Il valzer della bella e lo squalo

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C’era una volta sott’acqua, il re dei Sette Mari, la cui autorità si estendeva dall’Oceano Atlantico a quello Pacifico, dalle coste del Senegal alle Hawaii. Egli era saggio, e munifico, alto e meraviglioso, e aveva una lunga barba del colore delle alghe nell’era per loro gioiosa della meiosi sporica, il momento della fioritura. Finché una strega chiamata Natura, per sua propensione avversa al sovrano di un regno che minacciava di restare immutato per sempre, non lo incontrò tra le vie sommerse del Golfo del Bengala, ed alzando la sua bacchetta di manganite incrostata di smeraldi, lo colpì con una terribile stregoneria: da quel fatale giorno, egli non ebbe più gambe o braccia, ma pinne, e un’impressionante coda a forma di freccia, mentre il suo corpo si faceva affusolato ed enorme, raggiungendo la massa di 22 tonnellate. Geger lintang, presero a chiamarlo gli Indonesiani, usando un termine che letteralmente significa “Stelle sulla schiena” mentre i Vietnamiti preferirono l’appellativo Cá Ông, ovvero “il Signore dei Pesci”. Noi occidentali dei tempi moderni, sempre pragmatici benché meno propensi all’innata poesia, preferiamo invece la dicitura di Rhincodon typus, il comunemente detto squalo balena. Non c’è a questo mondo un altro essere così imponente, il più grande vivente dopo i cetacei, di cui sappiamo altrettanto poco. Con cui il dialogo è maggiormente difficoltoso, a meno di essere parte del suo originale entourage, camerieri, maggiordomi e governanti lasciatosi trasformare nelle affabili suppellettili dell’augusto castello sommerso. E la ragione, probabilmente, è da ricercarsi nel suo stile di vita, che lo porta trascorrerne una buona parte ad oltre 1.900 metri di profondità, come un orgoglioso eremita, che avesse con tale metodo scelto di nascondere i suoi lineamenti bestiali al mondo.
Ma persino il più terribile dei lupi mannari, che trascorre le notti di luna piena incatenato ai pilastri di un’immota caverna, occasionalmente dovrà uscirne e vivere i momenti gioiosi dell’esistenza. Altrimenti, egli si sarebbe semplicemente tolto la vita, giusto? E così l’enorme animale, più simile ad un’astronave che a un come nuotatore degli azzurri abissi, talvolta risale in superficie, per spalancare la bocca titanica da 310 file di denti e iniziare a fagocitare tutto quello che gli capita a tiro. Innumerevoli chilogrammi, ingenti quintali ed interminabili tonnellate, di materiale biologico sospeso nella corrente. Carne fresca, ma non nell’orribile senso di cui si potrebbe pensare: cobepodi, krill, plankton, gamberetti, uova di pesce, qualche seppia rimasta isolata. Esseri, insomma, di poca importanza. Per lo meno, nella scala metrica della nostra esistenza. Una fortuna? Senz’altro. Perché risparmia la pelle di noi galleggianti umani. Permettendo, qualora se ne presenti l’opportunità, di fare breccia nella possente scorza, per raggiungere infine la splendida mente, nascosta dietro l’aspetto di un mostro preistorico redivivo. Come nella fiaba riscritta dagli autori di mezza Europa, a partire dalla vicenda mitologica di Amore e Psiche, in cui una giovane donna si reca a far visita al nobile trasfigurato…

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L’incredibile visione di un lichene che cammina

