La rotazione ipnotica dei campioni di cartelli pubblicitari

Un poco alla volta, il capannello si forma nella piazzola di parcheggio recante l’identificativo di “Whiskey Licker Bar”. Siamo a Las Vegas e simili scene d’iperattività giovanile, a seconda della stagione, tendono ad essere tutt’altro che rare. Un’età media di poco più di vent’anni e strani oggetti al seguito, tuttavia sono ciò che caratterizza in modo particolare l’istante presente. Pannelli piatti grossomodo rettangolari, se non fossero chiaramente appuntiti da un lato. Perché come ripete spesso il leader di questo gruppo: “La freccia è la forma più forte del mondo!” L’annunciatore ufficiale pronuncia il suo breve discorso. L’addetto alla colonna sonora, dopo una pausa ad effetto, accende gli altoparlanti del caso. “BENVENUTI ALL’EDIZIONE 2018 DEL CAMPIONATO MONDIALE!” D’un tratto tutto è pronto per la tenzone e tra gli applausi del pubblico, viene chiamato il primo ineccepibile partecipante. Come la pala di un fantastico ventilatore, il suo orpello bianco, rosso e blu comincia lentamente a girare. Quindi si solleva in aria, accelerando verso le vette di un elicottero leonardesco ad energia muscolare…
La necessità di estendere la propria clientela per chi offre un servizio all’interno degli spazi urbani trova spesso espressione attraverso il sistema della pubblicità, anche negli immediati dintorni dei propri spazi operativi. Le dinamiche della densità abitativa, unite alla naturale propensione umana a prestare attenzione nei confronti di tutto ciò che è colorato, dinamico o in qualche modo attraente, ha permesso ai semplici cartelloni pubblicitari d’imporsi come strumento primario non soltanto della pubblicità sul larga scala, ma anche di tutti coloro che pretendono semplicemente di figurare al di là della mera linea visiva delle persone. Il che ha inevitabilmente portato, nel corso delle generazioni, a stringente norme su cosa si possa e non possa fare, al fine di prevenire la letterale invasione delle strade con loghi, numeri di telefono e illustrazioni più o meno suggestive. Ecco la maniera, dunque, in cui la mentalità americana affronta il problema. Terra di frontiera, luogo d’intraprendenza, mondo sostenuto dalle logiche d’impresa. Per cui tutto è lecito, purché legale, e ciò che si tenta di comunicare rappresenta molto spesso la letterale “furbizia” o capacità di manipolare le regole a proprio vantaggio. Ma forse sarebbe più corretto associare un tale modus operandi all’intero ambito anglosassone, se è vero che i primi cartelli umani furono denunciati dal nobile tedesco trasferitosi a Londra Pückler-Muskau (1785-1871) e lo stesso Charles Dickens, che arrivò a definirli con un senso d’orrore latente “Pezzi di carne tra due fette di cartone stampato.” Che un cartello potesse andare letteralmente ovunque, a patto che fosse indossato da un essere umano, veniva dunque considerata una prassi assai utile. Ed anche terribilmente degradante, almeno per colui che doveva agevolare in prima persona questa specifica forma di pubblicità. Poi le cose, per fortuna, hanno assunto proporzioni di un tipo profondamente diverso.
Da una parte per la cognizione, tipica dei tempi moderni, per cui ogni lavoro è temporaneo, rappresentando più che altro un mezzo verso finalità nobili successive. E dall’altra, c’è stata l’opera di un paio d’aziende, entrambe californiane, che per vie indipendenti trovarono il modo d’infondere un’arte all’interno della più noiosa tra tutte le mansioni: stare fermi e aspettare che qualcuno ci guardi, per poi indicare il negozio, con un tenue sorriso. Già: “Che cosa accadrebbe” si chiesero questi pionieri, “se il cartello iniziasse letteralmente a GIRARE?”

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Perché soffrire il traffico, quando si può prendere il dronone?

