Il guru che ha inventato lo zodiaco dei pappagalli

È difficile sopravvalutare l’importanza di una preposizione ed è per questo che si parla sempre di Paradiso “in” Terra, mai di Paradiso “sulla” Terra. Poiché il luogo di ricompensa per le buone azioni accumulate nel corso della vita è sempre necessariamente al di sopra delle nostre teste, tanto che l’impiego di un termine linguistico che implica una posizione in senso verticale sfaterebbe il concetto stesso del poter raggiungere quell’esperienza prima, o subito dopo il trapasso. Ovvero grazie al ciclo delle reincarnazioni, se si sceglie di credere in questo destino dell’umana consapevolezza. Ciò è tanto più importante nella filosofia della religione induista, secondo cui il Bhuva Loka (Buon Regno) non è un luogo, bensì l’epoca di una vita più prossima alla totale liberazione dal peso dell’esistenza (Moksha) e dunque priva di bisogni, sofferenza e desideri. Proprio per questo io non credo che nessuno, osservando uno qualsiasi dei molti video di Sri Sri Ganapathi Sachchidananda Swamiji nel suo santuario degli uccelli presso la regione di Mysore, nello stato meridionale del Karnataka, potrebbe dubitare anche soltanto per un attimo della sua santità. Costui è un uomo che, raggiunte le più alte vette nello studio e nella pratica della musica tradizionale Ragam, che si dice possa colorare i sentimenti e lo spirito delle persone (nonché guarirle da ogni male) è riuscito a ritrovare quelle stesse note serenissime nel canto degli uccelli ed ha quindi deciso, grazie al supporto dei suoi innumerevoli fedeli in molti paesi del mondo, di costituire un’ulteriore attività benefica, ma questa volta dedicata alla salvaguardia ed al benessere dei suoi beneamati pennuti. Così nasce lo Shuka Vana, uno dei centri di accoglienza ed ospedali per animali più particolari al mondo, perché incorpora, oltre alle più moderne strutture assistenziali su oltre un acro di terreno, luoghi legati al culto di Hanuman, il dio scimmia che aiutò il signore Rama durante la guerra Ramayana,  tra cui uno Stupa di terracotta dedicato alle anime dei defunti per cause innaturali ed una statua di Shuka, figlio di Vyasa, l’antico saggio spesso rappresentato con le fattezze di un pappagallo, unico narratore del Bhagavata Purana.
Una base indubbiamente molto diversa dal mero approfondimento scientifico che generalmente alberga dietro a simili iniziative di conservazione del patrimonio faunistico, che ha quindi permesso a Sri Swamiji di meditare particolarmente a lungo sul significato esistenziale degli uccelli ed in particolare delle quasi 290 specie di pappagalli che ospita sul suo terreno, le quali del resto, nella cultura indiana hanno da sempre rivestito un’importanza simbolica tutt’altro che indifferente. Nel Ramayana l’eroe titolare incontra Jatayu, un avvoltoio gigante, che gli parla orgogliosamente dei suoi antenati: il saggio Kashipaya aveva avuto cinque figlie, delle quali Kraunchi diede l’origine alla linea dei gufi, Bhasi generò i corvi, polli e anatre, Shieni gli sparvieri e gli avvoltoi, Dhrtarashtri i cigni, le oche e i cuculi e Shuki le aquile tra cui la leggendaria Garuda. Soltanto da quest’ultima, dunque, sarebbero nati i pappagalli. Una metafora particolarmente pregna presente sul sito dello Shuka Vana parla della relazione tra i diversi uccelli come di uno specchio di quella che esiste tra gli esseri umani e la consapevolezza dell’Anima Suprema. Di pappagalli ve ne sarebbero, infatti, di due tipi: quello che mangia il frutto dell’albero materiale, assaporando tutte le gioie e le sofferenze del mondo. Costui è come l’uomo comune, che ancora non aspira alla crescita interiore ed al raggiungimento futuro dello stato del MokshaIn contrapposizione con l’altro suo simile, che non si reca a carpire un simile frutto, ma osserva da lontano colui che lo sta facendo. Esso è l’uccello più saggio, poiché aspira al sapere universale. Ma come possiamo noi, semplici esseri umani, aspirare alla sua stessa saggezza ed intelligenza? Secondo gli approfonditi studi di numerologia e lo spirito d’osservazione di Sri Swamiji c’è almeno una singola, pregna modalità…

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L’ombra di Yasuke, grande samurai africano

