabile all’aspetto delle antenne particolarmente visibili nel maschio, ma presenti anche nella femmina, caratterizzate dalla forma simile alle venature di una foglia. Un prodotto funzionale dell’evoluzione, utile a rilevare l’emissione feromonica dell’altro sesso, facilitando e velocizzando l’essenziale processo di accoppiamento. Il che apre la strada a un’importante tratto di differenziazione di questi animali, rispetto allo stereotipo che gli viene comunemente attribuito: sto parlando della quasi totale assenza della pratica del cannibalismo, ai danni del partner di dimensioni minori subito dopo l’accoppiamento, notoriamente praticato dalla femmina nel caso di molte specie cognate. Quasi come simili presenze, avendo preso nota dello stato non propriamente iper-solido della loro popolazione in costante calo (nonostante la classificazione nominale di specie LC – “Non a rischio”) le mantidi avessero imparato a conservare per quanto possibile la vita dei propri simili. Ma non quella delle vittime designate al sopraggiungere, giorno dopo giorno, dell’ora di pranzo…

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L’altra echidna, ovvero la fantastica leggenda del terzo monotreme

Quando i primi animali europei giunsero assieme ai coloni sulle intonse spiagge del secondo continente meridionale, l’ecosistema australiano venne percorso da una scossa che continua tutt’ora. Un’intera catena alimentare, all’interno della quale i predatori più temibili erano il tilacino (alias “tigre” tasmaniana) assieme al dingo introdotto assai probabilmente dai Polinesiani, venne improvvisamente capovolta dalla presenza straordinariamente competitiva di ratti, felini, volpi, maiali e conigli. Per non parlare degli arrivi successivi e ancor più problematici, come il ratto delle canne o la formica rossa Solenopsis. Mentre molte delle specie native soffrivano e tentavano di adattarsi, all’interno di nicchie calibrate nel trascorrere di lunghi millenni, una singola tipologia di esseri, fuoriusciti dall’acqua nel proprio percorso evolutivo soltanto 20 o 50 milioni di anni fa, guardarono verso il pericolo. E con una studiata espressione d’indifferenza, continuarono tranquilli per la propria strada. L’echidna, denominata sulla base del mostro leggendario dell’antica Grecia che era per metà umano e per metà serpente a causa della sua metodologia riproduttiva ovipara, mantiene di suo conto pochi tratti che permettano d’identificarla come discendente dello Steropodon, creatura del Cretaceo del tutto simile a un moderno ornitorinco. Il che diventa ancor più vero nel caso in cui si prendano in esame i suoi parenti originari dell’isola di Papua Nuova Guinea, così drammaticamente dissimili dalla stragrande maggioranza degli esseri viventi. Con la possibile eccezione del porcospino e del formichiere: così coperte da una fitta ed ispida peluria marrone scuro, da cui emergono gli aculei cheratinosi in quantità minore di quanto ci potremmo aspettare, la sua presenza senza coda e non più lunga di 100 centimetri si aggira barcollando per il sottobosco delle foreste d’altura. Rendendo onore al proprio nome comune di “echidna dal becco lungo” (alias Zaglossus) grazie al muso simile a una cannula che costituisce i due terzi della lunghezza del suo cranio, pieno di elettrorecettori per trovare i vermi e le larve d’insetto di cui è solita nutrirsi. Essere crepuscolare o notturno allo stesso modo dei suoi cugini più studiati, questa triplice categoria di echidna teme in modo particolare le alte temperature, a causa della propria incapacità di sudare. Ragion per cui trascorre l’intero periodo delle proprie giornate all’interno di una tana sotterranea, che scava grazie all’uso delle possenti zampe anteriori dotate di cinque artigli. Mentre quelle posteriori, che ne possiedono soltanto tre, compensano spesso mediante la presenza di uno sperone vestigiale presente in età adulta soltanto nei maschi, probabilmente usato dai loro antenati per l’inoculazione di un veleno simile a quello dell’ornitorinco. In assenza del quale, ciascuna delle quattro specie di echdina viventi costituisce ad ogni modo una fortezza ambulante, elusiva ed accorta, al cospetto della quale ogni aggressore tranne l’uomo appare incline a riconsiderare l’ordine delle sue priorità…

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