La leggenda cinese del veleno supremo

gu-demons

È piuttosto raro che un singolo elemento di una cultura pluri-millenaria giunga, pressoché invariato, fino alla soglia della modernità. E quando ciò accade, il più delle volte, c’è di mezzo una credenza filosofica o religiosa. Le prime notizie che abbiamo della misteriosa sostanza definita gu o ku, sono delle iscrizioni oracolari su ossa di tartaruga, facenti parte del corpus di testimonianze risalenti alla prima espressione storica della civiltà cinese, la dinastia Shang (1600-1046 a.C.) grosso modo corrispondente al Nuovo Regno dell’antica civiltà Egizia sul corso del Nilo. In esse, strumenti ritenuti fondamentali per ogni decisione importante presa dallo stato, si faceva riferimento con ideogrammi prototipici ad una certa entità, la cui notazione per iscritto includeva una mescolanza dei termini riferiti a “verme”, “insetto” o “serpente” e quello usato per “giara, recipiente”. Tra i frammenti relativi a tale creatura, se di questo si trattava, ricorreva una lamentazione sull’odio degli antenati per le attuali generazioni e veniva dato ad intendere, con tono perentoreo, che “chiunque fosse colto nell’atto della preparazione del gu, dovrà essere messo a morte insieme a tutta la sua famiglia.” Fino a un tale punto, gli antichi governanti temevano questa connotazione demoniaca della natura, imbrigliata e costretta a servire la volontà omicida dell’uomo.
A quanto ci è dato di sapere, grazie a testimonianze e scritti successivi, la forma fisica del gu era quella di un decotto insapore ed inodore, prodotto da una sostanza organica finemente sminuzzata grazie all’uso di un pestello. Ma sarebbe stata la provenienza di questo particolare ingrediente, a renderlo davvero speciale. Il quinto giorno del quinto mese di calendario, corrispondente con la ricorrenza del solstizio d’estate, lo stregone si sarebbe procurato personalmente un certo numero di animali, appartenenti alla categoria tradizionale delle “cinque bestie velenose”: il rospo, il centopiedi, il serpente, il ragno e lo scorpione. Quindi li avrebbe rinchiusi tutti assieme dentro a un recipiente, il più angusto ed oscuro a sua disposizione. Attraverso innumerevoli giorni e settimane, le povere creature avrebbero combattuto divorandosi tra loro. Finché alla fine, l’ultima sopravvissuta, sarebbe giunta ad includere magicamente nel suo corpo tutta la nefandezza e le nequizie del mondo, e conseguentemente un fluido in grado di distruggere sistematicamente l’organismo umano. Diluito nel vino o in altre bevande, era impossibile da rilevare, e non esistevano metodologie per rilevarne l’uso pregresso in alcun modo. Ad oggi il dizionario enciclopedico Hanyu Da Zidian, portato a termine nel 1979 a partire da fonti filologiche di ogni epoca, parla di 9 tipi differenti di gu, tra i quali il più frequente era l’avvelenamento addominale, una sorta di infiammazione cronica con complicazioni autoimmunitarie, che causava sintomi simili a un colpo di calore prolungato all’estremo, oltre a perdita di appetito e di peso, febbre e vomito “simile al cotone”. Si trattava di una patologia incurabile che uccideva molto lentamente, rendendo questo tipo di vendetta estremamente adatta a chi voleva prolungare le sofferenze della sua vittima, causandone la morte tra atroci sofferenze. Ma il punto principale dell’impiego di questo veleno piuttosto che un altro, almeno secondo le credenze sciamaniche dei popoli aborigeni del meridione ove avrebbe avuto origine la terribile usanza, erano le implicazioni sovrannaturali liberate dal questa diretta manipolazione del destino. Sembra infatti, secondo quanto riportato da diversi farmacisti di epoca Tang e soprattutto dallo studioso Cai Dao nel XII secolo (dinastia Song) che l’impiego del gu permettesse all’assassino di attirare su di se le fortune di colui che avvelenava, portandolo al guadagno immediato di una grossa somma di denaro, spesso a discapito dei legittimi eredi del malcapitato. In questa particolare versione, tuttavia, il veleno prendeva il nome di jincan, letteralmente “il bruco d’oro” e trovava un metodo di preparazione totalmente differente. Esso era il prodotto della sublimazione di una leggendaria e non meglio definita larva del colore del prezioso metallo, proveniente dal Kashmir, che una volta ingerita si sarebbe ricomposta negli intestini umani, iniziando a divorarli dall’interno. Una volta così ricreato, l’insetto diventava immortale alla stessa maniera dei cadaveri rianimati dal vudù caraibico, e tendeva a ritornare sempre dal suo padrone. Nulla poteva nuocergli, neppure le armi ed il fuoco. L’unico modo di liberarsene, una volta soddisfatti dei risultati e dell’arricchimento personali a cui si era arrivati, era dunque chiuderlo in un recipiente assieme a del denaro e lasciarlo per strada, nella speranza che un passante lo raccogliesse e portasse in casa sua, per dare nuovamente inizio al ciclo di morti e sofferenza. Tale prassi veniva definita “dare in sposa il bruco d’oro” ed era considerato un passaggio necessario affinché l’animale non finisse per rivoltarsi contro il suo stesso padrone. Ma naturalmente, nulla di simile si è mai verificato…

