L’annullamento della percezione sensoriale che precede l’immobilità apparente, morte, morte. Una forma immobile nella palude, dal torace nero, con sei zampe nere, occhi grandi e tondi dell’insetto che era stato un tempo, e che adesso non è niente tranne il guscio vuoto di un qualcosa che ha finito di… Soffrire. Affinché schiere di minuscole creature, invisibili persino a chi è abbastanza piccolo da esserne il sostentamento, progressivamente si propagano e ricoprono quella carcassa. Brulicando e contorcendosi, questi vermi iniziano a rigurgitare. E il loro vomito rispende nell’oscurità notturna, mentre come un fuoco sacro, purifica ogni minima traccia d’impurità. Certo: chi potrebbe mai azzardarsi a fagocitare, altrimenti, l’insapore carne di una cavalletta, grillotalpa o formica? O di un essere pensante con dei sentimenti, un’ideologia politica e speranze di gloria?
Si tratta, per noi e loro, di una mera e imprescindibile nozione naturale. Che ad ogni convergenza di fattori, una cosa viva possa transitare verso l’altro lato della barricata! E da tale inconoscibile recesso, fungere da nutrimento alle prossime terribili generazioni… Qualche volta, d’altra parte, strane cose accadono nel mondo. Giungendo ad aumentare la portata degli eventi: e non uno, ma neanche mille, sono gli esseri avviati verso quel destino. Bensì addirittura dieci volte tanto. Il che modifica, in maniera molto significativa, gli esiti segnati sulle pagine del Fato. 6 aprile 1862: la collina situata presso il lato meridionale del fiume Tennessee nella contea di Landing, nota come Pittsburg Landing, diviene il teatro di un terribile fraintendimento. E non sto parlando della maniera in cui le truppe confederate della guerra civile, sotto il comando dei generali Johnston e Beauregard (40.000 uomini) riuscirono a sorprendere l’armata unionista al seguito del grande Ulysses S. Grant (60.000 effettivi). Né della maniera in cui un distaccamento eroico di uomini al suo seguito riuscirono a resistere per sette ore nel tratto di foresta diventato celebre come “il nido di vespe” permettendo ai reggimenti di riorganizzarsi e montare una controffensiva efficace. E neppure dell’imprevisto caso del destino che avrebbe portato Johnston a morire dissanguato per una pallottola vagante, lasciando il bastone del potere nelle mani dell’incompetente collega, che avrebbe finito per ordinare una manovra di aggiramento nel momento e direzione errati, lasciandosi sfuggire la vittoria tra mani tremanti e impreparate. Bensì delle circa 20.000 persone appartenenti ad entrambi gli schieramenti, rese inferme da un’enorme varietà di ferite verso il sopraggiungere del vespro, che si contorcevano aspettando di morire in mezzo al fango del sottobosco paludoso, oppure (soltanto nei casi più fortunati) tratte in salvo per portarle da un medico, che avrebbe tentato per quanto possibile di migliorare le cose. Se non che i soldati incaricati di portare soccorso, di lì a poco, avrebbero notato qualcosa d’inaspettato: la maniera in cui una certa quantità dei loro colleghi moribondi, inspiegabilmente, avessero iniziato a sviluppare un qualche tipo di fosforescenza. Concentrata giusto presso i fori d’entrata delle pallottole, gli squarci delle baionette, i tagli inflitti da varie tipologie di spade o pugnali. Il che non avrebbe cambiato molto nell’immediato, riuscendo tuttavia nel farlo attraverso i giorni e settimane a venire. Poiché tra lo stupore di ogni personalità coinvolta, sarebbero stati proprio coloro che erano stati infusi da tale evidente intercessione dello Spirito Santo, a non vedere le proprie piaghe infettarsi, senza che le sanguisughe o i rudimentali disinfettanti dell’epoca potessero riuscire a fare alcunché. Sotto qualsiasi punto di vista rilevante, diventò perciò del tutto che chiaro. Che “qualcosa” in quella terribile contingenza, era entrato all’interno del loro corpo. Sebbene quel qualcosa avrebbe desiderato essere, indiscutibilmente, da tutt’altra parte…
Le possibili ragioni della moderna leggenda soprannominata “Splendore Angelico” che fece la sua comparsa nelle cronache di guerra americane, coadiuvata dall’effettivo ed inspiegabile racconto dei presenti, sarebbe stata quindi a lungo oggetto di numerose possibili ipotesi finché nel 2001, durante la visita del Parco Storico della Battaglia di Shiloh, un giovane studente diciassettenne di nome Bill Martin non decise di coinvolgere il suo compagno di scuola Jon Curtis e la madre in un singolare progetto di ricerca per l’annuale fiera scientifica Regeneron, all’epoca sponsorizzata dalla Intel. Il che non avrebbe forse potuto portare a molto, non fosse stato per la professione della genitrice in questione, scienziata presso il Dipartimento dell’Agricoltura Statunitense con specializzazione nello studio dei