L’odierno pterodattilo con la passione per l’architettura aviaria incombente

La sostanziale conformità esteriore di una vasta varietà di espressioni artistiche, indipendentemente dalla regione geografica di provenienza, può essere almeno in parte attribuita ai tratti comuni dei molteplici organismi di questa Terra. Dopo tutto, un ragno sudamericano possiede un certo numero di zampe, assolutamente identico a quello di un suo parente situato in territorio africano. I grandi felini cacciano in maniera simile in prossimità dei tropici, mentre gli uccelli battono incessantemente il proprio prevedibile paio d’ali. Il che risulta chiaramente valido ogni qualvolta ci si approcci alla questione da un punto di vista generico, mentre nel particolare i risultati possono raggiungere diverse percentuali di soddisfazione dell’argomento di partenza. Poiché vi sono specie, formalmente appartenenti a una determinata categoria, le cui caratteristiche fondamentali si distinguono a tal punto da sfidare i limiti di una categoria, riportando potenzialmente allo scoperto linee guida sfumate ormai da tempo oltre la foschia retrograda dell’asse temporale degli eventi. Così al di là della sua superficiale somiglianza con talune tipologie di dinosauri volanti, è dalla sua prima classificazione scientifica avvenuta nel 1789 che l’hamerkop (“testa di martello” in Afrikaans/Olandese) elude ogni classificazione di tipo tassonomico, avendo finito per meritarsi un proprio genere e una propria famiglia. Scopidae>Scopus>S. umbretta è dunque una tipologia diffusa d’uccello pescatore dei bassi fondali subsahariani, di dimensione media (50-56 cm) e diffuso in circa quattro quinti del continente africano a meridione del Marocco oltre al Madagascar e parte dell’Arabia, con le concentrazioni massime raggiunte all’interno di acquitrini, laghi, fiumi, pozze ed occasionalmente tratti di costa sufficientemente riparati dagli scogli. La sua principale caratteristica anatomica, nonché origine del nome stesso, è identificabile nella particolare conformazione del cranio allungato, che controbilanciando la forma appuntita del becco si estende oltre la linea curva di un lungo collo, con una configurazione ulteriormente accentuata dalla presenza di un ciuffo di piume erettili in corrispondenza della nuca. Tratti molto evidenti che ne rendono particolarmente facile il censimento, anche per la maniera in cui è solito planare con il collo esteso esattamente come una cicogna, ma ritrarlo e ripiegarlo su se stesso nello stile di un airone ogni qualvolta giunge il momento di prendere quota battendo le ali. Dicotomia etologica piuttosto insolita, come la sua stessa eredità genetica, tale da averlo fatto categorizzare per lungo tempo all’interno dell’ordine dei Ciconiiformi, almeno finché studi molecolari maggiormente approfonditi e recenti hanno permesso d’individuare i suoi parenti più prossimi nei Pelecaniformi e il becco a scarpa (Balaeniceps rex) l’impressionante pescatore dell’Africa Orientale dell’altezza di fino a 140 cm. Con cui l’hamerkop condivide l’abilità nell’individuare la preda tra piccoli mammiferi, rettili o pesci ed uncinarla con la punta del becco, prima di procedere a trangugiarla in un singolo, drammatico boccone…

Leggi tutto

Le alterne vicende della volpe che s’incontra sul tragitto transoceanico di Magellano