In un attimo, scese il silenzio nella sala dei ricevimenti. Il signore della guerra con il crocefisso d’oro al collo alzò il suo sopracciglio destro, appoggiando il recipiente col saké: “Volete dirmi, maestro, che il colore di quest’uomo è naturalmente scuro come l’inchiostro, che non l’avete tinto per prendervi gioco di me? Fate attenzione, potrei spazientirmi…” Alessandro Valignano, Ispettore designato di tutte le missioni gesuite in Giappone, sedeva a gambe incrociate di fronte all’uomo più pericoloso e imprevedibile che avesse mai conosciuto. Vestito in kimono, come il resto della sua delegazione, chinò enfaticamente la testa: “Nobile signore!” L’eloquio si svolgeva in uno strano giapponese, impersonale e quasi gnomico nelle espressioni, tanto quest’ultime erano state attentamente selezionate: “Ve lo confermo. Questo giovane volenteroso è giunto presso la nostra ambasciata con l’ultima nave dei rifornimenti, assieme alle bibbie e agli abiti talari per il nuovo seminario. Secondo il racconto del capitano della nave genovese, si è offerto di seguirlo spontaneamente, fin dalla remota terra del Mozambico.” Con questa affermazione, fece un cenno all’interessato, che secondo le istruzioni ricevute precedentemente, avanzò verso il centro della scena arrancando sulle ginocchia, guardandosi bene dall’alzarsi in piedi. Quindi, s’inchinò portando la fronte fino al pavimento in tatami. “Ebbene si. Il suo nome barbarico sarebbe impronunciabile per Voi, come del resto lo è stato per noi cristiani. E poiché viene dal popolo degli Yao, i vostri connazionali hanno preso l’abitudine di chiamarlo Yasuke. Già, usando il semplice suffisso generico dei nomi maschili.” Naturalmente, come tutti coloro che rientrassero sotto la sua giurisdizione, Valignano aveva fatto battezzare l’africano. Ma non vide alcuna utilità nel dirlo, affinché l’irascibile interlocutore non sospettasse che si trattava di una spia. Neppure per un attimo, del resto, egli pensò che il simbolo portato apertamente dal sovrano implicasse una sincera conversione, quanto piuttosto un altro vezzo del suo modo di essere diverso dalla collettività. “Davvero…Molto…Interessante. Bene: Tsuda Nobusumi, nipote mio: paga generosamente il servo del nostro amico. Più tardi vorrò vederlo. E parlare con lui. Per quanto concerne il resto di questo lieto incontro, ringrazia il nostro amico italiano e salutalo per me. Bere mi ha fatto venire sonno.” Il missionario gesuita, che ovviamente era lì ed aveva sentito tutto, tirò un sospiro di sollievo. Quindi, chinò anche lui la fronte fino al pavimento.
Negli anni tra la vittoria a Nagashino nel 1575, ottenuta grazie al lampo e al tuono dei moschetti, e il il giorno della sua morte, sopraggiunta a seguito di un tradimento nel 1582, nessuno avrebbe osato negare il potere pressoché illimitato di Oda Nobunaga, il conquistatore inarrestabile sorto dalla provincia di Owari. Signore di un clan secondario, che dopo essersi ribellato ai suoi alleati più potenti, gli Imagawa, aveva sconfitto un esercito 10 volte più grande grazie all’attacco a sorpresa di Okehazama, per poi annientare i Saito di di Mino impossessandosi del loro castello (che sarebbe diventata la famosa reggia fortificata di Gifu) e piegare l’alleanza degli Azai e degli Asakura, guidata da niente meno che il consorte di sua sorella, la celebre quanto sfortunata dama Oichi. Quindi, per buona misura, avrebbe bruciato fino alle fondamenta il sacro tempio del monte Hiei, dove i monaci della lega degli Ikko-Ikki si erano ritirati a lanciargli i loro anatemi. Senza alcuna pietà, in uno stato di guerra costante, guidato dal desiderio e l’ambizione incontenibile al comando. Per un intera generazione, la situazione apparve fin troppo chiara: se mai l’ammasso di feudi costantemente in conflitto tra di loro che veniva definito Giappone sarebbe mai riuscito a risorgere come una Nazione unita in senso rinascimentale, il portatore di un simile cambiamento sarebbe stato proprio lui, dopo averlo distrutto come una reincarnazione terrena del signore dei demoni Shutendoji. Se non che, un giorno….
Nobunaga era un personaggio che odiava le tradizioni, e cosa ancor peggiore, non rispettava gli antenati. Proprio per questo, il suo più fidato generale, Hashiba Hideyoshi, non proveniva da una grande famiglia ma era un uomo del popolo, che aveva iniziato lavorando come supervisore alle opere edilizie del clan, per poi diventare portatore di sandali del suo signore. Un ruolo molto ambìto, anche dal punto di vista personale. Da lì, comandare la spedizione di 20.000 uomini del 1576 contro il clan dei Mori del Chūgoku, tra gli ultimi oppositori del nuovo ordine, il passo fu estremamente breve. E pericoloso.