L’effettiva triangolazione possibile del volo prevede che, nel preciso momento in cui si desideri sollevarsi da terra, il profilo del velivolo selezionato si presenti aerodinamico, elegante, per certi versi addirittura svelto. Tutto ciò in un’ottica orientata all’elaborazione di un sistema che risulti, al tempo stesso, istintivo e potenzialmente”sicuro”. Per un prezzo che difficilmente scende sotto i 100.000 o più. E poi ci sono gli elicotteri. Meccanismi che potremmo definire diabolici nella loro instabilità inerente, ovvero la difficoltà nel compiere manovre elementari e il rischio a cui va incontro, chiunque osi mettersi alla barra di comando, senza un’adeguata carriera di studio alle spalle. “Cercasi totale novellino, con esperienza” è il testo tristemente tipico di un certo tipo di annuncio di lavoro, molto diffuso in quest’epoca dei sogni di carriera infranti. Ma volare non è sempre, o necessariamente, un compito gravoso di per se. Bensì un hobby. Un divertimento. L’occasione spesse volte ripetuta di una vita. Perché mai, dunque, ancora non esistono approcci facili e che siano effettivamente alla portata di chicchessia? La risposta è che una soluzione esiste, senza alcuna ombra di dubbio, ed ha trovato vasta diffusione negli ultimi anni, soprattutto grazie all’opera di aspiranti registi e creatori d’intrattenimento. Ciò a cui mi riferisco, va da se, è il drone. Un oggetto telecomandato nel cui campo nessuno ha mai pensato di evocare il termine “aeromodellismo”, per il semplice fatto che nessuno ha mai pensato di sovradimensionare la tecnologia, al fine di trovargli un metodo d’applicazione sulla scala di utilizzo umana. Fino… Ad ora?
Mi alzo una mattina in California, felice essermi trovato assunto in un’azienda dell’odierna cornucopia del commercio digitale. Ma ahimé, vivo anche un dramma personale che ha cadenza pressoché quotidiana: come compiere il tragitto tra la casa e l’ufficio? Poiché l’area che si trova tra il sobborgo San Jose e la vasta metropoli di San Francisco, come è noto, vanta prezzi immobiliari che da decadi sfiorano l’eccelso ovvero l’ossessivo. E le arterie stradali usate per collegare i tre punti, per quanto vaste e ben tenute, nelle ore di punta si trasformano in dei veri fiumi di metallo, che risplendono insistentemente sotto l’astro solare. Perciò trenta, quaranta chilometri di trasferta giornaliera a passo di muflone, non costituiscono esattamente il modo migliore d’iniziare la giornata. E spostarsi col trasporto pubblico, nei moderni Stai Uniti, è una prospettiva quanto meno desolante. Alternative… Dunque, beh! Qualcosa c’è. O per meglio dire sarà presto disponibile, grazie all’opera di una realtà aziendale che opera, neanche a dirlo, proprio in questo centro di privilegiati alla ricerca di fortune ancor più vaste. Il suo nome è mosca nera (blackfly) il che pare un curioso binomio, quando si considera che tutte le mosche sono nere, fatto salvo per quelle che specificano l’innato candore, spesso dei vettori metaforici di un’individuo, o un concetto fuori dal comune. Un appellativo che sembra gridare al modo “Siamo del tutto normali” dunque, tuttavia attribuito ad un qualcosa che minaccia di scuotere le stesse fondamenta del concetto di trasporto personale. Quanto una simile minaccia sia fondata, in effetti, soltanto il tempo potrà dircelo, però è indubbio che il concetto in se presenti dei validi spunti d’analisi, configurati su un’antico sogno dell’epoca industriale: l’automobile volante. A proporla, questa volta, ci pensa Opener Aero, nella persona di Marcus Leng, canuto e fascinoso imprenditore che sembra aver deciso di lasciare il segno, a patto di fallire nel suo clamoroso tentativo di riuscirci. Ma chi dovesse pensare che questa sia soltanto l’ennesima start-up fondata su aria fritta, rendering tridimensionali e le aspettative sopra le righe della gente, potrebbe immediatamente cambiare idea, una volta saputo chi ha fornito in questi anni la pecunia necessaria a giungere fino alla fase di prototipo: niente meno che Larry Page, co-fondatore di Google assieme all’amico di vecchia data e collega Sergey Brin. E va da se che non si arriva facilmente a un capitale personale stimato di 53 miliardi di dollari, ponendosi a supporto di idee sciocche o prive una loro effettiva utilità. O in altri termini, potremmo dire che una volta che qualcuno si guadagna il supporto dei moderni imperatori finanziari, difficilmente il suo pensiero mancherà di creare anelli nell’incorporeo lago della tecnologia applicata, cambiando sostanzialmente le regole di ciò che sia lecito aspettarsi, o ragionevole pensare di acquistare.
Così all’ora della giornaliera trasferta, finisco di lavarmi i denti dopo aver fatto colazione; esco nel vialetto tipico della villetta a schiera americana. E con breve pressione del telecomando, apro il portellone del garage. Al suo interno, c’è una sorta di motoscafo oblungo, con strutture sporgenti a doppia T davanti, e dietro. Con un lieve sorriso di circostanza, salgo a bordo. Con un ronzio insistente, mi sollevo da terra, procedo lungo l’asse diagonale e in breve tempo sono in rotta, verso il tetto dell’ufficio o centro commerciale presso cui, trionfalmente, lavoro.