In una delle scene possibili durante il difficile attraversamento dello Stretto, verso la metà esatta di un viaggio che avrebbe portato una delle quattro navi (ma non il suo capitano) a circumnavigare per la prima volta il globo, un equipaggio misto di spagnoli, portoghesi ed italiani avrebbe avuto modo d’individuare luci tenui sul profilo di una costa battuta dai venti incessanti della Patagonia. Difficilmente essi avrebbero potuto immaginare, né ebbero l’intento e la ragione di verificare, l’appartenenza di tali sparpagliati fuochi da campo ad un popolo natìo d’indigeni, gli Yahgan, che così erano inclini a riscaldarsi a notte dato il possesso di una quantità limitata d’indumenti, senza i quali un europeo avrebbe sviluppato i sintomi dell’assideramento poco più di qualche ora dal momento in cui si fosse trovato all’esterno. Mentre navigavano le turbinanti acque di un tratto di mare disseminato di pericoli e muraglie di ghiaccio (ma pur sempre meglio del terribile ed ancora sconosciuto passaggio di Capo Horn) essi scorsero al principio delle ore diurne una scena più immediatamente riconoscibile: alcuni uomini armati di lance ed archi, che correndo sul sentiero parallelo alla costa sembravano inseguire dei piccoli animali rossastri. Quello che si stava dipanando sotto gli occhi degli esploratori pareva, a tutti gli effetti, costituire un chiaro quanto inconcepibile esempio di caccia alla volpe. Soltanto svariati secoli dopo, con la costituzione delle prime missioni religiose ed i commerci intrattenuti con tali genti, i discendenti professionali del grande Magellano avrebbero scoperto il vero nome di quella creatura, chiamata culpem per un prestito dalla lingua mapundungun, termine significate “pazzo” o “follia”. Ciò in quanto il canide in questione, come sua prerogativa di massima, non sembrava temere a sufficienza gli esseri umani, e si lasciava avvicinare senza troppe cerimonie dai cacciatori. Un atteggiamento dai molti svantaggi per una creatura selvatica, ma almeno un singolo, importante punto a favore: ne avrebbe parlato estensivamente per primo il comandante francese Louis-Ferdinand Martial, della spedizione francese in Tierra del Fuego del 1883, descrivendo nei suoi diari il cosiddetto “cane fuegino”, una razza “brutta e simile a una volpe, ma più grande e dai peli lunghi color tenné” tanto a suo agio tra gli insediamenti umani degli Yahgan e dei Selknam, quanto apparentemente priva dell’innata fedeltà ed indole guardiana del migliore amico dell’uomo. Questo nonostante il loro grado di parentela biologica più prossimo al canis lupus ed allo sciacallo che alla ben più somigliante volpe dell’Eurasia, sebbene i culpeo avessero un importante ruolo nello stile di vita tribale degli insediamenti sudamericani: dormire assieme ai loro padroni, tenendoli al caldo e ricevendo in cambio lo stesso vantaggio sulla base di un istinto ereditato dalle incalcolabili generazioni. E l’occasione di andare assieme a caccia dopo l’ora dell’alba, generalmente delle lontre comuni lungo il corso dei rapidi fiumi delle circostanze. Questa integrazione mutualmente produttiva sarebbe tuttavia ben presto destinata a passare in secondo piano, con l’arrivo dei primi coloni occidentali accompagnati da creature come polli e pecore di fattoria. La cui caccia risultava particolarmente facile e soddisfacente per tali creature, portando a un graduale sterminio di qualsiasi gruppo fosse solito addentrarsi oltre i confini dei villaggi che una volta li avevano nutriti…

Leggi tutto

La coda da spinosauro del più anacronistico draghetto delle Filippine

Nell’ideale gerarchia del pericolo rappresentato dai dinosauri carnivori, siamo stati abituati a porre in cima il tirannosauro dalle forti zampe, le grandi fauci e la presumibile capacità di correre persino più veloce di svariati veicoli a motore, come una jeep lungo il percorso accidentato di un cinematico Jurassic Park. D’altra parte il progredire della scienza moderna, negli ultimi trent’anni, ha non soltanto iniziato a sospettare per il grande superpredatore la copertura di un soffice manto piumato, ma anche un’indole molto più letargica e saprofaga di quanto avremmo sospettato per analogia coi grandi carnivori dei nostri giorni. Laddove il pericolo di un’ideale viaggiatore a ritroso nel grande fiume del tempo, comunque indubbiamente significativo, sarebbe forse stato superiore al cospetto di altre specie carnivore della stessa Era, vedi la creatura bassa, lunga e ornata dalla svettante vela in grado di estendersi dalla schiena fino al punto mediano di una forte coda. In altri termini l’enorme coccodrillo del Tardo Cretaceo, lungo fino a 18 metri e dalle 20 tonnellate di peso, riportato alla luce e descritto nel 1996 in Marocco dopo un singolo esemplare, comunque più piccolo, scovato nel 1915 in terra egiziana. Un vero mostro tra i terapodi, comparso anche sul grande schermo nel terzo film nel più recente anno 2001. Eppure molti tra gli spettatori del terzo più vasto arcipelago dell’Asia Orientale avranno probabilmente reagito all’epoca con un senso di quel tipo d’entusiasmo che deriva dall’affinità geografica, accompagnato da un’esclamazione in linea con “Ma io quell’animale lo conosco!” E assieme ci ho trascorso molti pomeriggi d’armonia lungo le acque gorgoglianti dei fiumi, intento ad osservare le sue pacifiche interazioni coi co-specifici ed occasionali battute di pesca. Orbene l’Hydrosaurus pustulatus, o draghetto d’acqua, è in effetti una visione alquanto comune nei dintorni di questi luoghi selvatici, sebbene sia possibile trascorrere la propria vita all’interno di un contesto urbano senza mai scorgerne uno coi propri occhi. A meno di essere filippini e al tempo stesso personalmente interessati all’erpetologia, caso in cui l’acquisto e possesso di una lucertola nativa di siffatta guisa riesce ad essere economicamente accessibile, nonché in linea con le aspettative di una semplice convivenza domestica all’interno di un terrario direttamente esposto al clima umido delle locali circostanze. Mentre le cose diventano naturalmente più difficili qualora si abiti altrove, particolarmente per la moratoria sull’importazione di questa specie imposta a partire dalla fine dello scorso secolo, causa una riduzione della popolazione complessiva più che altro dovuta all’utilizzo del suo habitat naturali per scopi affini al concetto universalmente distruttivo del progresso. E tutto ciò benché siamo davanti, tutto considerato, ad una tipologia di lucertola agamide, ovvero cognata delle iguane, assolutamente adattabile in forza della sua natura onnivora, che la porta a divorare normalmente grandi quantità di frutta e verdura, accompagnate soltanto raramente da qualche pesce, piccolo mammifero o altro rettile di passaggio. Nella cattura dei quali risulta essere straordinariamente efficiente anche in situazioni anfibie, grazie alle forti zampe dai piedi larghi e piatti nonché l’iconica coda crestata irta verticalmente, perfetta per generare una migliore spinta mentre si trova immersa sotto l’acqua delle sue turbinanti circostanze ambientali d’elezione. Perché di certo appare assai difficile, come nel caso del suo sopracitato antesignano preistorico, osservarne la presenza lontano dal corso rinfrescante dei corsi d’acqua locali…