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Uomo perde il drone in mezzo alle bandiere sacre tibetane

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Quante volte vi è capitato di guardare un qualcosa da lontano, trovandolo bellissimo, per poi avvicinarvi e scoprire che non tutto era precisamente in linea con le vostre aspettative? Sia chiaro: con ciò non voglio dire che l’antica tradizione dell’Himalaya consistente nell’appendere a dei lunghi cordoni i rettangoli di stoffa chiamati Lung Ta (cavalli che corrono nel vento) sia una pratica priva di grazia ed eleganza. Onorare le usanze degli antenati non è mai sbagliato, come del resto un rituale pensato per diffondere nel mondo la pace, la compassione ed altri influssi dovrebbe necessariamente istigare in noi un senso di stima ed assoluta condivisione dei sentimenti generativi. Ritengo tuttavia importante, e al tempo stesso significativo, prendere atto della curiosa ed ansiogena esperienza del viaggiatore canadese Vafa Anderson, che fra questi elevatissimi recessi stava per subire la peggiore esperienza che possa capitare ad un pilota di quadricottero con telecamera dall’alto: subire l’interruzione del contatto col dispositivo mentre si trovava a circa la metà del raggio massimo di controllo, e quindi perderlo di vista in un luogo remoto. Tanto che soltanto la sua stolida perseveranza, il supporto morale degli amici e soprattutto l’aiuto della guida locale Punsok, gli ha permesso infine di risolvere la situazione. Ma non prima di trovarsi a fare un qualche cosa che raramente viene mostrato in video, ovvero camminare in prima persona presso una delle vette del monte Potala, la dimora di Avalokitesvara (nota ai cinesi come Guānyīn) somma dea della misericordia, dove oscillano da sempre le suddette bandierine da preghiera. Per mostrarci quasi casualmente una piccola e imprevista verità.
Ho scelto di mostrare  la sua avventura iniziando in medias res, ovvero dal secondo video con il culmine del piccolo disastro aeronautico, perché trovo che l’immagine d’apertura risulti così essere molto immediata e coinvolgente: vi compare proprio lui, Vafa, che arranca affannosamente su per l’assolato pendio, respirando con fatica l’aria sottile ad oltre 4.000 metri d’altitudine. Siamo presso la città di Lhasa ed egli non dovrebbe fare altro che voltarsi, letteralmente, e risalire in macchina, per fare il primo passo del ritorno verso i luoghi del turismo e l’assoluta civiltà. Ma poiché il drone in fabula non è esattamente un “pezzo” tecnologico di poca importanza, trattandosi in effetti di un DJI Phantom 3 Professional dal prezzo di listino di esattamente 999 dollari, la sua scelta di procedere diventa chiaramente l’unica possibile, in tutta coscienza, e sopratutto volendo continuare a disporre nel corso del suo attuale viaggio in Oriente di quell’utile occhio nei cieli. Così arrivato in prossimità della cima assieme a Punsok la guida, la sua telecamera personale finisce per riprendere ciò in effetti, quasi ogni minuto dell’anno, si trova sotto all’area oggetto dell’allestimento che vediamo in ogni cartolina tibetana: le vecchie bandiere colorate, cadute a terra per il vento, quindi lasciate lì fra l’erba, a sopportare l’inclemenza degli elementi. Ciò è interessante, e al tempo stesso molto singolare. Perché la prassi di utilizzo delle Lung Ta, così come quella delle Darchor a disposizione verticale con l’uso di un palo, esprime chiaramente il fatto che giammai, simili oggetti sacri dovrebbero essere trattati con mancanza di rispetto, ovvero gettati a terra, calpestati, oppure gettati senza troppe cerimonie nei rifiuti. Ma è del resto altrettanto vero che esse vengono generalmente rimosse soltanto in una precisa occasione: il Losar, o capodanno tibetano, corrispondente all’andamento dell’anno lunare ma che in genere si celebra con più di un mese di distanza da quello cinese, più celebre a livello internazionale. Il che significa, in altri termini, che sotto le splendide bandiere all’orizzonte, non può che permanere un costante strato di vecchi rettangolo di stoffa, che finiscono per accumularsi dando a questa scena un’aria strana, ed irreale, di trascuratezza delle circostanza…

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La leggenda cinese del veleno supremo