batteri di ogni possibile varietà e tipologia. Inclusa quella in grado di brillare al buio tramite l’effetto della fluorescenza, con possibili finalità d’autodifesa o per possibili effetti collaterali del proprio metabolismo. Così che il dinamico trio, analizzando le specifiche condizioni naturali e l’acqua di quel particolare tratto del fiume Tennessee, giunsero a notare l’esistenza in quest’ultime del microrganismo denominato scientificamente Photorhabdus luminescens, un batterio gram-negativo (e per questo maggiormente resistente agli antibiotici) caratterizzato da un particolare stile di vita simbiotico con varie specie di vermi nematodi parassiti. Creature anch’esse microscopiche, in effetti, capaci d’infettare gli artropodi e riversare conseguentemente il contenuto risplendente del proprio stomaco all’interno di tali organismi, affinché l’infintamente piccolo iniziasse a divorarli, prima che loro potessero trarre beneficio da tale orribile circostanza. Esseri del tutto innocui, sia il verme che il batterio, nei confronti di un essere umano, troppo grande, resistente e soprattutto eccessivamente caldo perché possano riuscire a sopravvivere mescolandosi al suo sangue. Se non che in quella gelida notte d’aprile, immersi parzialmente nell’acqua putrida della palude, i feriti della battaglia di Shiloh stavano iniziando ad andare in ipotermia. Il che avrebbe contribuito a rendere le loro membra perforate delle vaste porte, straordinariamente accoglienti per i piccoli vermi ed il loro carico d’infinitesimali, instancabili passeggeri.
Ora, potrebbe anche sembrare in linea di principio che non possa esserci nulla di peggio che una ferita infettata dai batteri, se non una ferita infettata da batteri E parassiti. Se non che in base alle specifiche leggi di natura, ciascun possibile ambiente ecologico può raggiungere un assoluto stato di saturazione, come avvenuto nel caso specifico di questi uomini così eccezionalmente “fortunati”, le cui lesioni sanguinanti iniziarono magicamente a risplendere della divina fluorescenza data dal rigurgito dei loro microscopici occupanti. Tali salvifici batteri, in tale modo, avrebbero cresciuto di numero e banchettato, più che mai prima nel corso della loro breve esistenza, aumentando a dismisura nel proprio numero e conseguente capacità di allontanare ogni altro possibile vettore d’infezioni potenzialmente letali. Quindi, una volta che ciascun ferito veniva soccorso e portato al caldo tra i suoi simili, sarebbero tutti immancabilmente morti per l’aumento della temperatura, lasciandosi dietro soltanto l’eccezionale qualità della loro opera, assieme a una realistica speranza, per l’ospite umano, di aver salva inaspettatamente la vita. Davvero un sacrificio degno d’esseri Superni. Nonostante il possesso, totalmente accidentale nonché fortunatamente invisibile, di un aspetto degno dei peggiori demoni dell’Inferno.
Un po’ come il paradosso eternamente inflazionato del gatto di Schrödinger, felino mai effettivamente esistito il cui stato apparente di non-vita e di non-morte è un’applicazione teorica dei concetti della fisica quantistica. Mai osservabile direttamente, in quanto posto all’interno della scatola, finché non fosse stato possibile, molti anni dopo, ascoltare il suo distante miagolio attraverso l’accelerazione ed impatto dentro un enorme anello nel sottosuolo della Terra stessa. Prima dell’invenzione di un microscopio abbastanza potente, e soprattutto dell’idea che qualcuno potesse pensare di usarlo sul campo di battaglia, lasciando come unica percezione possibile del batterio la sua stessa luminescenza. Ed è difficile immaginare, quel punto, qualcosa di più mistico e inspiegabile di ferite che brillano azzurrine nel profondo di una notte d’inizio primavera. Portando alla salvezza, più o meno miracolosa, di coloro che tutt’altro si aspettavano in un così terribile ed irrimediabile frangente.
Sarebbe perciò servito fino alla fine della guerra civile americana, nel 1865, perché l’applicazione delle nozioni tanto dolorosamente acquisite permettesse la creazione formale della tecnica del triage permettesse di scegliere efficacemente chi soccorrere prima, all’interno di un campo di battaglia orribilmente moderno, capace di contenere fino a letterali decine di migliaia di feriti. Per l’invenzione della penicillina sarebbe stato necessario aspettare d’altra parte fino al 1928, quando Alexander Fleming scoprì la maniera in cui una semplice muffa fungina potesse contrastare la moltiplicazione dei batteri di qualsiasi tipo, sia buoni che cattivi. E l’uomo iniziasse a salvare attivamente se stesso, piuttosto che attendere un parere positivo da parte del Grande Spirito nei cieli. O felici contingenze naturali; che poi non sarebbero, in fin dei conti, esattamente la stessa cosa?