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Lo sciatore alla conquista del pianeta senza neve

Una volta raggiunta la parete quasi verticale che separa la città di Uchisar, in Cappadocia, dalle oscure sale del suo antico castello, sembrava che niente potesse più causarvi un senso repentino di stupore. Lassù, con sguardo che si estende oltre quella terra che era appartenuta al patriarca biblico Meshech, molto prima d’intrattenere relazioni commerciali con i greci e in seguito, venire trasformata in satrapia persiana. Tra pietre rese sdrucciolevoli dal tempo, e trasformate in elementi conici protesi verso il cielo, i cui spazi cavi all’interno, interconnessi tra di loro da gallerie ormai crollate, vivevano da tempo immemore molte famiglie di uccelli adattati alla vita urbana. Ma è allora che sentite, all’improvviso, un sordo e reiterato suono: “Deve trattarsi di un piccione molto grande” sussurrate tra voi e voi, mentre il tonfo si trasforma in un fruscio, quindi una sorta di sibilo insistente. Ed infine quella nota che risuona seccamente, di un qualcosa che si stacca da terra, librandosi nell’aria tersa del mattino. Ed è allora che vi voltate, per guardare la singola cosa più incredibile del vostro intero viaggio in Turchia: è un uomo in abiti invernali, nonostante la temperatura di oltre 25 gradi, il cappello nero, il giaccone bianco, sollevato ad almeno due metri da terra, con ai piedi un paio di sci dall’aspetto più che mai resistente. Non fate in tempo ad interrogarvi sul motivo della sua esistenza, prima che vi superi ad un ritmo estremamente sostenuto, per toccare nuovamente terra sul pendio sabbioso, diretto con certezza verso il centro cittadino. Un uomo anziano in fondo alla valle, col suo mulo contrassegnato dalla dicitura “libreria mobile” si volta nella vostra direzione, indicando all’animale un tale fulmine fuori controllo. Se non fosse troppo distante per capirlo, sareste pronti a giurare che stia sorridendo.
È l’esecuzione di un maestro ormai acclarato, l’ensemble finale di un concerto che ormai dura da (almeno) cinque anni. Il capolavoro di un uomo, ormai più che trentenne, che ha diviso la sua carriera tra le piste ufficiali dei tornei e quelle digitalizzate del mondo dell’intrattenimento, diventando famoso per i suoi film sul tema degli sport estremi realizzati con la massima attenzione ai più minuziosi dei particolari. Stiamo parlando, ovviamente, di Candide Thovex, l’atleta francese originario del piccolo paese di La Clusaz, dal quale era solito aprire la porta di casa, per lanciarsi direttamente sui pendii coperti di neve col suo fidato paio di sci. Colui che, in questi particolari giorni, si è preparato a rilasciare assieme al suo sponsor Audi un video che prende d’assalto i confini stessi della fantasia. Il titolo: Quattro 2, con riferimento al nome della storica serie delle auto con trazione integrale del marchio tedesco, seguito dal numerale dell’episodio qui rappresentato, in una bilogia che ebbe la sua prima espressione nel 2015, quando il protagonista si dimostrò in grado di percorrere con sci ai piedi un erboso pendio estivo di una non meglio definita località alpina. È fin da subito chiaro, tuttavia, che qui l’artista ha superato se stesso, in un vero tour de force visuale che lo porta, e noi spettatori assieme a lui con la fantasia, in tre distinti continenti, per esplorare fin dove possa spingersi questa sua affinità con l’esplorare i limiti più estremi dello sci. Vediamo di identificare quindi, benché una lista di locations ufficiale non sia stata effettivamente rilasciata (forse non tutti i permessi erano in regola?) alcuni dei luoghi più inconfondibili visitati in questo strabiliante tour…

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L’unico cellulare che non occupa tasche ma le crea