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L’organismo simbiotico del fungo che convive col cianobatterio, oppure l’alga, dando vita a strutture che assomigliano piuttosto vagamente ad un vegetale in senso lato, ma in realtà sono…Tutt’altro! Incrostazioni fogliose, oppure rami piatti simili a dei filamenti, con centinaia di propaggini che puntano in diverse direzioni. C’è una grande condivisione, in questo: giacché, la metà verde della creatura, che riesce a produrre la fotosintesi, fornisce i composti organici, mentre il fungo processa e condivide i sali minerali. E noi dovremmo pensare, pur conoscendo l’organizzazione universalmente fluida della natura, che l’intero scambio si esaurisca in due esclusive controparti? Non scherziamo! Tutto ciò che è possibile, nella foresta, diventa dovuto. Incluso il fatto che una parte di ciò che dovrebbe essere, per quanto ne sappiamo, ASSOLUTAMENTE fermo, inizi attentamente a camminare. Una zampa alla volta, molto attentamente, come un camaleonte intento a mantenere il suo camuffamento. E che a un certo punto, lo strano essere arrivi addirittura a spalancare le sue ali, per poi balzare verso altri orizzonti della possibilità.
Questo video naturalistico del fotografo David Weiller, che negli ultimi giorni è ricomparso sul portale Reddit e da lì rimbalzato in giro per la blogosfera e alcuni tra i principali quotidiani online, raffigura un essere che sembra quasi familiare, ma in realtà appartiene ad una specie con alcune significative differenze. E con questo voglio dire che si, l’incredibile ninfa di Markia hystrix ripresa in Costa Rica non è che un’altra stravagante saltatrice tra gli insetti, ma del tipo appartenente alla genìa dei Tettigoniidae tropicali, comunemente definiti in lingua inglese con il termine onomatopeico di katydids (perché il loro frinire sembra ripetere all’infinito: Katy did, Katy did…) e che noi chiamiamo, per antonomasia, cavallette verdi o cavallette dalle corna lunghe. Le quali hanno in realtà ben poco a che vedere con le locuste comuni dalla tipica livrea marrone, ma risultano piuttosto simili ai grilli, in quanto non formano sciami, hanno le orecchie sull’addome e non sulle zampe ed emettono il tipico richiamo facendo stridere tra loro degli appositi organi, posti sulla parte superiore del doppio paio d’ali. Ma soprattutto sono caratterizzate da straordinarie capacità di mimetismo. L’avrete probabilmente notato! Oppure… Forse no. È del resto una questione mirata ad ingannare gli altri esseri viventi ed in particolare le nostre parenti scimmie, che notoriamente impiegano gli artropodi che vivono in prossimità della cima degli alberi come gradevole fonte di proteine. I quali, molto giustamente, fanno il possibile per rimanere inosservati.
Il tipico katydid, nella maggior parte dei casi, si accontenta di assumere una colorazione nettamente clorofilliana, contando sulle sue dimensioni approssimativamente simili a quelle di una foglia per confondersi nel mezzo della chioma sottostante. I primati, tuttavia, che sono straordinariamente furbi ancor prima che agili, in epoca remota appresero le caratteristiche esteriori che tradiscono l’insetto per ciò che realmente è. Proprio per tale ragione, attraverso secoli di evoluzione, nei paesi in cui la caccia si è fatta più spietata ed insistente, la famiglia delle piccole creature saltatrici ha appreso un metodo per rendersi ancor meno cospicua: assumere l’aspetto di una singola particolare pianta (o lichene) e trascorrervi, pressoché immobile, l’intero corso delle sue giornate. Fatta eccezione per l’occasionale ricerca di cibo, ed il momento lungamente atteso dell’accoppiamento.
Così la Markia hystrix, che è in realtà un’aggiunta piuttosto recente alla sotto-famiglia dei Phaneropterinae, probabilmente scoperta durante una spedizione naturalistica degli ultimi anni, ha progressivamente assunto, attraverso la selezione naturale, una colorazione sempre più chiara ed un corpo ricoperto di disordinate ramificazioni, che unito al fondo verde della membrana chitinosa delle elitre, contribuisce a farla sembrare quasi trasparente. Finché non le spalanca, e inizia l’insistente ed ossessiva serenata…

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La morsa ferrea del paguro lungo un metro