scorpion-snacks
Mangiare singolarmente le “cinque bestie velenose” non è un’attività che comporti alcun tipo di pericolo, come potrebbe testimoniare chiunque abbia mai visitato il mercato notturno di Donghumen, a Pechino. Forse l’effetto letale doveva provenire dall’accumulo karmico dell’odio reciproco durante la prigionia nella giara?

Come per l’appunto dicevamo, c’erano diversi tipi di questo essere parascientifico, il cui nome andrebbe tradotto secondo l’antropologo Cecil H. Brown con il termine macedonia wug, nato dall’unione tra worm (verme) e bug (insetto). Esso poteva nascere dalla preparazione del gu, oppure spontaneamente in natura, come testimoniato dalle importazioni della larva praticate assiduamente almeno fino all’epoca dei Ming (1368–1644). Oppure veniva allevato, alla maniera dei bachi da seta a cui tra l’altro a quanto pare assomigliava, in tutto tranne che nella colorazione dorata. Un’altra casistica, decisamente meno frequente, prevedeva che una volta che lo stregone veniva ucciso e la sua testa tagliata messa su di un palo a monito della popolazione, come prevedeva l’usanza, il bruco strisciasse fuori dal suo collo assieme allo spirito vendicativo, per andare a colpire coloro che avevano commesso il grave errore di far rispettare la legge dell’ordine divino ereditata dagli Shang. In questa versione della leggenda, il gu velenoso diventava una sostanza mediante la quale il praticante poteva assumere varie forme, tra cui quella di un fantasma, di un cane o di un serpente, per girare non visto tra le avverse pieghe della società umana. Come nella leggenda europea dei vampiri, l’individuo in questo modo diventava inarrestabile mediante metodi convenzionali, ma al tempo stesso si ritrovava affetto da alcune specifiche e impreviste debolezze. In particolare, nel 675 a.c il duca De del regno di Qin riuscì a bloccare ogni caso di avvelenamenti da gu nel suo dominio per molti anni, facendo esporre in corrispondenza delle quattro porte della sua città altrettante teste mozzate di cane, che fungendo da monito impedivano il passaggio degli spiriti malvagi. Nell’opinione dei medici coévi, inoltre, un modo per mettersi al sicuro dagli influssi malefici di questa forma di stregoneria era la radice di jang-ho, che doveva essere esposta nella stanza o messa sotto il materasso, potendo finalmente dormire dei sonni sicuri.
Ciò detto, se lo stregone era davvero intenzionato ad uccidere il suo nemico ma non poteva giungere ad avvelenarlo direttamente o in forma spirituale, c’era almeno un altro metodo su cui poteva fare affidamento.

chinese-voodoo
“Battere il malvagio” è la forma più basilare della magia nera cinese, praticata in genere da vecchie signore per la strada. Appartiene ad una serie di rituali molto popolari nella regione di Hong Kong.