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È piuttosto raro che un singolo elemento di una cultura pluri-millenaria giunga, pressoché invariato, fino alla soglia della modernità. E quando ciò accade, il più delle volte, c’è di mezzo una credenza filosofica o religiosa. Le prime notizie che abbiamo della misteriosa sostanza definita gu o ku, sono delle iscrizioni oracolari su ossa di tartaruga, facenti parte del corpus di testimonianze risalenti alla prima espressione storica della civiltà cinese, la dinastia Shang (1600-1046 a.C.) grosso modo corrispondente al Nuovo Regno dell’antica civiltà Egizia sul corso del Nilo. In esse, strumenti ritenuti fondamentali per ogni decisione importante presa dallo stato, si faceva riferimento con ideogrammi prototipici ad una certa entità, la cui notazione per iscritto includeva una mescolanza dei termini riferiti a “verme”, “insetto” o “serpente” e quello usato per “giara, recipiente”. Tra i frammenti relativi a tale creatura, se di questo si trattava, ricorreva una lamentazione sull’odio degli antenati per le attuali generazioni e veniva dato ad intendere, con tono perentoreo, che “chiunque fosse colto nell’atto della preparazione del gu, dovrà essere messo a morte insieme a tutta la sua famiglia.” Fino a un tale punto, gli antichi governanti temevano questa connotazione demoniaca della natura, imbrigliata e costretta a servire la volontà omicida dell’uomo.
A quanto ci è dato di sapere, grazie a testimonianze e scritti successivi, la forma fisica del gu era quella di un decotto insapore ed inodore, prodotto da una sostanza organica finemente sminuzzata grazie all’uso di un pestello. Ma sarebbe stata la provenienza di questo particolare ingrediente, a renderlo davvero speciale. Il quinto giorno del quinto mese di calendario, corrispondente con la ricorrenza del solstizio d’estate, lo stregone si sarebbe procurato personalmente un certo numero di animali, appartenenti alla categoria tradizionale delle “cinque bestie velenose”: il rospo, il centopiedi, il serpente, il ragno e lo scorpione. Quindi li avrebbe rinchiusi tutti assieme dentro a un recipiente, il più angusto ed oscuro a sua disposizione. Attraverso innumerevoli giorni e settimane, le povere creature avrebbero combattuto divorandosi tra loro. Finché alla fine, l’ultima sopravvissuta, sarebbe giunta ad includere magicamente nel suo corpo tutta la nefandezza e le nequizie del mondo, e conseguentemente un fluido in grado di distruggere sistematicamente l’organismo umano. Diluito nel vino o in altre bevande, era impossibile da rilevare, e non esistevano metodologie per rilevarne l’uso pregresso in alcun modo. Ad oggi il dizionario enciclopedico Hanyu Da Zidian, portato a termine nel 1979 a partire da fonti filologiche di ogni epoca, parla di 9 tipi differenti di gu, tra i quali il più frequente era l’avvelenamento addominale, una sorta di infiammazione cronica con complicazioni autoimmunitarie, che causava sintomi simili a un colpo di calore prolungato all’estremo, oltre a perdita di appetito e di peso, febbre e vomito “simile al cotone”. Si trattava di una patologia incurabile che uccideva molto lentamente, rendendo questo tipo di vendetta estremamente adatta a chi voleva prolungare le sofferenze della sua vittima, causandone la morte tra atroci sofferenze. Ma il punto principale dell’impiego di questo veleno piuttosto che un altro, almeno secondo le credenze sciamaniche dei popoli aborigeni del meridione ove avrebbe avuto origine la terribile usanza, erano le implicazioni sovrannaturali liberate dal questa diretta manipolazione del destino. Sembra infatti, secondo quanto riportato da diversi farmacisti di epoca Tang e soprattutto dallo studioso Cai Dao nel XII secolo (dinastia Song) che l’impiego del gu permettesse all’assassino di attirare su di se le fortune di colui che avvelenava, portandolo al guadagno immediato di una grossa somma di denaro, spesso a discapito dei legittimi eredi del malcapitato. In questa particolare versione, tuttavia, il veleno prendeva il nome di jincan, letteralmente “il bruco d’oro” e trovava un metodo di preparazione totalmente differente. Esso era il prodotto della sublimazione di una leggendaria e non meglio definita larva del colore del prezioso metallo, proveniente dal Kashmir, che una volta ingerita si sarebbe ricomposta negli intestini umani, iniziando a divorarli dall’interno. Una volta così ricreato, l’insetto diventava immortale alla stessa maniera dei cadaveri rianimati dal vudù caraibico, e tendeva a ritornare sempre dal suo padrone. Nulla poteva nuocergli, neppure le armi ed il fuoco. L’unico modo di liberarsene, una volta soddisfatti dei risultati e dell’arricchimento personali a cui si era arrivati, era dunque chiuderlo in un recipiente assieme a del denaro e lasciarlo per strada, nella speranza che un passante lo raccogliesse e portasse in casa sua, per dare nuovamente inizio al ciclo di morti e sofferenza. Tale prassi veniva definita “dare in sposa il bruco d’oro” ed era considerato un passaggio necessario affinché l’animale non finisse per rivoltarsi contro il suo stesso padrone. Ma naturalmente, nulla di simile si è mai verificato…

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