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Al termine della seconda guerra mondiale, le terre emerse di Tahiti costituivano ancora un luogo in larga parte incontaminato. Tralasciando i rottami di due navi francesi nel porto, affondate dalle cannoniere tedesche, e i segni del bombardamento conseguentemente subìto dalla colonia degli europei, il territorio della maggiore tra le Isole del Vento era coperto da una lussureggiante foresta pluviale, il cui contenuto rimaneva largamente sconosciuto ai non nativi. Ma le cose stavano per cambiare. Era il 1946, quando il celebre naturalista inglese Carl Alexander Gibson-Hill, con la sua equipe di studiosi, terminò di prepararsi ed avviò una spedizione tra l’ombra dei maestosi alberi, alla ricerca di specie animali o vegetali precedentemente sconosciute. La marcia proseguì spedita, mentre le candide spiagge, per la prima volta, svanivano dietro le spalle dei visitatori. Versi di uccelli mai sentiti prima accompagnavano la marcia silenziosa. Al risveglio dalla prima notte all’interno di alcune tende allestite in una spaziosa radura, tuttavia, il gruppo avrebbe avuto una spiacevole delle sorprese: diversi oggetti di variabile importanza mancavano all’appello. Delle posate ed un grosso coltello, lasciati distrattamente accanto al fuoco spento dell’accampamento. Alcune pentole metalliche, una borraccia. Addirittura un sandalo spaiato. Stupito e inquietato, Gibson-Hill si rivolse alla guida locale, chiedendogli se da queste parti vivessero delle comunità con cui non era stato ancora effettuato il primo contatto: “Mr England, tu non deve preoccupare. Uomini non ha rubato tue cose da accampamento. Questo furto è opera di ua vahi haari: grosso granchio che rompe il cocco.” Ah, d’accordo. Allora tutto ok. Immaginate un mostro alieno che si arrampica sugli alberi, grazie ad otto zampe unghiute e due possenti chele. Mentre le antenne, sottili ed agili come tentacoli, si muovono ritmicamente ad annusare in ogni direzione…
Probabilmente avrete familiarità, come chiunque sia mai stato al mare, con la buffa sagoma del granchio eremita. Uno degli esponenti delle molte specie del genere Pagurus, dalle nostre parti non più grande di qualche centimetro, caratterizzato dalla graziosa abitudine di proteggere il suo molle addome con qualcosa di trovato in giro, come una piccola conchiglia, un pezzo di legno, un tappo di bottiglia… Ora simili animali, come molti altri crostacei, raddoppiano le proprie dimensioni più volte nel corso della propria vita, evento a sèguito del quale non soltanto scartano il proprio esoscheletro, per costituirne faticosamente uno nuovo, ma devono immediatamente premurarsi di trovare una casa nuova. Ora queste creature vivono in comunità, ragione per cui un’intera famiglia di essi, quella maggiormente adattata alla vita sulla terra ferma, prende il nome di Coenobitidae, ovvero in latino ecclesiastico “[Coloro] che prendono parte al convivio”. Tende a verificarsi occasionalmente, dunque, una strana occasione: decine e decine di paguri, l’intera popolazione di una spiaggia, s’incontra all’alba per decidere chi abbia diritto alle conchiglie migliori. Gli esemplari più grossi combattono bonariamente tra loro, mentre quelli piccoli generalmente, possono godere dell’acquisizione dei loro scarti, che comunque indossano con estrema soddisfazione. Come si dice: la spazzatura di qualcuno è il tesoro di qualcun altro! Tutti prendono parte al vivace carosello, e generalmente, tutti ricevono, alla fine, un abito (quasi) perfetto per loro. Tutti… Tranne il più grande e nudo dei Coenobitidaeche ormai da molti secoli ha del tutto rinunciato a procurarsi un abito della sua misura. Egli è il Birgus latro, o come viene più comunemente chiamato, lo spaventoso granchio ladro.
La caratteristica principale di questo insolito prodotto dell’evoluzione, che in epoca remota è riuscito inspiegabilmente a colonizzare un vasto numero d’isole estremamente distanti tra loro nel bel mezzo del Pacifico e dell’Oceano Indiano, è che esso si è completamente adattato alla vita nell’entroterra nella sua forma adulta, arrivando ad abitare a fino 6 Km dalla spiaggia più vicina. Finché non giunge l’ora di tornare al luogo della nascita, per deporre le proprie uova.