Leggi tutto

Scoprendo per due volte la tentacolare società sommersa di Jervis Bay

Da un punto di vista evolutivo l’assoluta realizzazione tangibile del bisogno di essere lasciati stare, il timido mollusco nel suo guscio ha lungamente atteso il giorno della sua rivalsa sullo spietato sistema naturale di sopravvivenza. Questo finché attorno al Medio Cambriano (all’incirca 500 milioni di anni fa) ad un particolare ramo divergente dal corso principale di quel phylum non venne in mente di abbandonare totalmente ogni possibile strumento di protezione. Il che, per una creatura dal corpo totalmente molle nonché flessibile, significava lasciarsi alle spalle qualsiasi limite dato per acquisito in merito agli obiettivi da essa perseguibili, creando un vasto spazio da riempire con i propri sogni ed ambizioni terrene. Arti che si allungano e moltiplicano, mentre la capacità cogitativa cresce allo stesso tempo con il fine di massimizzarne un impiego sufficientemente utile nella costante ricerca della più importante materia prima dell’esistenza. L’energia, in forma di cibo, nel pratico formato di prede inconsapevoli e incapaci di salvarsi la vita. Perciò in tal senso, è possibile affermare che il cefalopode in quanto tale rappresenti la perfetta manifestazione di una creatura abile nell’attacco ma del tutto incapace di difendersi da un aggressore, una volta che dovesse essere stata colta coi tentacoli, per così dire, “nella biscottiera dei mitocondri”. SE d’altronde riuscirà a qualcuno, o qualcosa, di trovarla. Non è dunque molto complicato comprendere per quale ragione un essere che fa primariamente affidamento sul mimetismo e la furtività per riuscire a vivere un altro giorno, sia anche naturalmente scorbutico nei confronti dei propri simili, preferendo l’assoluta solitudine per la maggior parte del tempo, con l’unica necessaria eccezione dell’accoppiamento, che comunque non si estende per il maschio oltre i pochi minuti necessari per fecondare le uova precedentemente deposte dalla consorte. Dopo di che, grazie e arrivederci, a meno in base alle cognizioni largamente date per buone dal mondo accademico sulle linee guida del know-how guadagnato dai biologi all’interno di questo settore non propriamente incline a generare significative sorprese. Che di per se non restano, d’altronde, totalmente sconosciute nella maniera chiaramente esemplificata dalla scoperta della piccola “città” nota col nome di Octlantis, di per se una replica, piuttosto che versione sovradimensionata, della già nota Octopolis all’interno della stessa baia di Jervis. Un’insenatura marittima ragionevolmente protetta dai predatori, situata non troppo distante dall’omonimo villaggio sulla costa dell’Australia sud-orientale (Nuovo Galles del Sud) e famosa per il possesso di quella che viene convenzionalmente definita la sabbia più bianca del mondo. Assieme a una nutrita popolazione del cosiddetto polpo cupo di Sydney o Octopus tetricus, un tipico rappresentante della sua classe con lunghezza complessiva di 60 cm di cui soltanto 14 rappresentanti dal mantello centrale, con operosi tentacoli che s’irradiano in tutte le direzioni. Utili per raccogliere ed aprire le proprie prede principali, varie tipologie di molluschi bivalvi e qualche granchio, i cui gusci vuoti tende tradizionalmente a rigettare tutto attorno alla propria tana, generando un letterale cerchio rivelatore largamente ignorato dai pesci di passaggio. Ma non dalle persone, e di certo non da Matthew Lawrence, il primo sub a notare nel 2009 la presenza di un accumulo eccezionalmente grande di tale materiale di scarto, tanto che difficilmente poteva essere la risultanza dell’operato di un singolo esemplare di questa specie. Dal che, osservando attentamente il sito nel corso di diverse ore e giornate, scoprì attorno ad esso l’inaspettata convivenza di almeno 15 tentacolati abitanti degli abissi, intenti a fare quello che tanto strettamente siamo soliti associare alla vita condominiale: discutere, combattere, scacciarsi via a vicenda. Una chiara dimostrazione, se mai ce ne fosse stato il bisogno, dell’effettiva somiglianza della loro mente alla nostra…

Leggi tutto