Il potere dell’imitazione è uno strumento estremamente importante nella magia di ogni cultura, e in questo, la stregoneria cinese non faceva certo eccezione. È del resto ancora diffusa, e praticata attivamente, una forma di malocchio popolare che consiste nel procurarsi un oggetto o un capello del proprio rivale in amore o negli affari, ed integrarlo in una figurina di carta, portata quindi presso una sacerdotessa informale della leggendaria tigre bianca, Bái Hu (in altri termini, una fattucchiera). Ella quindi, completata l’invocazione rituale, inizierà a percuotere tale immagine mediante l’impiego di una scarpa del suo committente, andando avanti per un tempo che è variabile in base alla quantità di soldi che ha ricevuto. Talvolta, per semplificare le cose, il pezzo di carta colpito sarà invece una generica tigre “malvagia”, con un pezzo di maiale tra gli artigli allo scopo di renderla inoffensiva. E per ogni colpo portato a segno, la vittima o le vittime riceveranno sventura, malattie, perdizione… Se non proprio direttamente, nella maniera lenta e soggettiva di ogni altra attività sovrannaturale.
Esisteva anche il caso, tuttavia, in cui lo stregone desiderasse mescolare questo approccio più leggero con i sistemi assolutamente letali precedentemente descritti, affinché l’odiato individuo subisse conseguenze più gravi. Forse qualcuno ricorderà la criptica scena presente nel film del 2015 The Assassin di Hou Hsiao-hsien (premiato a Cannes) in cui un anziano personaggio immerge una di queste bambole di carta nel suo calderone, provocando un miasma malefico che insidia uno dei bersagli designati della sua setta di vendicatori. Una storia che certamente non avrebbe avuto termine con la sua successiva e truculenta dipartita…

golden-caterpillar
Eternamente ricreato, il bruco d’oro non può essere rimosso dal ciclo della vendetta e dell’odio umano. La sua vera natura è un mistero, così come quella dello stesso gu.

Se c’è una cosa che accomuna le culture di ogni epoca e paese, è il bisogno di trovare un capro espiatorio delle proprie sventure, e questo sia nello specifico, inteso come senso vendicativo del singolo committente di ciascun atto di stregoneria, che nell’interpretazione contrapposta di questo mondo mefitico, che lo vede come una spropositata collezione di pinzillochere e fandonie per gente superstiziosa.
E la vasta serie di leggende legate al gu, in effetti, fu per lungo tempo usata come metodo per screditare le donne di un intero popolo del meridione del paese, quello dell’etnia matriarcale dei Miao, che per l’ottica dell’antichità cinese godevano di eccessiva libertà al pari degli uomini, non dovevano legarsi i piedi e potevano possedere una quantità eccessiva di beni materiali. Proprio per questo, la classe dei letterati di epoca Tang e Ming affermava che costoro avessero l’abitudine di nascondere il bruco d’oro nelle loro elaborate capigliature, usandolo per avvelenare gli inconsapevoli mariti. Ad ogni ricorrenza della festa delle Barche Drago (quinto giorno del quinto mese) esse somministravano quindi l’antidoto, preservando in vita il consorte soltanto finché gli fosse restato un fedele servitore. Ciò aveva l’evidente scopo di scoraggiare i matrimoni misti, e quindi la diffusione di una cultura considerata in qualche maniera insidiosa ai danni dello status quo. Ma in definitiva, se questa fosse stata davvero la provenienza della leggenda del gu, direi che il suo perpetrarsi non fosse stato del tutto privo di una funzione. È meglio essere odiati e temuti, piuttosto che fare la fine dei tibetani.

Lascia un commento