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La pianta che uccide la fotosintesi umana

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Chi ha detto che la morte e la sofferenza hanno sempre un aspetto orribile, offrendoci l’opportunità di sfuggire sulla base del nostro istinto innato? Talvolta, ciò che è bello nasconde un terribile segreto. E soltanto chi compie l’errore di toccarlo, potrà conoscere gli abissi più profondi ed atroci del senno di poi. Guardate per esempio, questi magnifici e svettanti fiori biancastri… Ci pensereste due volte, a toccarne il fusto per avvicinarvi e sentirne da vicino l’odore? Eccovi dunque, un avviso di pubblica utilità: non fatelo mai NELLA vostra intera VITA.
Ora, nello specifico non è particolarmente diffuso il caso di persone che, per trascorrere un pomeriggio un po’ diverso, scelgano di camminare lungo il tratto della Strada Statale 50 che collega i paesi di Bellamonte e Paneveggio, sebbene si tratti una parte estremamente gradevole del Trentino e un esempio di paesaggio italiano naturalmente simile al giardino di un lord. Ma l’impiego preferenziale di automobili è un’ottima fortuna, come si può chiaramente desumere da questo video dell’utente Paolippe risalente a un paio di anni fa, in cui egli ci mostrava un aspetto…Lievemente…Problematico di questi rigogliosi prati: la presenza non spiegata e totalmente fuori controllo di una delle piante più pericolose al mondo, la Pànace gigante di Mantegazza (Heracleum m.) che prende il nome dal patriota, darwinista e precursore ottocentesco della fantascienza italiana, Paolo Mantegazza. Un dubbio onore concessogli dagli amici e colleghi scienziati Emile Levier e Stephane Sommier. Basterebbe infatti soltanto sfiorare questi sottili arbusti di fino a 5 metri, lasciando che la linfa che la ricopre entri in contatto con la propria pelle scoperta, per ritrovarsi a gestire il pieno effetto di un terribile veleno. I cui sintomi, piuttosto che includere uno stato temporaneo di paralisi o causare un “semplice” forte dolore, ricercano un metodo più subdolo per farvi pentire di essere nati: spalancare le porte della vostre difese contro i raggi UV, per poi lasciare che sia l’inconsapevole astro solare, ad ustionare orribilmente la parte colpita. L’esperienza personale di chi resta affetto da questa malefica specie vegetale, appartenente alla famiglia delle apiacee, imparentata con il ben più semplice finocchio ed altre piante usate in ambito alimentare, appare spesso degna di essere narrata attorno ad un fuoco acceso per la notte di Halloween, tanto scuote dalle fondamenta la nostra concezione di un mondo in cui tutto dovrebbe tendere in qualche maniera al bene. Davvero, voi non avete idea! Perché per qualche terribile momento, non succede assolutamente nulla.
Più di un povero bambino in Gran Bretagna, paese in cui la pianta originaria del Caucaso è molto diffusa, negli ultimi anni si è avvicinato ed ha preso a giocare col pànace, entrando in contatto col tronco e le foglie. Oppure, ipotesi ancor più atroce: un cane portato a passeggio si era avvicinato, possibilmente senza riportare conseguenze (alcuni animali sono immuni) ma portando nel pelo una quantità esiziale dell’insidiosa linfa. Toccata la pianta o l’animale, trascorsi 20, 30, 40 minuti: fino a lì, zero sintomi. Quindi qualche ora dopo, con un arrossamento improvviso, le mani, braccia e talvolta anche il viso si sono quasi istantaneamente ricoperte di enormi vesciche, richiedendo una rapida corsa all’ospedale più vicino. E sia chiaro che questa condizione rischiosa, che in casi estremi può anche condurre alla cecità e alla morte, non era una reazione allergica, né l’effetto su di un fisico indebolito da altri problemi di salute, ma l’imprescindibile effetto di una concentrazione estrema di furanocumarine fotosensibilizzanti, un tipo di sostanze usate nelle creme abbronzanti fino al 1996. Ma non c’è niente che nutra e protegga la pelle, nell’atroce vendetta della pianta che prende il nome del buon Mantegazza…

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