Da bambini, prima che una sufficiente cultura motoristica penetrasse oltre lo spazio della nostra limitata conoscenza delle cose del mondo, molti di noi ricordano con delusione la dicitura di “automobile a tre sportelli”. Quando s’immaginavano, per divertimento, possibili vie d’ingresso nella macchina di famiglia, soltanto per rendersi conto che i punti ragionevolmente adeguati a farlo erano soltanto due. Mentre il terzo, ahimé, serviva preferibilmente per i bagagli, essendo in effetti disconnesso dalla zona in cui si trovavano i sedili. Ma almeno una volta, mentre i genitori erano momentaneamente distratti, non siamo forse riusciti a farlo? Entrare di soppiatto da dietro? Una volta raggiunta l’età della ragione, dunque, simili marachelle hanno smesso di avere una parte nell’organizzazione delle nostre giornate. Inviati in giro per la città dalle necessità del quotidiano, senza poter contare più sul pratico servizio taxi dei genitori, ci siamo ritrovati a prendere una volta o due l’autobus. Ed è proprio in quel momento, che le nostre aspettative sono andate di nuovo incontro ad un estremo senso di frustrazione. Perché non si era forse parlato, in origine, di “jeans a quattro tasche”? Laddove io, come immagino chiunque altro, dovrei ragionevolmente lasciare il territorio entro le mura domestiche armato di: 1 – chiavi 2 – portafogli 3 – cellulare. Ma il problema, a conti fatti, è il seguente: nessuno, assolutamente nessuno, si sognerebbe mai di dire che uno di questi tre importanti oggetti, durante una trasferta in un luogo affollato e stretto quale il più tipico vagone del trasporto pubblico, sia prudente metterlo nelle tasche di dietro. A meno di vivere nella città più onesta del mondo (um…Tokyo?) Ecco che allora, le quattro tasche promesse sono improvvisamente diventate due! Che fare, dunque… Mettere le chiavi col beneamato smartphone (orrore) oppure il portafogli con le chiavi (dling, dling, dling) o addirittura, il cellulare col portafogli (praticamente, un marsupio)? Ora, piuttosto che star qui ad elencarvi le possibili soluzioni, ve ne proporrò una del tutto alternativa. Avrete certamente notato, nei vostri pantaloni, la minuscola “tasca per gli spicci” talmente piccola che nella migliore delle giornate, non riuscireste ad infilarci neppure una metà del vostro pollice sinistro. E se i dicessi che oggi, grazie ai miracoli della tecnologia applicata, è dimenticato possibile usare un simile angusto pertugio per depositarvi il più familiare oggetto adibito alla comunicazione via etere satellitare…
La risposta: ZANCO. Che non è un’imprecazione in lingua kiswahili (a meno di una straordinaria coincidenza) bensì il nome della realtà aziendale creata nel 1995 dall’imprenditore britannico Shazad Talib, con il nome originario di Zini Mobiles, per creare un tipo di cellulare molto moderno, che privilegiasse il costo ridotto, la praticità e semplicità di utilizzo. Praticamente il perfetto dispositivo per l’India, il Sud dell’Asia e tutti gli altri paesi o regioni geografiche in via di sviluppo, con buona pace dei marchi a noi ben più familiari di Samsung, Sony o LG. Così nella crociata del cercare segmenti di mercato precedentemente inesplorati, la compagnia ha quindi creato il suddetto marchio alternativo, sotto la cui bandiera sono stati proposti al pubblico un tipo particolarmente interessante di telefonini: quelli accompagnati tutti egualmente dalla noméa di “cellulare più piccolo del mondo”. Con nomi come formica, ape, ragno, e misure che si aggirano in media tra i 17 e i 20 cm. Quindi compatti, addirittura minuscoli, eppure non ancora abbastanza affinché l’utilizzatore possa posizionarli nella nostra già citata mini-tasca dei jeans. Finché qualcuno, per sua e nostra fortuna, non sfidò Mr. Talib chiedendogli: “Se dovessi farlo per scommessa, quanto credi che potresti ridurre le dimensioni dei tuoi cellulari?” Ed è così che, dopo un anno di ricerca & sviluppo (che vuoi farci, gli imprenditori prendono gli scherzi con sincero puntiglio) dai laboratori della Zini è venuto fuori il prototipo del Zanco Tiny T1: 4,6 x 2,1 cm, ed un peso complessivo di 13 grammi. Qualcosa di talmente piccolo che prima di mettersi a produrlo in serie, il patròn si è sentito in dovere di fare un sondaggio su Internet relativo all’interesse che avrebbe suscitato sul grande pubblico. E quale miglior modo di farlo, che il sito di raccolta fondi Kickstarter, punto di partenza di 1.001 idee innovative e qualche manciata di validi videogames…

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